Il titolo è farlocco. In realtà lo sappiamo, da dove spunta fuori Michele Mininni. Lo sappiamo bene. Lo seguiamo da tempo non indifferente, da quando le rispettive strade social si sono incontrate un po’ per caso un po’ no; e abbiamo ad esempio esultato quando l’abbiamo visto finire su una etichetta leggendaria come R&S (sì, avete letto bene: la R&S), o quando gente di un certo livello – vedi gli scozzesi Optimo – lo accoglievano sulla loro label. Tutto meritato. E roba che pochi produttori italiani possono vantare (e per cui molti venderebbero l’anima, o poco meno). Il problema è che Mininni è un anti-personaggio. O, visto da un’altra prospettiva, e lo si capisce anche dalle sue reference musicali, ha un po’ tanto di anni ’90 addosso: quando cioè nell’elettronica era più importante (e fascinoso) essere solitari ed originali, piuttosto che incasellabili, ben inseriti e con strategiche frequentazioni come oggi.
Non è che la musica buona esca solo dall’attitudine anni ’90, per carità. C’era un sacco di rumenta anche lì (così come c’è un sacco di roba buona che esce nel 2024). C’era un sacco di gente che imitava quello che funzionava, eccome, pure nei ‘90. C’era (già) un sacco di gente che trattava la musica elettronica come un ascensore sociale ed economico, più ancora che come una necessità d’esprimersi sfuggendo ai meccanismi del mainstream o mettendosene almeno a lato. Certo che c’era. Però è vero che la figura del producer un po’ recluso un po’ particolare, un po’ incatalogabile e un po’ chissà, era popolare. Piaceva. Poteva funzionare, era valore aggiunto. Aveva qualche carta da giocare. Dal 2000 in poi, tutto questo è andato sempre più sfarinandosi, e perfino la scena alternativa e sotterranea ha in realtà abbracciato meccanismi di hype e di “scena” simili a quelli del mainstream, solo applicati su scala magari più circoscritta. Dove vuoi che vada oggi un Michele Mininni, che non si sbraccia per farsi notare? Che non gioca al gioco dei wannabe vincenti? Che sta lì, silenzioso e un po’ malinconico rispetto alle sirene del mercato e della coolness? Che non cerca di entrare nei giri giusti? E quando ci entra per mera bravura, perché questo è successo, poi non batte il ferro finché è caldo?
Scriveva infatti su una positivissima recensione della release su R&S prima citata l’amico giornalista Andrea Pomini una cosa tipo “Molto interessante, ed ora aspettiamo l’album”. Bene: da quella recensione, da quella release, per avere un album sono passati sette anni. Sette. Anni. Una follia.
(Sette anni fa; continua sotto)
Il risultato concreto è che molti oggi potrebbero non accorgersi di “Pop Archetypes”, che esce peraltro su una label che spesso ha inanellato mosse di gran gusto e cura ma – anch’essa – dotata di scarso cinismo fashionista, ovvero l’italiana Hell Yeah (negli anni ha fatto uscire davvero tanta musica di casa nostra meritevole e fragrante, fatta gente di spessore, più che da gente abile a muoversi nel nuovo millennio). A peggiorare ulteriormente le cose, “Pop Archetypes” non è il Mininni della R&S e degli Optimo; anzi, a farla più grave non è nemmeno un Mininni prettamente danzabile, è stavolta più uno da ascolto, per quanto abbastanza infarcito di breakbeat e bpm. Soprattutto, ‘sto Mininni in versione album è uno che, più che dalla club culture che piace oggi alla gente-che-piace, attinge semmai dagli Stereolab e dal pop intelligente, cinematico e lunare formatosi negli anni ’90, quello che rappresentava la parte più “chill” e lounge-exotica delle meravigliose video playlist notturne di “Chill Out Zone” su MTV.
(“Pop Archetypes” su Bandcamp, fate il vostro ascolto e poi il vostro acquisto; continua sotto)
Senza porsi nessuna ansia e responsabilità di essere attuale, ma anzi annegando di un ipnagogico miscuglio tra i Laika, i Tuxedomoon, le colonne sonore sci-fi anni ’70, i Boards Of Canada, la musica per l’infanzia, i primi esperimenti di drum’n’bass giocosa più che tremendista e molte altre cose ancora (tipo l’acid jazz giapponese più psichedelico, sì, noi c’abbiamo sentito pure questo), Mininni ha sfornato un gioiellino assoluto.
Quasi con noncuranza, ha messo sul piatto una quantità di idee, di soluzioni deliziose, di classe, di inventiva, di coraggio e di originalità che – ve lo possiamo mettere per iscritto, firmandolo – nella musica italiana di quest’anno si sentirà gran poco, anche perché sono quasi tutti in altre faccende affaccendati. Difficilmente in altri casi di release italiane da recensire riusciremo a mettere, tra i nostri appunti durante l’ascolto, prima “È un incrocio tra una produzione di Madlib e della footwork strana” (traccia “Muting Cat”) e poi, subito dopo, “Questo è quanto ci sarebbe piaciuto sentire fare a Cosmo se non fosse tornato a inseguire un po’ Battisti” (traccia “Vertigo”). Cioè, capite?
Poi chiaro: se Mininni avesse la cazzimma inglese o la perseveranza berlinese invece della flemma italiana, si prenderebbe molto più sul serio, spenderebbe più tempo ad irrobustire il corpo sonoro delle varie tracce dell’album, pretenderebbe qualcuno in grado di fare un mastering della madonna che esaltasse ulteriormente e definitivamente i quindici piccoli diademi che compongono l’album (…giusto una o due tracce ci hanno convinto a metà, ma sono buone pure quelle.). E questi stessi diademi li avrebbe fatti meno piccoli, non li avrebbe tenuti a livello di sketch (quasi tutti entro i due minuti) ma li avrebbe sviluppati, inspessiti, resi più magniloquenti, più sicuri di se stessi, più arroganti. Ché se lo potevano – e potrebbero – permettere.
Però va bene lo stesso anche così, oh. Caspita se va bene. Anche così è una release deliziosa, che vi straconsigliamo. L’unico problema è che forse anche dopo di essa, dopo la sua release continueremo a dover dire “…ma da dove spunta fuori ‘sto Michele Mininni? Com’è possibile che uno con così tanto gusto ed idee non sia già megaconosciuto, almeno fra gli intenditori della faccenda”? Ma che almeno più persone entrino in contatto con una mente musicale così affilata e piena di gusto, beh, è un desiderio, è una necessità. Fatelo!