Insomma, cosa vi aspettate? Un nuovo miracolo alla “Homework”? Un convincente statement sulla disco-del-retro-futuro alla “Discovery”? Un essenziale esercizio di stile come “Human After All”? Sia come sia, speriamo solo che non vi stiate aspettando un disco di cover degli Chic, con qualche concessione al pop-fatto-bene stile Toto e qualche alzata d’ingegno più retorica, ad orecchie smaliziate, che convincente… Il problema è che con “Random Access Memories” è esattamente quest’ultima cosa quella che avrete. Già. Oh, potete anche farvela bastare. Può anche essere che abbiate bisogno dei Daft Punk per (ri)scoprire, nel 2013, la disco degli Chic o certe rodomontate che strapperebbero un sorriso di scherno o bonaria pietà da chiunque abbia ascoltato i Genesis dei bei tempi. Può essere. Ma in questo caso, non contate su di noi.
Sì, questa recensione non è una recensione positiva. E no, credeteci, la nostra non è una posizione preconcetta. Certo: è ovvio che tutta l’ansia che sta precedendo da mesi questa uscita del nuovo parto dei due francesi possa risultare leggermente fastidiosa o – altra faccia della stessa medaglia – venga vista come una geniale e prolungata ma mera operazione di marketing. Tuttavia vi assicuriamo che al momento di ascoltare da cima a fondo l’lp tutti questi retropensieri e queste considerazioni a margine le abbiamo lasciate da parte. Completamente. Perché non sarebbe stato giusto infilarle nel giudicare l’album. O almeno, diciamo, non sarebbe stato e non è necessario.
Il problema sta proprio nella mancanza di ispirazione che ha colpito (irrimediabilmente?) Guy-Manuel e Thomas. Ecco. Una mancanza di ispirazione che è coperta con due tipi di maquillage: l’effetto-nostalgia e l’effetto-figurina (la citazione cioè a profusione di musiche della loro infanzia ed adolescenza) da un lato, la ricchezza degli arrangiamenti e l’importanza degli ospiti dall’altro. C’è una cosa che mostra, con chiarezza cristallina, quanto questa affermazione sia dimostrabile in modo quasi aritmetico: tre delle tracce migliori del disco (a nostro modo di vedere, le migliori) sono “Get Lucky”, “Motherboard” e “Doin’ It Right”. Bene: peccato che tutt’e tre si appoggino ad un certo punto sullo stesso giro (è quello di “Get Lucky”, quindi lo conoscete già: in “Motherboard” viene immerso in una mistura che ricorda un po’ il pop intelligente del Peter Gabriel anni ’80, in “Doin’ It Right” la presenza di Panda Bear dà l’unica botta di modernità offrendo l’ispirazione per un arrangiamento electro anche interessante e convincente). Onestamente: dopo tutti questi anni di silenzio, non puoi spalmarmi su tre pezzi la stessa idea. Oppure puoi farlo, ma devi mettere in conto che io mi convinca che tu, amico col caschetto, le idee le hai praticamente finite, o comunque, te ne vengono fuori poche e col contagocce quindi devi centellinarle e/o riciclarle.
Perché la ricchezza degli arrangiamenti, che c’è (vedi le digressioni sinfoniche, o da musical, o prog), è comunque basata su una interpretazione calligrafica, da cartolina-ai-genitori compìta e corretta, di cose già strasentite, già fatte, già registrate. Questo è il problema. Se si ha un minimo, ma veramente un minimo di cultura musicale tutto questo si avverte in modo nitido ed inequivocabile.
E’ tutto uno schifo? No, per carità. “Random Access Memories” ha anche pregi: indubbiamente si ascolta volentieri, le tracce scorrono che manco te ne accorgi, i nove minuti di “Giorgio By Moroder” vanno via in un attimo e questo significa che il pezzo è costruito veramente bene tecnicamente come struttura; così come anche altri brani hanno lunghezze importanti però non ti fanno mai guardare sbuffando il timer della traccia. Ti assale piuttosto un torpore/tepore tra il rassicurato e il rassegnato, questo sì, perché non stai sentendo nulla di nuovo, non stai sentendo nulla che ti sorprenda davvero, e forse stai sentendo solo una gradevolissima mezza presa in giro (quale la partecipazione di Moroder nel disco è: una traccia con frammenti di lui che racconta la sua vita, la sua storia artistica – ma allora tanto vale andare a cercarsi il filmato della sua lecture alla Red Bull Music Academy di New York, quando andrà on line… sarà molto più completa e circostanziata).
Ecco. Proprio Moroder ad un certo punto, parlando dei suoi inizi come compositore nella traccia suddetta, dice chiaramente “There was no preconception of what to do”: l’avessero ascoltato veramente, Guy-Manuel e Thomas in queste parole. Perché la realtà è che “Random Access Memories” è invece tutta una gigantesca “preconception”, è solo cioè una monumentale raccolta di stilemi già sviluppati da anni da altri (non certo da loro), ripresi senza tentare la minima reinterpretazione che metta in campo una forte personalità artistica dei due Daft. Personalità che in “Homework” traboccava (ha messo a soqquadro la house, quando uscì), che in “Discovery” scorreva a fiumi (perché era effettivamente una disco da retro-futuro molto immaginifica e coinvolgente). Personalità che ora non c’è più. Perché questo “Random Access Memories”, signore e signori, è fondamentalmente un disco di cover. Ad altissimo livello, certo, d’altro canto se i tuoi turnisti sono persone come Nathan East, Chris Caswell, Omar Hakim, John Jr. Robinson (meritano un giro di Google, se non li conoscete, e poi giù il cappello: mostri sacri) allora diamine, ci mancherebbe che fai un disco che suona male, che è suonato piatto. Ma tu, cosa c’hai messo? Il giro di “Get Lucky”, e va bene. L’agenda del telefono per chiamare super turnisti, ok. Il sorriso di Nile e il suo funky, evviva. Pharrell e la sua voce sexy, yeah. Ma allora andiamo tutti insieme a berci una birra, che facciamo prima e magari parlando e cazzeggiando ci viene in mente qualche idea nuova. Stavolta per davvero.