“E non ti chiede niente
Perché negli occhi tuoi
E dentro la tua mente
C’è soltanto lei”
Charles Aznavour
Devo fare una confessione: c’è stato un momento – che ha coinciso con la mia prima visita, quasi dieci anni fa – in cui non ero per niente affascinato da Venezia. “Una quantità eccessiva di turisti, troppa puzza di acqua stagnante, insopportabilmente caotica nella sua viabilità e vivibilità” erano solo alcune delle bordate proferite con quella sicumera tipica di chi crede che basti un’occhiata di sfuggita tra uno spritz e l’altro per carpire l’essenza di un luogo della Terra in cui alla razza umana è clamorosamente scappata la mano. Era bastata una seconda visita solitaria – in una di quelle giornate algide di mezzo inverno dove il cielo terso sembra una piscina olimpionica e persino i gabbiani mannari e le orde barbariche orientali paiono intrisi di luce propria – per capire che, con tutti i suoi inevitabili difetti, Venezia avesse la dote di trascendere il chiacchiericcio e la dicotomia dell’amore e odio che inevitabilmente la circondano. Con la spavalderia di chi accetta tutto, dalle lodi melense ai giudizi tranchant, ricusando solo un sentimento: l’indifferenza. Quella, nella Laguna, non potrà mai avere cittadinanza.
Per tutti questi motivi, non posso nascondere che essere invitato all’edizione 2023 di Set Up – il festival site-specific realizzato da Palazzo Grassi in una location iconica come la Punta della Dogana, in piena coincidenza con l’apertura del Carnevale più famoso al mondo, insieme a quello di Rio – non potesse che farmi provare quel brividino un po’ fanciullesco che è – de facto – la perfetta antitesi dell’indifferenza.
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Tra un giro sul vaporetto, uno show di burattini improvvisato per strada, una parata sull’acqua da pelle d’oca e una quantità incalcolabile di cicchetti e scalini, la città degli innamorati si è distinta, anche e soprattutto, per la tanta buona musica offerta nella due giorni della manifestazione. In una fascia oraria – dalle 20 alle 2 – oserei dire ideale per noi “nouveau-âgé” del mondo della notte. Come a non voler privare i propri astanti del tempo necessario per godere a pieno anche del colossale contorno a disposizione.
Inoltre, grande merito agli organizzatori che hanno saputo intarsiare una programmazione artistica varia, accattivante e soprattutto scevra da quelle scelte un po’ scontate e facilone che nella testa di tanti sono necessarie per agevolare al botteghino. E nonostante certe sperimentazioni artistiche fatichino sempre a certe latitudini, il risultato è stato un perentorio sold out già settimane prima del calcio d’inizio. Coinvolgendo un pubblico super eterogeneo e parecchio preso bene, quasi privo di quegli stucchevoli presenzialismi che ci si potrebbe facilmente attendere in un contesto veneziano che spesso si presta – a volte involontariamente, altre meno – a certi fenomeni.
Sono state tutte scelte azzeccate? Alcune decisamente sì – vedi la freschezza e il sano divertimento portati da Charlotte Adigéry e Bolis Pupul, qui sopra immortalati durante il loro live. Così come la rinfrancante caoticità dell’Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp, con dodici persone sul palco ad arringare la folla in un simposio di controtempi e climax emozionali che a volte forse riempiono l’aria di troppi suoni ma che mai valicano il confine della cacofonia.
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Altre francamente hanno convinto meno, su tutte Tolouse Low Trax: un live set breve, sciapo e senza sussulti. Una performance “pietosamente normale”, per citare dall’opera magna di Paolo Villaggio. Dove il massimo highlight è stato un ragazzo davanti alla consolle che ballava in modo scalmanato senza preoccuparsi delle dita puntate e delle risatine. Chapeau, davvero. Anche le performance concettuali firmate da Riccardo Benassi – a spezzare gli act principali in entrambe le serate – sono sembrate francamente evitabili e forse mal comprese da chi vi scrive. Ma su questo tema mi rendo conto che manchi una vera metrica di giudizio universale e in fin dei conti la gente sembrava contenta di leggere un muro di testo ballando techno, perciò bella per loro e per lui.
Discorso a parte meritano l’anglo-congolese Nkisi e la franco-tunisina Deena Abdelwahed, nomi freschi della scena e impegnate a chiudere le danze rispettivamente nella prima e nella seconda sera. Due visioni complementari della techno attuale – da un lato ritmi incalzanti con qualche strizzata d’occhio ai ritmi tribali, dall’altro tanta cassa spezzata e qualche giochetto (di troppo) col mixer. In entrambi i casi: ottima la selezione ma migliorabile la tecnica, soprattutto nel secondo caso.
Il tutto è stato corroborato da una venue davvero spettacolare (qui sopra vedete come si presentava la sala principale durante il set di Nkisi), dominata da mattoni e travi a vista. Con deflusso e servizi molto ben organizzati e funzionali, che in una città dove di solito la praticità è un tabù come lo spritz col Campari vale sicuramente doppio. Unico appunto, grosso: un cocktail a 10 Euro posso capirlo, l’acqua a 3 Euro no, neanche a Venezia. Fate i bravi.
Il risultato finale è, in definitiva, quello di aver rispedito tutti in giro per i vicoli di Dorsoduro e San Marco, per due sere consecutive, col sorriso sulla faccia e le gambe belle spossate. Nulla più di ciò che si debba chiedere a una festa e a una città che in nessun modo possono lasciare indifferenti. E che dimostrano che tra i canali e le gondole e i turisti si possono sì ospitare gran bene, quando si vuole, (anche) eventi di questo tipo.
Foto di Matteo De Fina