Sono gemelli, di nome fanno Marco e Fabrizio e di cognome D’Arcangelo. Questi due ragazzi sono stati tra i motivi per cui l’Italia ha potuto dire la sua ad altissimi livelli per molto tempo. L’etichetta per la quale hanno prodotto parecchi dei loro lavori prende il nome di Rephlex. C’è la storia tra le righe che leggerete, romantica e appassionata, ci sono i rave romani negli anni novanta e Londra come punto di partenza di un viaggio che ancora oggi ci regala emozioni. C’è Aphex Twin, ovviamente, e ci sono due musicisti che ci hanno creduto sempre, anche quando le mode sono passate e sono diventate vintage. Anche quando sperimentare è divenuto un concetto che occorrerebbe rieditare.
Partiamo subito dalla domanda che, banalmente, potrebbe essere tra le più ovvie nel vostro caso: la scena romana dei primi anni ’90 e i rave. Me la raccontate?
Quando noi abbiamo iniziato a produrre, la scena rave di Roma era già molto forte e radicata. Noi, come tanti altri, ci siamo trovati catapultati sul carrozzone. Abbiamo conosciuto questo ragazzo, Max Durante, uno dei pionieri della rave generation. Quella è stata la svolta. C’era un grosso giro, a quei tempi, ricordiamo che si arrivava ad avere anche due o tre rave a settimana. Quindi ci siamo trovati dentro questo vortice e ad un certo punto ci è stata data la possibilità di partecipare alla produzione di un rave importante, c’era dietro la Plus 8 Records di Richie Hawtin per intenderci. Era la prima volta che venivano in Italia ed in unica data a Roma, noi ci siamo buttati a pesce. Da quel momento il nostro interesse verso i rave si è impennato. Dopo un’esperienza del genere – c’erano artisti del calibro di Hawtin, Speedy J e Kenny Larkin – non potevamo far altro che gasarci.
E quindi cos’è successo con Max Durante?
E’ successo che lui conosceva molto bene lo studio dell’A.C.V. e allora noi ci siamo avventurati in questa piccola produzione fatta in casa, spronati dalla cosa. Considera che allora era più difficile produrre rispetto ad oggi, lo saprai bene anche tu. Oggi ti basta una stanza, delle buone casse ed un iPad, per dirne una. A quei tempi utilizzavamo sintetizzatori, batterie elettroniche, campionatori. Insomma, era anche una spesa non indifferente. Come ti abbiamo già detto ci siamo trovati catapultati nella scena romana dei rave, con le radio che ci supportavano moltissimo e un ottimo ambiente in cui lavorare. Ricordiamo, per esempio, Radio Centro Suono Rave capitanata da Luca Cucchetti, la quale funzionava davvero molto bene. C’era parecchia roba, davvero tanta, ma alla fine, come tutte le avventure, seppur lentamente, anche quella è finita.
Ma com’erano i Rave a Roma, come si svolgevano? Probabilmente non tutti lo sanno.
Molto movimentati (ridono). C’era gente che lavorava al solo scopo di prendersi la “paga settimanale” per andare al rave. Era una scena particolare, perché in fondo, in Italia è sempre stato un tipo di movimento che abbiamo un po’ maltrattato. Era diventata una scena preoccupante per i soliti bigotti. Si era arrivati addirittura ad organizzare piccole inchieste in TV. C’era davvero moltissima gente fuori e dentro la scena e si era generato un interesse importante poi, ripetiamo, con il tempo si è affossata, fino a spegnersi. Devi immaginare che la gente da rave è un pubblico particolare, lo era ancora di più negli anni novanta. Non erano il tipo di ragazzi che andavano in discoteca a sentire l’house per far vedere quanto erano belli, ed è una cosa che abbiamo sempre apprezzato. C’era parecchio movimento, ma dall’altra parte notavamo anche la solita storia della “diatribella romana”- non c’interessa se qualcuno si offende – del se tu fai questo, allora io lo devo fare meglio di te. C’è sempre stato questo nemmeno troppo velato tentativo di superare il prossimo, o quantomeno esserne convinti. E bada che era una cosa che coinvolgeva tutti: dal produttore al grafico fino, ovviamente, all’artista. Ti dirò che noi a quel punto ci eravamo già abbastanza straniti.
Nel senso che vi aveva annoiato?
Più che altro avevamo iniziato a viverlo dall’interno, lavorandoci, così ad un certo punto abbiamo captato qualcosa di anomalo; la scena era diventata sterile, non c’era più niente di nuovo, ma non solo per noi, anche per molti altri. Il terremoto, per chi lo ha saputo prendere, è arrivato con il primo live di Aphex Twin. Quello è stato il vero cambiamento. Con quella performance lui riuscì a spaccare la scena in due, perché era una cosa che nessuno aveva mai sentito prima. Poi lo rivedemmo dal vivo a Zurigo, quando facemmo il nostro live d’esordio all’estero e tra tutti i grossi nomi come Jeff Mills, Sons Of Ilsa, Kenny Larkin, per dirne alcuni, c’era anche Richard. La sua fu un’esibizione strana, perché ebbe un’attitudine nettamente differente rispetto agli altri. Durante un suo brano, per esempio – un inedito che non è mai uscito e che noi abbiamo in videocassetta – la gente si trovò completamente frastornata, non sapeva se ballare, ascoltare oppure che altro fare. Quei due momenti e quei due live furono per noi la scissione da un certo tipo di sonorità e di attitudini. Poi abbiamo avuto l’occasione e, soprattutto, la fortuna di conoscere le persone giuste al momento giusto. La nostra offerta è piaciuta e siamo andati avanti. Fine.
Cosa volevate comunicare quando avete iniziato a suonare, qual era il messaggio che stavate cercando di trasmettere?
Siccome inizialmente per noi era esclusivamente una cosa che facevamo per passione, come valeva per molti altri, tendevamo ad imitare qualcuno o quantomeno a voler dire la nostra rispetto un determinato movimento. I dischi rave avevano quell’impronta, quello stesso timbro, il classico suono che poi è stato definitivo in diversi modi, alcuni tra l’altro orribili. L’hanno chiamato il Suono della Zanzara, per darti un’idea. Hanno scritto libri e a cavalcare quell’onda ci si sono tuffate anche diverse etichette che facevano uscire compilation con nomi completamente sconosciuti. Non dico che non ci fossero artisti di spicco, mi viene in mente Digital Boy, conosci?
Certo, l’alias di Luca Pretolesi.
Ecco, questa era gente che lavorava parecchio. Però uscivano anche queste compilation assurde. Ce n’era una che non dimenticheremo mai, s’intitolava Martello (ridono). Non era più cultura della musica elettronica, era diventata un’altra cosa, uno spettacolo, intrattenimento. Il nostro obiettivo, la nostra missione era di cambiare quella concezione e, per quanto potevamo, quella della gente che ascoltava, anche perché iniziavano a uscire i primi import della Warp, come Black Dog, per esempio. Sentivamo che c’era qualcosa di nuovo oltre alla conclamata saturità della scena. Da Londra arrivano le cose più interessanti, quindi noi, una volta chiusi tutti i progetti precedenti legati all’hard techno – come Automatic Sound Unlimited – abbiamo cercato di scinderci, mantenendo in ogni caso la passione per quei suoni industriali. Lo puoi notare nel progetto Centuria City, dove abbiamo avuto modo di poterci esprimere con cose completamente differenti. Sotto questo aspetto siamo stati molto fortunati, abbiamo capito che in Europa c’erano possibilità, così ci siamo detti: vediamo come va.
E così è nato anche l’altro progetto, Automia Division. Dico bene?
Sì, esatto. Il progetto più melodico. Lì dentro c’erano le due nostre facce, tecnicamente. Entrambe le nostre differenti concezioni della musica elettronica unite.
Benissimo, a un certo punto siete finiti sotto contratto con la Rephlex. Com’è successo?
È successo che io (Marco), nel 1993, per motivi personali e di lavoro, mi trasferii a Londra, quindi non per cercare la gloria e fortuna, sia chiaro, ma ero lì in fin dei conti. Dunque un giorno capita che mi ritrovo in quel posto giusto e in quel momento giusto di cui ti accennavamo prima, ovvero in un negozio di dischi, il Silverfish. Conosco uno dei proprietari, colui che poi diventerà mio grandissimo amico e collega: Marco Lenzi, con il quale fondai in seguito la Molecular Recordings. Insomma, io quel negozio lo avevo trovato quasi per caso, mi faccio un giro tra gli scaffali e scopro un paio di copie dei dischi miei e di Fabrizio, così inizio a chiacchierare e lui mi fa vedere questa fanzine che riportava, tra i primi dieci artisti di una classifica stilata da Grant Wilson-Claridge, la nostra traccia “Diagram 2”. Per i tempi che erano, quella fu una gran cosa ed io rimasi davvero molto contento. Per com’ero fatto gli avrei regalato anche una statua, ma decisi che era meglio di no (ride). A parte gli scherzi, in quella stessa occasione Marco Lenzi mi disse che Grant bazzicava il Silverfish ed io risposi, con un sorriso a trentasei denti, una cosa del genere: “Mah, se ti capita… magari… quasi quasi… faglielo sentire”. Anche perché, nella realtà, il suo nome girava molto nonostante non si sapesse effettivamente chi fossero le teste dietro della Rephlex. Voglio dire, si sapeva che era l’etichetta di Aphex Twin. Anche in quell’occasione siamo stati molto fortunati, perché poi incontrai Grant di persona, il quale mi disse che quel disco gli era piaciuto tanto. Tra le altre cose, mi capitò anche un episodio precedente, in cui durante un post serata, diedi quello stesso disco a Richard James, il quale mi guardò con occhi perplessi, come a dirmi: “Io questo ce l’ho già.” Sono cose che non ti fanno dormire la notte. Fidati. Non so quanto sarei riuscito a fare lo stesso percorso con la tecnologia attuale, che è un’arma a doppio taglio, per motivi che magari ti spiegherò. Tutta la storia è iniziata così, insomma, con Grant che mi disse che avrebbe avuto piacere ad ascoltare qualche nostra demo e con noi che non ce lo siamo fatti ripetere due volte.
E a quel punto?
A quel punto abbiamo aspettato tantissimo. Quasi due anni e mezzo. Ti lascio immaginare quante demo ricevevano loro al giorno. In ogni caso non avevamo nulla da perdere in fondo, nonostante altre nuove etichette che poi fecero uscire cose eccezionali, ci avevano adocchiato. Ripeto, siamo stati bravi, fortunati e abbiamo aspettato molto. Ma ne è valsa la pena.
Che rapporto avevate e avete con Grant e Richard?
Richard non lo abbiamo visto molto, lui è un ragazzo che tiene parecchio alla sua privacy, oltre a questo sa di essere sempre stato nell’occhio del ciclone. E’ una persona molto disponibile, ma ti lascio immaginare, soprattutto allora, il tipo di personaggio. Era ricercatissimo. Con Grant è tutta un’altra storia. Lui è quello che ha sempre tenuto le redini della Rephlex e quindi c’era un altro tipo di legame. Siamo amici. Sono stati per noi due personaggi differenti: c’era Aphex Twin l’artista, con quel tipo di rispetto e venerazione che non potevi fare a meno di dargli. Noi non andavamo a chiedere un suo disco alla Rephlex. Lo compravamo o aspettavamo che loro ce lo regalassero, per rispetto appunto. Tanto che nel 2005 Richard venne a Roma per una serata ed un mio amico mi chiese se potevo fargli autografare un disco. Io andai, glielo domandai e lui mi disse: “E da quando tu mi chiedi di firmarti i miei dischi?”. Questo perché è sempre stato un tipo di rapporto diverso. Con Grant, invece, ci sentiamo spessissimo, sia con me che con mio fratello, e c’è un rapporto di amicizia profonda, questo non toglie che quando si è trattato di parlare di lavoro, loro son sempre stati molto professionali. La selezione era durissima: noi gli consegnavamo trenta/quaranta tracce per volta e da quel momento cominciava la loro scrematura. Grant ci ha sempre detto una cosa fondamentale: “Io faccio il lavoro di produttore, voi fate quello degli artisti”. Quello che voleva spiegarci era che lui produceva e quando lo faceva si trasformava in un acquirente in un negozio di dischi, sceglieva ciò che voleva comprare. In definitiva, loro selezionavano i brani con un orecchio differente, in base anche a cosa poteva dare maggiore interesse. Avevano ragione, dato che noi ragionavamo con l’orecchio dell’artista.
Dimmi quella cosa della tecnologia che è un’arma a doppio taglio.
Guarda, non voglio sembrare un vecchietto e non voglio offendere nessuno, però secondo me oggi manca la figura del critico, manca una voce. A quei tempi c’erano recensori che venivano pagati per farlo, ed era molto difficile essere commentati, nonostante l’enorme produzione – certamente non al pari dell’attuale – esisteva anche chi faceva la scrematura. Coloro che riuscivano ad essere pubblicati su una rivista, allora voleva dire che avrebbero, in linea di massima, venduto. Molto banalmente: tra cento musicassette e cento CD che arrivavano, la rivista poteva pubblicarne solo dieci. Sicuramente erano quelli meritevoli. Chi non riusciva doveva rifare lo stesso percorso dalla partenza. Una sorta di ritenta sarai più fortunato. Ora, io non dico che chi non riusciva a stampare o ad essere pubblicato su di una rivista era meno meritevole di noi, ma questa figura del giornale che usciva mensilmente o quindicinalmente e tu dovevi aspettare, era indubbiamente importante e dava un valore al lavoro che facevi. La tecnologia oggi permette, a coloro che sono capaci, di trovare il loro spazio e su questo non c’è alcun dubbio. La qualità viene fuori bene, però il rovescio della medaglia te lo faccio con un altro esempio banale, ma efficace: Facebook. Nel momento in cui tu posti uno status, questo è già diventato vecchio. Scatta di posizione un attimo dopo ed è già secondo, poi terzo, poi quarto e così via in pochissimo tempo. Capisci cosa voglio dire? Devi essere fortunato che più gente possibile abbia visto che hai postato qualcosa, altrimenti nel frattempo i tuoi millecinquecento o tremila amici, hanno postato qualcosa di nuovo, che diventerà subito vecchio, trasformando il tuo post in una cosa ancora più vecchia. Tu vieni dimenticato, dunque.
Insomma, cosa manca?
Sai cosa manca davvero? Il background dell’entrare in un negozio, informarsi, passare il tempo davanti ai dischi, chiedere se è uscito. Non c’è più quel tipo di network purtroppo, o meglio, c’è ma non c’è. C’è perché chiunque può informare, ma non c’è perché la tua notizia è vecchia un attimo dopo. Oltretutto – e questo lo dico nel rispetto di chi lavora bene e non ha la possibilità di autoprodursi – a quelli che sostengono di avere un’etichetta on line, io rispondo con: “No, hai un sito web”. Una label deve essere registrata in SIAE o all’ente di competenza della rispettiva nazione, deve avere un minimo di stampa. Compri uno spazio nel web e vendi in digitale. Ok, ma non chiamarmela etichetta. Io sono vecchio stampo, una label deve essere tangibile. E’ come quando t’iscrivi a Billboard, fai un account e dici di avere una label. No, hai un account sul sito di Billboard. Niente di più.
Ok, di nuovo per entrambi: Prima avete accennato qualcosa riguardo i vostri progetti paralleli. Volete approfondire un po’?
Questa storia degli alias è particolare. Diciamo che era un po’ come distinguere dei generi, mettiamola così. Molti lo fanno ancora adesso. Per esempio Centuria City rappresentava la forma più giocosa della nostra musica, con l’idea del centurione legata a Roma e quella cruda e rude dell’hard techno. Oppure Last Sinclair, un progetto nato per sbaglio (ridono). In realtà era il nome di una traccia, che quando decidemmo di pubblicare sull’etichetta di Silverfish, ci fu richiesta e allora, siccome ai tempi avevamo altre produzioni in atto con D’Arcangelo, la pubblicammo sotto lo stesso nome. Al di là di questo, Grant ci diceva sempre di non disperderci troppo in alias, perché la gente poi si confonde e si disperde. Molti ci riconoscono come D’Arcangelo perché è roba di Rephlex, ma se vai a guardare bene, noi abbiamo fatto molte produzioni anche prima e chi ci ascolta non lo sa. Perché? Perché non è D’Arcangelo. In ogni caso per noi era passione, non avevamo l’ego che ci portava a farci conoscere per forza con un nome solo. Noi ci svegliavamo alla mattina e ci dicevamo: “Cosa c’inventiamo oggi? Dai, chiamiamoci così.”
E’ un po’ la stessa cosa che si potrebbe dire di Aphex Twin. E’ uscito con una moltitudine di progetti, parecchi mai rivelati.
Esatto, Aphex Twin, AFX, Caustic Window e via dicendo insieme a quelli mai svelati. Nonostante questo chi lo ascolta sa che è lui. Noi siamo usciti con Monomorph, ad esempio, il primo album in assoluto che abbiamo pubblicato, un progetto molto libero. Anche questo parecchia gente non lo sa.
Dai, Caustic Window.
Cosa? Se è vero che è un album perduto? No, non credo. Più che altro penso che chi si occupa di stampa possa “regalarsi” una copia o più di ciò che viene stampato. E’ una cosa già vista.
Una domanda che faccio spesso quando intervisto artisti italiani, legata all’attuale crisi discografica di casa nostra. C’è un modo per risollevarsi oppure non ve ne frega niente?
Marco: Non è una domanda semplice, perché andiamo sul personale. Io sono stato per parecchio tempo a Londra, te l’ho detto, e ho lavorato in diversi negozi di dischi, nonché nella distribuzione. Ho respirato e vissuto un certo tipo di crisi, ma quella italiana l’ho sentita meno. Secondo me ci sono due cose fondamentali che hanno contribuito, la prima è la mancanza totale d’idee. Mi spiego, se facciamo un discorso generico sulla musica italiana, quindi non precisamente sulla musica italiana elettronica, allora posso dire che, come in tanti altri paesi, si tende a produrre ciò che va bene, ad emulare dei personaggi. I produttori italiani si chiedono cosa funziona all’estero, poi si prende un pezzo di questo, un pezzo di quello, si assemblano insieme e dovresti ottenere il disco di successo. Dunque, per chiudere mi ripeto, nella discografia italiana c’è mancanza d’idee, c’è della disperazione latente e della disillusione. In un certo senso io sono contento che siamo rimasti nella nicchia, credimi, come lo sono rimasti in qualche modo anche Aphex Twin e Squarepusher, per dirne un altro a caso. Certo, ti capita di sentirli nelle colonne sonore di grandi brand o nelle sigle di trasmissioni televisive, ma non sono una cosa per la massa, o quantomeno sono una cosa per un certo tipo di “massa”. Ci sono parecchi ragazzi bravissimi, ma sono soffocati dentro la scatola di internet. C’è troppa roba. Dov’è la cultura dell’ascolto? Non sono più gli anni ottanta, non ci sono più trasmissioni come Mister Fantasy su Rai Uno, manca l’informazione seria. Da dove viene questo tipo di musica? Chi ce la insegna?
A proposito di Squarepusher, l’avete ascoltato il suo ultimo album, “Music For Robots”?
Certamente.
Cosa ne pensate? E’ stato molto criticato.
Troviamo che sia un esperimento molto interessante. E’ una giusta evoluzione. Tom ha avuto uno “scivoletto” con Shobaleader One – d’Demonstrator. Quello è stato un disco ad impronta Daft Punk, permettici l’accostamento – lui è cresciuto con quel tipo di caratteristiche dopotutto – ed era per lui un passo dovuto, molto probabilmente. Poi, con Ufabulum torna sui suoi passi e riprende a fare roba “incriccata”, tagliata, sincopata, questo perché il pubblico aveva bisogno del vecchio Squarepusher. Quindi fa bene, perché è un esperimento interessante su diversi strati. Primo fra tutti l’evoluzione (necessaria), perché lui può permettersi di farlo, dato che è un eccezionale musicista. Il discorso da fare è cosa la gente si aspetta. Se il pubblico vuole ancora il solito Squarepusher forse ha sbagliato approccio, al contrario dovrebbe desiderare l’innovazione, perché se hai innovato per tutta la vita, non puoi fare altro che continuare, è quello che ti si sta chiedendo indirettamente, in fondo. E adesso, a nostro malincuore, faremo un altro esempio: Giorgio Moroder. C’è stato un momento che era “Il Momento di Moroder”, poi si è rinnovato in modo differente e lo possiamo apprezzare o meno, ma quello che fa oggi, il fatto di essersi trasformato in un dj, noi non riusciamo a capirlo. Dov’è la sua storia? Dov’è il suo tocco? Te ne diciamo un’altra: “Get Lucky”, dei Daft Punk. Lo abbiamo ascoltato e abbiamo pensato: quindi Jamiroquai è un coglione? E’ lì che capisci come funziona il meccanismo di fare il soldo al di là del disco, dato che, con tutto il rispetto per loro, ma Jamiroquai ne ha fatti diversi di album che suonano meglio di quello. Perché tutta questa confusione e aspettativa per il Nuovo Spettacolare Disco dei Daft Punk? E poi, un’altra cosa, dov’è l’elettronica in quel disco? Perché ti vesti come un robot e poi mi fai un brano funky? Davvero, noi non abbiamo capito dov’è la componente elettronica in quel brano. E’ una questione d’immagine e in quello sono bravi, loro sapevano già prima di far uscire l’album che quella traccia avrebbe vinto gli Oscar, perché è stato spinto in un modo esasperato. Questa è la chiave, attenzione, quando tu investi milioni di euro in produzioni, in pubblicità, in slot radio, qualcuno il disco te lo compra sicuramente. Se non fosse così, anche in Italia, certa gente non ricoprirebbe la posizione che ha. Ecco perché la discografia è morta. Se tu guardi le classifiche, anche di fine anni ottanta/inizio novanta, dentro ci trovi di tutto; il brano pop, quello rock, quello melodico, quello elettronico. Oggi c’è solo hip hop, RnB e il brano di Rihanna del video dove tira fuori una tetta. C’è una sola spiegazione: devono vendere.
Il business.
Lui.
Allora, so che è uscito da pochissimo un vostro EP, me ne volete parlare?
Esatto. E’ un album che è rimasto nel cassetto per tantissimi anni sotto il progetto Monomorph. S’intitola “Four EP” e, per l’appunto, sono quattro tracce d’ascolto più un bonus mix con una vocalist, che si chiama Zahara Honey. La nostra collaborazione con lei è nata già diversi anni fa, con un progetto in cui lei aveva lavorato su diverse liriche. L’originale del mix uscirà in un album che annunceremo a brevissimo.
Sentite, vi faccio un’ultima domanda stupida, anzi è una domanda stupidissima, quindi preparatevi.
Vai.
Voi siete gemelli, questo ha mai influito sul vostro lavoro musicale in qualche modo? Sapete, quelle cose che si dicono a proposito dei gemelli, come per esempio che se si ammala uno lo sente anche l’altro.
No, in linea di massima no. C’è da dire che abbiamo molte idee in comune, non abbiamo uno stile diverso tra di noi, magari Marco è un po’ più melodico e Fabrizio più spinto, ma la linea è la stessa. Noi ascoltiamo moltissima musica, più che altro perché dobbiamo riuscire a dare un’opinione completa di quello che abbiamo intorno.