Dario Faini è Dardust. Dario Faini è il producer del momento, quello che vi ha dato “Soldi” l’anno scorso e i brani di Elodie e Rancore quest’anno, è il Re Mida del nuovo pop, è quello che vi ha dato – come autore e produttore dietro le quinte – un sacco di pezzi che in questi ultimi anni vi hanno martellato in radio. Ma noi, concedendoci una chiacchierata con lui parlando del suo ultimo album solista “S.A.D. Storm And Drugs”, abbiamo voluto indagare a trecentosessanta gradi la sua persona e il suo essere artista. Andando anche ad attraversare temi scomodi. O imbattendoci, ad un certo punto, anche in Fargetta – e in una serie di errori da non rifare più.
Partirei dal fondo, da “S.A.D. Storm And Drugs”: devo dire che mi è piaciuto molto. Trovo sia nettamente il tuo album più riuscito. Mi sembra di avvertire un senso di grande sicurezza e libertà – come se fosse evidente che sei arrivato in una fase in cui puoi fare abbastanza quello che vuoi, anche perché hai molta fiducia nei tuoi mezzi.
Rispetto agli altri due album, hai l’impressione sia più maturo?
Devo dire di sì.
Beh, mi fa piacere.
Guarda: non è un disco “alla Einaudi”, incentrato sul pianoforte, e avresti potuto farlo; non è un disco che insegue le ultime mode pop, e avresti potuto farlo, visto il ruolo centrale che hai assunto nel “nuovo” pop italiano. In più, mi pare un disco molto ispirato e sì, fatto da un musicista molto sicuro di sé.
Ci sta. Sul fatto di essere sicuro di me… non so. Il punto è che io ho sempre fatto fatica – e credo che continuerà a farne – a trovare una posizione precisa musicalmente parlando. Sono versatile, eclettico, ho molte sfaccettature, ma questo significa che rischio di sentirmi fuori posto un po’ dappertutto. Perché vogliamo parlare della scena neo-classica, delle cose alla Ludovico Einaudi, Nils Frahm? Bene: lì farò fatica a stare, perché metto dei beat troppo forti, faccio arrangiamenti troppo imponenti, le linee melodiche sono troppo evidenti e riconoscibili. E se invece rivolgiamo lo sguardo più verso l’elettronica? Anche lì casco male: perché c’è troppa melodia in quello che faccio, non sono abbastanza rigoroso. Risultato, ho sempre avuto la paura di non poter appartenere a nessuna categoria. L’ho sempre avuta. Ma stavolta effettivamente mi sono detto: “Basta, questa cosa non mi interessa più. Faccio quello che è la verità, faccio quello che sono io veramente”.
Parli addirittura di “paura”…
Ecco, “paura” magari no, forse “timore” è una parola più adatta. Il timore di non avere una collocazione precisa; e quello di non essere alla fine accettato da nessuna parte. Però, se guardo a quello che sta succedendo in questo ultimo periodo, vedo che pop e indie prima erano due mondi diversi che si guardavano pure male fra di loro, e oggi invece sono completamente fusi fra loro. Lo stesso discorso, tra l’altro, vale per ciò che possiamo definire urban e, di nuovo, il pop mainstream. Insomma, stiamo attraversando una fase storica in cui forse mai come prima c’è libertà di muoversi, musicalmente parlando, e questo significa anche che ambienti e contesti un tempo rigidamente separati e scettici l’uno dell’altro si parlano, collaborano, condividono esperienze e si fondono. Penso sia un risultato dell’era dello streaming che stiamo vivendo.
In effetti quando tu hai iniziato a fare musica, ai tempi dei primi passi del progetto Elettrodust, le contrapposizioni erano fortissime. O stavi da una parte, o stavi dall’altra.
Il problema è che con Elettrodust io volevo fare la strada più facile e breve per il successo. Volevo tutto e subito. Ero avido di risultati. Cercavo ogni scorciatoia. Ed ero molto egoriferito. Alla fine ci sono arrivato, a dove volevo arrivare, ma c’ho messo vent’anni e in questi vent’anni ho dovuto riazzerare tutto. Imparando a capire che è molto più importante fare un percorso sano, passo dopo passo, dove cresci in modo organico e al tempo stesso approfondito sotto diversi punti di vista: composizione, produzione… Un percorso dove bisogna darsi il tempo di farsi affascinare dalle cose, e di trovare l’ispirazione vera, autentica, non quella forzata e strumentale.
Volevo tutto e subito. Ero avido di risultati. Cercavo ogni scorciatoia. Ed ero molto egoriferito
Qual è stato il momento preciso in cui hai riazzerato tutto?
Nel 2007. Quando addirittura avevo lasciato perdere la musica e mi ero dedicato al teatro, per due anni. Lì ho azzerato tutto. Mi ero rimesso a studiare, laureandomi in psicologia. E da lì mi sono detto: “Ok. Ora posso diventare qualsiasi cosa. Psicologo. Attore teatrale. Dedicarmi al cinema. Fare il produttore. Fare l’artista”. Sono tutte strade che in qualche modo ho percorso, e quella dell’artista – del tornare ad esserlo – è quella che è arrivata per ultima, perché prima ho dovuto fare tutti gli step precedenti, faticando molto per tornare a sentirmi solido di nuovo, solido sotto tutti gli aspetti – e quindi pronto a riaffrontare un palco esponendomi in prima persona. Ci sono voluti dieci anni per poter arrivare a dire a me stesso “Va bene, ora posso meritare di tornare su un palco”.
E proprio nell’arco di questo lungo viaggio, è arrivato il contatto – e il contratto – con la Universal, per entrare nel loro parco-autori. Di cui ora sei una punta di diamante. Come sei arrivato a loro, o meglio, come sono arrivati loro a te?
E’ successo tutto tramite un pezzo fatto per Irene Grandi. Piacqui alla BMG, che mi prese, poi la Universal comprò la BMG e lì mi ritrovai a stare sotto Claudio “Klaus” Bonoldi, che diventò il mio editore. Vuoi la verità? Nei primi due anni sotto di lui non riuscii a piazzare un pezzo. Eppure, Klaus non ha mai avuto mezzo dubbio su di me. Io scoraggiatissimo, lui sempre lì a dirmi “Non ti preoccupare, vedrai che prima o poi qualcosa succede, vedrai che prima o poi la ruota gira”. Di più: alla scadenza del primo contratto da autore con loro, era il 2009, mi chiamò a Milano. Io pensai: ecco, è arrivato il momento, ora mi dicono grazie ed arrivederci, del resto è comprensibile. Invece mi disse “Di tutti gli autori con cui stiamo collaborando, sei l’unico che non metto in discussione”, rinnovandomi il contratto ed anzi aumentandomi l’ingaggio. E infatti, l’anno dopo, le cose hanno iniziato a girare…
Quelli che arrivavano dall’indie? Sospettosi di tutto e di tutti. Ma ad essere sincero ci trovavo anche dell’ipocrisia, in loro…
Quale è stata la prima collaborazione importante post Irene Grandi?
Quella con Francesco Renga. Io e Diego Mancino abbiamo scritto “La tua bellezza”, che Renga ha portato a Sanremo nel 2012. Un pezzo che era nato in origine in maniera molto diversa: in quel periodo io ero parecchio affascinato dagli Arcade Fire, cosa che aveva dato un’anima molto particolare al pezzo. Pezzo che poi però è stato riprodotto e riarrangiato, reso più soft, ma d’altro canto dovendo finire a Sanremo… boh, magari era giusto che fosse così, almeno all’epoca, non so. Successivamente è stato molto importante il lavoro, sempre insieme a Diego Mancino, su Cristiano De André e “Il cielo è vuoto”: credo che lì abbiamo toccato dei livelli veramente alti, che forse non sono stati del tutto capiti ed apprezzati. Ma il salto di qualità vero e proprio a livello di risultati è arrivato quando ho iniziato a scrivere con cantautori provenienti dalla scena indie: assieme a Calcutta per Elisa, con Tommaso Paradiso per Luca Carboni. Ecco, quando sono entrato in contatto come autore col mondo indie da un lato e urban dall’altro, lì c’è stata la svolta.
Come vedevi il mondo indie? Perché nella prima parte della tua carriera da musicista non arrivavi propriamente da quella scena lì, come dicevi tu stesso avevi un po’ l’ansia di arrivare, non era tua intenzione restare confinato in una riserva di nicchia ed indipendente…
Vero.
Quindi, quando iniziarono ad arrivare a lavorare con te questi qua provenienti dall’indie, che opinione avevi di loro?
Ne avevo soggezione.
Addirittura?
Sì sì, era così. Ma questa, vedi, è sempre stata la mia forza. Non sentirmi mai “adeguato”. E’ sempre stata la cosa che mi ha spinto a fare il doppio, ad impegnarmi il doppio. La frustrazione, se la sai incanalare, può diventare energia costruttiva, porta a cose buone. O almeno, questo è un mio equilibrio, una mia dinamica personale. Ad ogni modo: sì, quando sono arrivati ho fatto di tutto per farmi accettare da loro.
E loro? Erano invece sospettosi?
Loro erano sospettosi di tutto e di tutti. Guardavano male chi stava nel mondo del pop mainstream. Se devo essere sincero, lo trovavo un atteggiamento ipocrita: perché poi in effetti ho visto molti personaggi della scena cosiddetta indie guardare il mainstream con spocchia, poi però appena nel mainstream si apriva un varco per loro erano ben pronti a tuffarcisi dentro. Non è che non li capisca: credo che questa spocchia nascesse prima di tutto come forma di protezione del loro status, per non farsi stritolare da meccanismi esterni, e ci sta. Resta il fatto che appena si sono aperti dei varchi hanno iniziati a buttarcisi, la situazione si è “aperta”, e ora sono usciti tutti allo scoperto, nessuno si fa più delle remore.
Se ci pensi, è ironico: oggi per avere successo nel mainstream devi tuffarti negli stilemi indie… C’è stato anche un periodo in cui per avere un successo commerciale dovevi invece tuffarti nei contesti dance. E l’hai fatto pure tu, all’epoca. Andando a entrare nel giro di Fargetta. Non proprio i quattro quarti della nobiltà elettronica, detto senza offendere nessuno.
Ma come fai a ricordarti questa cosa?!
Eh…
Lì ero veramente allo sbando. Ero gestito malissimo. Accettavo tutto e facevo le cose a caso, pur di avere la speranza di arrivare a qualcosa. Tra l’altro avevo in mano un disco, come Elettrodust, a titolo, “My Personal Rave”, che secondo me era veramente bella ma che non uscì mai, appunto perché ero ed eravamo gestiti malissimo. Ma con tutte le critiche a posteriori che posso fare, a questo manager devo comunque il mio ingresso nel mondo della musica.
Mondo in cui, in questa seconda fase della tua carriera, dopo come ci dicevamo una lunga “traversata nel deserto”, sei tornato. Oggi però fare il musicista significa, molto più di prima, mettersi in esposizione in prima persona, curare le pubbliche relazioni, la comunicazione sui social… Come ti ci trovi, in tutto questo?
Mmmmmh.
Sai che è così.
Lo è. Ma si può fare tutto ciò in maniera molto dosata. Non mi vedrai mai in una story di Instagram mentre parlo alla camera, per dire: non mi viene naturale, non sarei io. Fondamentalmente, sto cercando di trovare la mia modalità di comunicazione; posso capire possa risultare un po’ “fredda”, ma è quello che sono adesso. Poi magari col tempo piano piano mi scioglierò, mi aprirò di più, racconterò di più di me sui social. Non è che non voglia comunicare, ma ora voglio essere sicuro di poterlo fare a modo mio.
Sei uno che vuole controllare le cose.
Sì, abbastanza. Abbiamo un team che segue i miei social, con loro discuto spesso, so essere pedante, lo so: “Non mettere quella foto, non va bene, non mi piaccio”. Mi faccio tante paranoie. Ma è solo perché vorrei mantenere un profilo ben preciso, di un certo tipo.
Come lo descriveresti?
Un profilo strano. Immagino che visto da fuori, io possa risultare abbastanza strano. Perché come produttore sono quello delle hit pop-urban, di “Soldi”, di “Calipso” con Sfera, Mahmood e Fibra; mentre invece come artista, come Dardust, faccio riferimento ad un immaginario molto diverso. C’è da dire una cosa, tuttavia: agli altri artisti ed agli addetti ai lavori pare piacere molto quello che sono, soprattutto quelli in ambito pop, sono affascinati da questa molteplicità di sfaccettature. Altro caso l’ambiente invece della “nuova” classica, che è diventato prevedibile, abbottonato, noioso.
Sì, eh?
E’ tutto uguale, non succede nulla, escono dischi tutti identici tra loro. Sai, c’è il meccanismo per cui se fai le cose in una certa maniera allora entri nella playlist di Spotify, quelle a titolo “Peaceful Piano” per intenderci, e allora lì ti può capitare ad arrivare a fare venticinque milioni di stream: capisco che la tentazione è forte. Ma con “S.A.D.” mi sono tenuto completamente alla larga da questo. Completamente. Magari boh, potrebbe essere un “piano B”, non escludo infatti di fare prima o poi una specie di “minimal edition” dell’lp, non sarebbe una forzatura, mi verrebbe anche naturale. Ma se l’avessi fatto subito, cosa sarebbe successo? Sarebbe stato un disco da “comfort zone”. E quindi, quale sarebbe stato il senso di farlo? Cosa potevo dare di nuovo, alla musica? Te lo dico io: poco. E allora ho deciso di fare le cose assolutamente come mi veniva di farle. Credo che “S.A.D.” sia il mio disco più sincero ed onesto. Vedi, ne ho la controprova quando suono le tracce dal vivo: ogni mi volta mi “risuonano” nelle emozioni, sono vivide, mi colpiscono emotivamente. Spesso invece quando fai un disco poi, quando vai a suonarlo dal vivo, non provi più le stesse emozioni che avevi mentre eri chiuso in studio a creare e rifinire la tua musica, i brani ti sembrano quasi delle ferite che sì, sono state importanti, intense, anche dolorose, ma si sono ricucite e non ti fanno più tanto male. Ogni brano di “S.A.D.” continua invece ad essere molto vivido in me. E questo è il successo più importante, ora. L’album andrà come andrà, non importa, io sono già contento così.
(Eccolo, l’ultimo album di Dardust; continua sotto)
Hai lavorato stavolta più per sottrazione o per addizione, nel rifinire i brani?
Quando li ho scritti, l’ho fatto solo al pianoforte, immaginando nella mia testa come sarebbero stati i completamenti dati dall’elettronica. Sono abituato a fare così. Non lavoro sul mio Mac e coi software, creo sempre prima tutto al piano. Poi, dopo, arrivano le varie rifiniture. Quindi sì, lavoro per addizione. Magari col senno di poi, anche per “S.A.D.”, mi viene da dire “Mah, forse questo non potevo mettercelo”, ma comunque sono particolari non sostanziali.
Prima parlavamo della scena della “nuova” classica e ora, visto che siamo sull’argomento software, la domanda riguarda la scena della musica elettronica: è ancora il luogo dell’innovazione, del futuro, delle nuove idee e dei nuovi suoni?
Bella domanda.
Per anni, l’elettronica è stata in musica “il” futuro.
Vero. E’ stata la musica che ha introdotto le novità a livello di software e di suoni, con cui oggi tutti si misurano. Ma devo dire che è da tempo a questa parte che non sento, nella musica elettronica propriamente detta, da clubbing o meno, quei trick produttivi che aprano dei nuovi scenari, negli ultimi anni, mi pare che sia solo un tornare a scene e suoni del passato, agli anni ’80 o ’90, è tutto un po’ una citazione e un rimando, non c’è nulla che ti faccia dire “Ehi, ma che cazzo è questo?”, e che lo faccia dire tanto al pubblico indistinto quanto agli appassionati più specializzati, ad entrambi. Perché se una cosa è davvero nuova, puoi essere sicuro che la colgono tutt’e due: il pubblico generalista magari in maniera più inconscia, ma lo coglie. Credo che oggi sia invece più la galassia urban a creare degli scenari sonori nuovi, inediti, spiazzanti. Oggi come oggi, preferisco forse più dischi come quello di The Comet Is Coming stando in ambiti meno convenzionali, dove l’elemento organico, umano, è comunque portante: più facile che lo stupore mi arrivi da lì, di questi tempi. Per il resto, mi pare che tutta l’attenzione verso il “nuovo” sia stata monopolizzata dalla scena urban. Nell’elettronica l’ha fatto forse negli ultimi anni solo la scena EDM, ma quella non è elettronica, quello è pop.
Come ti trovi col lato più tamarro della musica urban e della scena ad essa legata?
(Lungo silenzio, NdI) …dipende da cosa definisci per “tamarro”.
Anche a livello di immaginario, non solo di suoni e musica.
In qualche maniera, mi incuriosisce sempre e comunque. Sinceramente: non mi piace un certo tipo di immaginario molto gergale, privo di grandi contenuti. Preferisco gente la microfono che sappia creare un concept, una narrazione, come Kendrick Lamar o, per stare all’Italia, come Rancore. Mi piace quando insomma il testo è anche, in qualche modo, letteratura. Va bene. Però devo dire che quando c’è, il “tamarro”, in qualche modo mi affascina, mi cattura…
Un po’ come quando c’è un incidente stradale: non riesco a staccare gli occhi da lì.
(Ride, NdI)
Senti, visto che siamo nel periodo “caldo”, non posso non chiedertelo: com’è affrontare Sanremo?
Quest’anno è stato tranquillo, non avevo orchestre da dirigere. Non mi aspettavo nulla, da questa edizione 2020: una volta che hai raggiunto la vetta, e con “Soldi” l’anno scorso è stato così, hai raggiunto la pace e la tranquillità. Metti serenamente in conto che non si può vincere sempre.
E’ vero che Sanremo ancora oggi è un gigantesco circo, l’adunata di un sottobosco proprio da “vecchia” Italia?
Quello che posso dire, è che sicuramente l’anno scorso abbiamo sfondato un muro. Con un brano che inizialmente sembrava non dovesse andare da nessuna parte.
Mi confermi che non se l’aspettava nessuno, il trionfo di “Soldi”?
Assolutamente nessuno. Tra l’altro, quello è un brano che è stato fatto tipo in due ore. Aveva talmente un impeto e un’energia, a livello espressivo, che è stato fatto di getto, senza mediazioni, senza pressioni, senza nemmeno aspettative. Lo si è fatto perché lo si doveva fare, e non perché dovesse essere un brano “giusto” da Sanremo. Mahmood aveva il testo e la melodia, io c’ho messo dentro dei clap che peraltro avevo già usato per delle cose mie a nome Dardust, c’ho aggiunto un bouzouki turco, nulla più. Sai, addirittura nelle mie orecchie il brano non risultava nemmeno tanto fresco, perché per farlo e per farlo subito al volo avevo aggiunto delle cose che, appunto, avevo già. Però il segreto è stato proprio questo: far fluire in maniera diretta l’energia creativa, e in questo la personalità di Mahmood ha fatto la differenza. Senza lungaggini, senza pensarci troppo su. Credo che per questo alla fine il risultato sia stato così dirompente e fresco.
E il ruolo di Charlie Charles, in “Soldi”?
Ha “inquadrato” il suono, ha rafforzato il beat, la cassa, il rullante. Diciamo che ha dato il “doping” finale al brano. Ma il grosso della struttura c’era già.
Domanda finale: con “S.A.D.” fuori e con Sanremo alle spalle, ora stai tornando a mettere il Dardust artista piuttosto che il produttore al primo posto?
Guarda, quando parlo con la stampa, con gli addetti ai lavori, ho sempre la sensazione che quando mi rimetto a fare in prima persona l’artista attorno ho un po’ di scetticismo, “Sì, questa è la sua libera uscita, il suo giochetto”. Le cose non stanno così. Essere Dardust, per me, è fondamentale.
Sembri in effetti sincero, nel dirlo.
E’ il motore principale. E’ la mia prima forza. E’ la mia identità, quella che mi spinge ad andare fuori nel mondo, ad esplorare, ad essere libero. E di tutto questo ne guadagna anche la mia attività da producer e compositore per altri. Dardust è la mia testa d’ariete. So che è un progetto complesso, insidioso, scivoloso… Però credo che un artista abbia l’obbligo di mettersi in “pericolo”, sennò diventa tutto troppo facile e sterile. Come ti dicevo: sarebbe stato molto più comodo per me fare il disco “da pianoforte”, o altra strada, avrei potuto fare il disco “da producer” sfornando dieci potenziali hit ognuna con un mega-ospite, sono arrivato ad un livello per cui questo mi potrebbe essere facile ed immediate, so che avrei l’appoggio delle radio… insomma, un efficacissimo piano C, da aggiungere al piano B. Ma il percorso che ho scelto è più giusto: tutti questi anni me lo hanno dimostrato.
Foto di Emilio Tini