E’ deflagrata la bomba e, tanto per cambiare, l’ha fatta deflagrare Dave Clarke. Stavolta il suo chirurgico ed affilatissimo bisturi è andato a fare a fette Soundstorm, il festival organizzato da MDL Beast che si svolgerà a metà dicembre a Riyadh (o Riad, nella traslitterazione italiana), capitale dell’Arabia Saudita. Una festival con una line up assolutamente mostruosa, pantagruelica. Praticamente quasi tutti i nomi più grandi, quelli più attira-folle in campo dance (dall’EDM alla techno e tech-house, con predilezione per le ultime due), ci saranno. Qualcuno dirà: embé? E quindi? Dove sta la notizia? Che i petrodollari arabi si stanno comprando pure la scena “nostra”? Già lo sapevamo…
…può anche essere che lo sapessimo già, ma qua il salto di qualità c’è. E sta nel fatto che Soundstorm è, in maniera più o meno dichiarata (più meno che più…), finanziata interamente dal governo saudita. Un governo che non spicca dal punto di vista dei diritti umani (eufemismo), ed è da tempo uno degli obiettivi critici di una organizzazione come Amnesty International. Un punto particolarmente deplorevole sta nel fatto che nell’Arabia Saudita l’omosessualità è ancora considerata una crimine, e punita in maniera assolutamente crudele ed insensata. Fermo restando che ogni Stato ha il diritto di darsi le leggi che ritiene proprie, è un dato di fatto incontrovertibile che tutta la cultura legata al ballo ed alla musica “da ballare” è indissolubilmente legata alla comunità omosessuale. La contraddizione è stridente. E, detto senza mezzi termini, non ricucibile.
Bene: Dave Clarke ha denunciato tutto questo. Con forza. E il suo obiettivo è, come da tempo a questa parte, la cosiddetta “business techno”: quella parte della scena fatta di nomi grossi e guadagni grossi che, a suo dire, perde completamente di vista il valore e l’etica originari per inseguire invece solo la massimizzazione dei guadagni, che passa tra l’altro anche da un conseguente impoverimento del gusto del pubblico. Ci sarebbe piaciuto rendere pubblico il suo post, ma a occhio ha cambiato le impostazioni del suo profilo su Facebook, rendendolo più “ristretto”. D’altro canto è un profilo interessantissimo, il suo: gli spunti di discussione sono sempre tanti, spesso intervengono direttamente altri artisti di pari levatura.
E infatti: se per molti dei nomi presenti in cartellone a Soundstorm 2021 (e quelli che già c’erano nel 2019) l’anatema popolare è “I soliti marchettari che pensano solo ai soldi…”, vedere fare capolino soprattutto un Jeff Mills – sulla cui integrità ed interesse nell’incrocio tra arte e morale si possono fare poche discussioni – ha meravigliato in tanti. La prima ipotesi riassumibile a spanne con “Jeff non ne sapeva niente, avrà fatto tutto il suo management avido di soldi” è venuta a cadere nel momento in cui Mills è intervenuto in prima persona sotto il post di Clarke, difendendo la sua presenza nel cartellone di Soundstorm. Rivendicandola proprio. Qui un riassunto complessivo della questione, in inglese.
L’argomento usato da Mills è partito con un aneddoto: un concerto a Detroit dei Kraftwerk, anno 1979, concerto che secondo molti cittadini della capitale del Michigan nemmeno doveva svolgersi, in quanto i Kraftwerk erano accusati di avere un immaginario filo-nazista sotto vari punti di vista. Spiega Mills: il concerto per fortuna si è svolto, fra il pubblico c’era un giovanissimo Juan Atkins e proprio quella serata fu per lui una illuminazione totale: è grazie a quel concerto che si sono poste le basi per una musica e cultura meravigliosa come la techno. La chiave, chiosa Mills nel suo intervento, è in quale modo ci si connette ai singoli spettatori presenti ad un evento: lì può sempre e comunque esserci una “gemmazione” positiva. E’ in effetti l’argomento di molti sostenitori dell’opportunità di partecipare a Soundstorm: proprio portando una esperienza di per sé libertaria e liberatoria come la musica da dancefloor, si può contribuire a migliorare passo dopo passo la situazione nei territori sauditi, che ovviamente così com’è non è che vada proprio benissimo. Una specie di semina culturale e sociale, insomma.
Ora: siamo alle solite. La tentazione è quella di mettersi fra i “buoni”, dando dei venduti a tutti quelli che accettano di esibirsi a Soundstorm (e di farlo presumibilmente ben pagati, anzi, oltraggiosamente pagati); i più anticonformisti e speculativi invece possono scegliere di stare coi “cattivi”, facendo proprie le tesi e le posizioni di Mills ed altri, e sottolineando come proprio queste piccole “brecce” nell’oppressivo regime saudita possono contribuire a creare via via un cambiamento sociale positivo. Voi da che parte state?
“E’ opportuno che io vada a suonare prendendo un sacco di soldi in un evento finanziato da un Governo per cui la tortura è legale e l’omosessualità invece no?”
Qualche considerazione a margine, intanto. Un evento di questo tipo si svolge in uno Stato dove alcol e droghe sono considerate una “offesa a Dio” e il loro consumo è punito di conseguenza. Ancora: in Europa per arrivare a creare un cartellone di questo tipo devi creare una scena, lavorare per anni, costruire tutto un ecosistema dove la club culture è popolare, diffusa e consumata; a Riyadh con eventi come Soundstorm si va da zero a cento con la sola forza dei soldi, visto che non si può parlare di pionierismo culturale, “andare a portare la techno in luoghi che non la conoscono”: il pionierismo culturale per definizione parte “dal basso”, dall’underground, e Soundstorm è tutto tranne che un evento underground: coi nomi che ha, coi pacchetti VIP, con le strutture di produzione messe in campo, eccetera. Non è una colpa, non è un merito: è una constatazione. Aggiungiamo anche un particolare, notato e sottolineato ad oggi da pochi: per avere la line up che ha, Soundstorm ha dei prezzi sorprendentemente bassi per il biglietto entry level: al cambio, sono 100 euro per tutto quel ben di Dio. Considerando che difficilmente gli artisti saranno arrivati gratis o sottocosto, significa che questo evento è strutturalmente in perdita. Il che acuisce il sospetto che sia (anche) una grande manovra del governo locale per dare una rinfrescata alla propria immagine. Diciamo “certezza” invece di “sospetto“, va’.
(Il primo annuncio di line up di Soundstorm: non servono commenti sull’imponenza della faccenda, vero? Continua sotto)
Ogni caso ha la sua storia, ma per i più stagionati vengono in mente le analogie con quanto successe a metà anni ’80 attorno al resort di Sun City. Un pantagruelico hotel-casinò creato dal Sud Africa in una nazione-fantoccio, non riconosciuta da nessuno alle Nazioni Unite in quanto era palesemente solo un espediente legislativo per deportare lì lavoratori neri sottopagati e fargli fare da schiavi – aggirando le regole dell’apartheid – per il divertimento di una ricca, ricchissima clientela bianca. A Sun City suonarono Elton john, Cher, Frank Sinatra, Rod Stewart e tanti altri giganti dell’epoca, ma la polemica divampò quando ci andarono a suonare i più “rock’n’roll” di tutti, ovvero i Queen, che tirarono dritto non dando la minima soddisfazione a chi li implorava (o gli intimava…) di boicottare quel “pardo dei divertimenti” voluto da un governo apertamente ed orgogliosamente razzista. Anche lì, la linea difensiva di molti fu: “Non suono per il governo sudafricano razzista, non suono schierandomi a favore dell’apartheid: suono per chi mi viene a vedere, e porto il mio messaggio positivo”.
La risposta arrivò da Steve Van Zandt, il chitarrista di Bruce Springsteen noto come Little Steven (e poi anche attore nella serie “The Sopranos”), e da Arthur Baker, uno dei padri assoluti della electro e della musica da dancefloor. I due si misero insieme di buzzo buono per creare l’operazione “Sun City”: un brano in cui il ritormello scandiva “Io non andrò a suonare a Sun City” e un parterre di artisti che partiva da Miles Davis e proseguiva con Bono, lo stesso Springsteen, Herbie Hancock, Lou Reed, pezzi di Rolling Stones, Ron Carter, George Clinton, il grosso della scena hip hop dell’epoca a partire dai Run DMC, Peter Gabriel, Ringo Starr, Pete Townshend degli Who, Joey dei Ramones, Hall&Oates, e questo elenco è solo parziale. In effetti quello era il periodo del “pop-rock che si impegna per le cause”: Band Aid, “Where Are The World”, ma se la causa della fame e della malnutrizione nel continente africano era per certi versi “facile” ed universale (ma non per questo meno importante), l’operazione “Sun City” fu invece divisiva e suscitò non poche polemiche. Paul Simon fece una cosa importante: chiese di non mettere nella versione finale l’elenco degli artisti che avevano suonato fino a quel momento a Sun City, per evitare che diventasse una specie di “lista di proscrizione”: “Dobbiamo dare agli artisti che sono andati a suonare lì la possibilità di spiegare la loro scelta discutendola, senza diventare noi un tribunale che emette condanne preventive”.
(“Sun City”, anno 1985; continua sotto)
Ecco: trentacinque anni dopo, è esattamente quello che vorremo succedesse col caso-Soundstorm. E’ giusto sollevare il problema: bravo Dave Clarke a farlo, e stranamente “miopi” artisti e management che hanno “dimenticato” che già due anni fa, con la prima edizione di Soundstorm, la questione venne fuori. Al tempo stesso, il punto principale non è o non dovrebbe essere punire chi ha venduto l’anima al diavolo ed ai soldi e pensa solo a guadagnare, insultandoli su pubblica piazza e desiderandone la morte (artistica): il punto è che la scena tutta, mainstream ed underground, inizi a farsi delle domande su quali sono i contorni etici delle proprie scelte imprenditoriali. Ciascuno degli artisti presenti nel cartellone di Soundstorm dovrebbe chiedersi: perché sono qui? Perché lo faccio? Perché ho detto di sì a questa offerta? Siamo infatti in un tale frullatore infernale che certe “macchine organizzative” attorno agli artisti vanno avanti quasi in automatico, cosa di cui manco ti rendi conto. Fermarsi un attimo e pensare “E’ opportuno che io vada a suonare prendendo un sacco di soldi in un evento finanziato da un Governo per cui la tortura è legale e l’omosessualità invece no?”. In un mondo ideale, non ti lapida nessuno se per superficialità o distrazione o leggerezza o automatismo hai detto di sì; ma se inizi a rifletterci sopra, tu e il tuo management, tu e la tua agenzia di booking, e lo fai entrando in una conversazione civile e non manichea con chi la vede in maniera opposta, potremmo crescere tutti quanti. Sì, davvero crescere tutti quanti: perché la realtà difficilmente si divide in “buoni” e “cattivi”, “giusto” e “sbagliato”. Esistono variabili come il contesto, le storie personali di ogni singolo individuo ed artista, le intenzioni, la buonafede. Fermo restando che la tortura è inumana e discriminare l’omosessualità lo è altrettanto, e su questo non si discute, tutto il resto merita di essere affrontato in modo intelligente, dialogante.
Del resto, in ultima analisi, se tutto quello che ti interessa – a te artista – di massimizzare i tuoi guadagni ed andare nei posti dove ti pagano il più possibile e dove il più possibile sei a fianco di altri VIP della scena e il resto vaffanculo, pugnette da sfigati, buon pro ti faccia. Libera scelta. Ma siamo abbastanza sicuri di una cosa: prima o poi la tua coscienza ti presenterà il conto. E non sarà per nulla piacevole.
Update: la seconda ondata di annunci è ancora più bizzarra. C’è dentro veramente di tutto, in una bulimia quasi inquietante, e c’è anche qualche presenza che solleva punti di domanda, come può essere quella di Ricardo. Solomun, beh, Solomun era strano che non fosse già nella prima ondata di annunci…