Il più spettacolare e imprevedibile commiato artistico che si ricordi. Così si potrebbe sintetizzare il senso di “Blackstar”, un album che si era già presentato in maniera straordinaria un paio di mesi fa attraverso la sua visionaria e chilometrica title-track.
In una cupa atmosfera, carica di riferimenti esoterici (How many times does an angel fall? e ancora On the day of execution, only women kneel and smile) e autoreferenziali -impossibile non pensare a Major Tom nel verso Something happened on the day he died- i dieci minuti del brano che apre questa sequenza si evolvono da un insolito groove fra free jazz e frenetiche ritmiche sincopate a un più armonico bridge carico di nostalgie prima che il tema iniziale riprenda il controllo.
Tony Visconti, produttore “a intermittenza” nella carriera di Bowie ma quasi sempre presente nei momenti cruciali, ha parlato di Boards Of Canada e Death Grips come influenze determinanti durante la lavorazione del disco, oltre al magistrale Kendrick Lamar di “To Pimp A Butterfly”.
E se per quest’ultimo l’apporto di Kamasi Washington è stato prezioso, qui è il sax tenore di Donny McCaslin –uno che non fa mistero della sua passione per Aphex Twin– a fornire un elemento stilistico nuovo e allo stesso tempo in linea con la durevole passione per il jazz che ha segnato molti passaggi della vita artistica di Mr. Jones.
Alla già edita “‘Tis a Pity She Was a Whore” segue un altro brano di profonda suggestione.
Su una cadenza lenta e indolente, guidata dal basso di Tim Lefebvre (ora nel quartetto di McCaslin, in passato all’opera con gente come Uri Caine e David Holmes) e non dissimile dai Cure più introversi e meditativi, “Lazarus” sparge altre allusioni ora purtroppo chiarissime: Look up here, I’m in heaven / I’ve got scars that can’t be seen…You know, I’ll be free / Just like that bluebird. E nel finale McCaslin offre un lungo solo da brividi, destinato a entrare nella storia.
“Sue (Or in a Season of Crime)”, già inclusa nella recente compilation “Nothing Has Changed”, viene qui rielaborata su un furioso incedere drum’n’bass, mentre il testo della successiva e febbrile “Girl Loves Me” sembra volersi prender gioco di ogni possibilità di interpretazione, grazie all’utilizzo del Nadsat -la lingua inventata da Anthony Burgess per il romanzo “Arancia meccanica”, e del Polari, slang che fu popolare presso la comunità gay.
“Dollar Days” torna a visitare apici di drammatica tensione e include altri versi rivelatori: If I’ll never see the English evergreens I’m running to / It’s nothing to me / It’s nothing to see.
Il finale, cioè l’ultima canzone dell’ultimo disco di Bowie, apre a una melodia più solare, pur sottolineando già dal titolo “I Can’t Give Everything Away”: dopo aver dedicato quest’opera -e in parte anche il precedente “The Next Day”- alla sua precaria condizione, la constatazione che persino nel suo caso l’artista e l’uomo a un certo punto si separano, e che inevitabilmente qualcosa resterà strettamente personale e riservato, segreto. Stavolta è la chitarra di Ben Monder a spiccare il volo, e con lei l’anima dell’uomo che cadde sulla Terra.
Ne ha accennato da questa parti poche ore fa Damir Ivic, ma è il caso di sottolineare quanto intenso e forte sia stato il contributo di David Bowie alla musica “pop”, nel senso più nobile e universale del termine. Capace di attraversare e segnare cinque decenni in maniera sempre lucida ma imprevedibile, Bowie ha dato nobiltà artistica al carrozzone glam, ha sdoganato in tempi insospettabili (‘Young Americans’, 1975) il soul e il funk presso il pubblico rock, con la trilogia berlinese ha indicato le coordinate stilistiche alla generazione new wave, attraverso la collaborazione con Nile Rodgers ha fatto cadere un altro muro fra dance e rock.
Con lui varie forme sperimentali e inizialmente marginali sono riuscite a penetrare nel mainstream senza esserne snaturate: è con David Bowie che è nato il concetto di “art-rock”, e sono innumerevoli gli artisti da lui più o meno dichiaratamente influenzati. Per contro, non riesco a pensare a chi altri possa annoverare collaborazioni con artisti diversi come Iggy Pop, Brian Eno, Queen, Giorgio Moroder, Tina Turner, Pat Metheny, Bing Crosby, Goldie, Massive Attack, James Murphy e Arcade Fire (per citarne solo alcuni…) nel proprio curriculum.
La sua inquietudine è stata una costante che ne ha reso sempre interessante il percorso, refrattario alle sicurezze e alla pigrizia -con le uniche eccezioni dei mediocri ‘Tonight’ e ‘Never Let Me Down’, ma stiamo parlando di due album su 25- anche quando ha compiuto evoluzioni discutibili (la parentesi Tin Machine, il flirt drum’n’bass degli anni ’90) prima di riscattarsi grazie all’innata sensibilità e curiosità, oltre che alla sua eterna apertura alle più diverse contaminazioni artistiche.
Ora, come nel drammatico video di “Lazarus”, David torna nell’armadio.
Lo Starman è imploso in una Blackstar, ma la luce che emette è meravigliosa.