Uno non vorrebbe occuparsi di Guetta per motivi extramusicali (qualche volta non vorrebbe farlo nemmeno per motivi musicali, quando esagera nel cercare la paraculata), almeno non sempre; e a dire il vero è anche stucchevole il tiro al piccione contro “quello famoso”, che ha il torto (che in realtà è un merito) di aver guadagnato alla musica elettronica un sacco di persone che hanno una fruizione tanto entusiasta quanto superficiale di certe faccende da dancefloor, insomma, non arrivano dalla “nostra” famiglia.
Però ci sono momenti o ci sono uscite che fanno cadere tutti i tuoi buoni propositi del “Che faccia pure la sua cosa, alla fine ogni scelta può avere la sua dignità”. Anche perché una sua intervista appena uscita su Beatport è un preoccupante segnale di come il dj e producer francese abbia perso ogni contatto con una realtà che è stata la sua realtà (perché ricordiamolo, Guetta non arriva dal nulla o dal laboratorio artistico di una major, è comunque uno che negli anni storici in cui nasceva l’elettronica francese – Garnier, i rave, gli albori del French Touch – c’era eccome).
In pratica: pensando di offrire un aneddoto divertente, ha raccontato di come la sua recente esibizione a Coachella abbia rischiato di diventare un disastro perché il suo computer era crashato appena prima di riuscire a completare il riversamento su una SD card del suo set (ricordiamolo: un dj set) e lui eroico (eroico?!) una volta on stage ha dovuto fare alla vecchia maniera (“doing it really old school”, testuale): cercare le tracce sulle proprie pennette USB, tracce messe in ordine più o meno casuale (“So I just had to put my music in a random order on USB sticks”).
Due le considerazioni: l’ammissione, serafica, che i suoi dj set sono praticamente dei preregistrati, o giù di lì; e il fatto di usare drammaticamente a sproposito la definizione “old school” e sentirsi un eroe perché deve scrollare sul CDJ le tracce contenute nelle pennette. Se la prima è forse perdonabile (se alla gente piace, se alla gente va bene così…?) e comunque prevedibile (anche se è un’ammissione esplicita che si sta svilendo il ruolo e la professionalità storica del dj), è la seconda che fa incazzare. Sei libero di fare quello che vuoi, David: magari ti criticheremo, magari le tue produzioni non sempre le troviamo sincere ed apprezzabili, magari il tuo modo di spettacolarizzare il ruolo del dj banalizzandolo nelle sue competenze ed abilità peculiari non ci piace e non ci piacerà, ma lì siamo nel campo delle opinioni, del confronto di stili, visioni, prospettive storiche. Ci sta. Ma se ti metti ad usare il termine “old school” così, facendo passare come una grande impresa il fatto di star lì a cercar le tracce su una pennetta USB, è oggettivamente falso ed è oggettivamente diseducativo: butta nel cesso i fondamenti della storia e delle competenze tecniche di un dj.
Non è questione di fare i “talebani del vinile”: si può suonare benissimo anche con Traktor, anche con le pennette USB, anche con Ableton. Ma parlare di “old school” per la necessità, in un dj set, di cercare le tracce e assemblarle lì sul momento è una scemenza irritante. Non è “old school”: è piuttosto l’unica scuola possibile, se ti presenti come un dj (e vivi dell’aura di essere un dj). A meno che tu ormai non abbia perso completamente il senso e il valore di quello che stai facendo.
Damir Ivic
Scrive di musica a trecentosessanta gradi (con predilezione per l’elettronica). Storica firma del Mucchio. Punto di riferimento negli anni per Red Bull Music Academy in Italia. Autore di libri editi per Arcana. Collaboratore di vari festival. Occasionalmente copywriter. Oggi, tra le varie cose, stretto collaboratore di Rolling Stone e TRX Radio. Inspiegabilmente tifoso dell’Hellas Verona.
Share This
Previous Article
Essere artisti: il caso sgradevole del Tresor ritirato
Next Article