Quando hai a che fare con uno come David Lynch, certe linee di confine consolidate diventano labili e indistinte. Come quella tra verità e inganno. Tra suggestione e psicosi. Promessa e dono. Avanguardia e insensatezza. Persino tra regista e musicista. Già, perché i fatti, quelli che in teoria non lasciano mai spazio all’indeterminazione, dicono che il buon Lynch è prima di tutto un artista visivo, forse il più geniale e conturbante tra i viventi, e che tale lo vuole il suo pubblico, che dal 2006 aspetta con impazienza il nuovo lungometraggio.
Lui? Si tiene sul vago, un giorno conferma di star lavorando a una nuova sceneggiatura e l’altro di aver abbandonato l’idea di far film. Prima produce “Crazy Clown Time” quasi fosse uno scherzo artistico a sorpresa, poi lo rende il riferimento da cui far partire un nuovo percorso artistico autonomo, dandogli un seguito sorprendentemente solido. Come se il nuovo film che tutti attendono, fatto di quelle false verità, nature ambigue e battute a effetto che di lui conosciamo, fosse ormai diventato la sua stessa vita, una sorta di alter-ego del Fred di Strade Perdute, ora sassofonista, ora amante, ora assassino dell’oggetto stesso del suo amore (il cinema?).
Questo “The Big Dream” solleva adesso una domanda importante, di quelle che di solito ci si chiede a tre quarti dei suoi film a proposito del protagonista: chi è oggi David Lynch? Un regista in fase riflessiva o un musicista più attivo e robusto di tanti altri in circolazione? Te lo chiedi perché il nuovo album non è semplicemente una collezione di suggestioni filmiche come quello precedente, ma una tesi musicale perfettamente valida ed efficace per il tempo in cui vive. “Modern blues” lo definisce lui, sorprendendo di nuovo per serietà, competenza sul campo e inappuntabile scelta dei termini: la sua musica sanguina e avvolge con l’umanità e l’empatia propria del blues e risponde alle esigenze di evasione cerebrale e ricerca di significati “altri” tipiche dei tempi moderni.
È bastata qualche chitarra, una collezione di voci enigmatiche che sembrano estratte da Twin Peaks e la giusta ispirazione per dar vita a un palcoscenico di espressività equivoca, in bilico tra il lamento esistenziale dissociato (“Last Call”, “We Rolled Together”) e il classico cantautorato solista (“Sun Can’t Be Seen No More”, “Say It”), con tanto di parentesi di energia rock che sanno tranquillamente difendersi da sole (“Star Dream Girl”). Vero è che quella sua componente filmica resiste, una “Cold Wind Blowin” val bene la disillusione formativa di Cuore Selvaggio e “I Want You” fa la sua figura di ritorno alla dura realtà come in Mulholland Drive, ma trattasi a questo punto di emotività comune tra le due vite di Lynch. Due percorsi che ormai viaggiano paralleli e in piena autonomia e competono lealmente per aggiudicarsi l’attenzione della mente che li ha creati. La vera novità è che adesso non si è più certi di chi prevalga.