In un panorama che si è livellato tantissimo (addio dischi brutti, orrendi ed imbarazzanti: ormai chiunque parte da uno standard minimo di buon livello), e dove di conseguenza anche i picchi in alto si sono un po’ rarefatti, visto che come spesso accade la possibilità di fare tutto (grazie alla tecnologia) fregandosene della commerciabilità (perché oggi con internet puoi far circolare la tua musica ovunque a costo zero o quasi) ha avuto l’effetto paradossale di uniformare molto la proposta complessiva, è davvero rarissimo farsi sorprendere da un disco.
Ecco: “All Of Me”, in uscita su Beat Machine Records, è il primo lavoro da molto tempo a questa parte che mi ha fatto esclamare, alle prime notte, “Ehi, ma che cazzo sta succedendo qui?”. Non che le aspettative fossero basse, attenzione: già da tempo DayKoda era nei nostri radar come talento promettentissimo (fa fede questo), e personalmente ero rimasto molto favorevolmente impressionato da tutte le sue uscite e ancora più favorevolmente quando c’ho avuto a che fare direttamente, per il progetto su Adriano Celentano promosso da Jazz:Re:Found.
Però ecco: quando è venuto fuori “Transitions”, antipasto dell’album, fin dall’inizio la percezione è stata quella di un gigantesco passo in avanti. Ovvero uno bravo e promettente che trovava il modo di far fare alla sua musica un salto di qualità enorme, rendendola più densa, più avventurosa, combinando digitale ed elemento umano in maniera a dir poco spettacolare. Oddio: poteva anche essere un colpo di culo. E’ pieno il mondo di dischi in cui uno o due tracce sono fenomenali, perché succede che i pianeti dell’ispirazione si allineino, poi il resto è carino o poco più. Ero quindi rimasto col beneficio del dubbio.
(ed ecco l’album intero; continua sotto)
Bene. Il dubbio è stato letteralmente fatto a stracci nel momento in cui è venuto fuori l’album per intero. La sensazione è stata, ascolto dopo ascolto, un misto di godimento ed incredulità. Godimento perché è davvero raro sentire una tale capacità di mettere insieme ricerca sonora (la già citata interazione tra digitale ed umano, lo spessore degli arrangiamenti, il coraggio della sfida artistica in certi accostamenti) e spessore compositivo; incredulità perché accidenti, chi diavolo se lo aspettava. Sì, perché questo disco se fosse uscito per la Brainfeeder – chi se la aspetta la Brainfeeder in Italia? Già è tanto lusso e sorpresa avere da poco l’ottima Hyperjazz – nessuno avrebbe avuto nulla da ridire… anzi, avrebbe avuto da sottolineare “Oh, ma sai che questo forse è il disco più figo dell’anno di un’etichetta già strafiga di suo”.
Essì, Brainfeeder. C’è infatti tanto, tantissimo Flying Lotus (e un po’ di Thundercat) in tutto “All Of Me”. Il Flying Lotus migliore: quello che che non si perde in loop mentale o in giochetti per prendere in giro l’ascoltatore e/o far vedere quanto è bravo, ma quello che coraggiosamente lancia il cuore oltre l’ostacolo e cerca l’epico, il poetico, il malinconico, il velenoso, il visionario, e guarda agli anni ’70 ma con la prospettiva dell’anno 3000. Davvero: “All Of Me” avrebbe potuto perfettamente essere un fake leak, perché siamo pronti a scommettere che ad occhi chiusi e senza sapere titolo ed autore questo album l’avreste potuto prendere per la nuova release del signor Ellison in stretta collaborazione col suo amico felino e tonante. Ce n’è tutta la qualità, la competenza sia digitale che nel giocare coi cambi armonici, il coraggio nel mescolare in maniera liquida ed obliqua hip hop, soul cosmico, jazz e sperimentazione.
C’è tanto, tantissimo Flying Lotus; ma c’è nel modo giusto. Perché non hai mai l’impressione che DayKoda stia calligraficamente copiando. Non ruba librerie di suoni. Non prende di peso soluzioni facili e riconoscibili. Non suona mai artefatto o inautentico. Nulla di tutto questo. Certo, sorprende, perché mai prima per quanto fossero state release molto, molto interessanti aveva fatto pensare di essere arrivato a questo livello da fuoriclasse; evidentemente ha fatto sua la pratica sana, buona e per certi versi “stupida” (in tempi in cui tutti sparano release a mitraglia, per presidiare il mercato) di lavorare tantissimo a cesellare le proprie creazioni sonore. Non è un disco che lavora per sottrazione, questo: c’è tanto, i layer si rincorrono uno sopra l’altro, ma c’è il grande pregio di sapersi fermare sempre un passo prima del caos, prima del troppo, prima dello stucchevole.
E quindi, questo disco è un insegnamento. E’ ancora possibile alzare il livello di quello che si fa (se si ha talento, ma anche se si lavora molto su se stessi). E’ ancora possibile fare musica coraggiosa, senza delegare tutto al FlyLo, al Kamasi, al Thom Yorke di turno, o – altra faccia della stessa medaglia – senza delegare tutto alla sperimentazione estrema e senza mediazioni. E’ ancora possibile intraprendere sfide severe, a partire da quella che vuole abbattere in maniera organica e fiammeggiante i muri tra laptop e strumenti veri e propri. E’ ancora possibile fare un disco dove ogni singola traccia ha un suo perché, una sua forza, una sua profonda ispirazione, una sua capacità di ancorarsi alla tua memoria.
Di dischi buoni ne escono tanti. Hip hop, house, techno, jazz, quello che volete voi. Ma di dischi che ti lasciano incredulo al primo ascolto e sempre più entusiasta negli ascolti successivi, ne contiamo poco più di una ventina nell’ultimo decennio. “All Of Me”, per quanto mi riguarda, e parlo proprio per esperienza empirica personale, è uno di questi. Dal 12 luglio lo trovate in streaming su Spotify, ma fategli e fatevi un favore e supportate direttamente andando a recuperarlo su Bandcamp.