Tempo fa sulle nostre pagine avevamo trattato approfonditamente il cambio di rotta che un certo tipo di musica elettronica sta effettuando, palesando un sempre più dilagante incentramento sulla spettacolarità di ciò che è il contorno piuttosto che sul succo della prestazione dell’artista di turno. Proprio in quel periodo Joel Zimmerman, conosciuto dai più come Deadmau5, si era riferito a se stesso ed ai suoi colleghi come semplici “button pushers” in riferimento a coloro i quali presentavano acts figli di una preparazione e sincronizzazione maniacale sugli effetti audio-video e senza possibilità di improvvisazione da parte dell’artista.
Recentemente, sul suo chiacchieratissimo profilo Twitter, il canadese è tornato a scagliarsi contro la nuova generazione di artisti che stanno popolando la scena elettronica attuale. Trattasi di produttori di successo che dovrebbero però, almeno secondo il suo pensiero, rimanere tali e non “sconfinare” nel territorio dei dj non essendone all’altezza tecnicamente. Il topo continua la sua critica sottolineando che oggi avrebbero molte più chance di suonare i producers che magari hanno capacità nulle o poco più che basilari in consolle ma che hanno invaso le radio (o le classifiche di vendita) con le loro tracce, rispetto a dj di rinomata fama che invece hanno sempre dato maggior importanza all’affinare le proprie skills dietro i decks. Battaglie di questo tipo erano state anche intraprese negli scorsi mesi anche da altri artisti molto quotati come ad esempio il turbolento DJ Sneak. Non si sono fatte attendere risposte discordanti (anche illustri) da parte della rete. A capeggiare i contrari è stato il talento britannico Jackmaster, che ha ammonito il canadese, elencando diversi nomi dell’attuale scena UK come Ben UFO e Erol Alkan ed invitandolo a non generalizzare. Il tutto, come spesso capita nell’era delle “tavole rotonde social” si è tramutato presto fatto in bagarre e la polemica sembra non volersi esaurire così facilmente. Ma, bisticci internettiani a parte, è giusto trattare questo discorso con la dovuta cautela, in quanto è facile impantanarsi nelle sabbie mobili degli stereotipi e dell’invidia.
E’ profondamente pericoloso far passare un messaggio come questo, soprattutto se il proprio pensiero parte da qualcuno che in un modo o nell’altro influenza l’opinione e la coscienza di migliaia di followers. Per carità, non stiamo dicendo che non esistano producers che si siano re-inventati dj solo perché avevano azzeccato qualche traccia, sarebbe come difendere il segreto di Pulcinella. Questo però non può distrarre l’opinione pubblica dal fatto che ci siano ancora tanti talenti partiti da anni di gavetta fatta di club di provincia, di dita impolverate frugando nei negozi di dischi e di notti insonni a mettere a punto i propri set. Il fatto che poi oggi molti di essi riescono ad ottenere le luci della ribalta solo dopo aver prodotto è un meccanismo fuorviato dai tempi che corrono e non si può per forza incolpare solo gli addetti ai lavori, sarebbe troppo facile.
La domanda da porci è: come siamo arrivati a questo? Ci sta bene come stanno le cose? Oppure, se non è così, cosa si può fare per cambiare la situazione? Se questo tipo di struttura si è formata e tuttora si regge in piedi è anche e soprattutto colpa di chi fa la domanda e che oggi segue un dj nello stesso modo in cui si segue una band nella speranza di sentir suonare dal vivo il proprio beniamino. Ma non è sempre stato così, anzi.
Perché diciamocelo, in passato quello del dj era un mestiere assai meno enfatizzato ed i clienti (usando una metafora sportiva) spesso badavano principalmente allo stemma (quello del locale) presente sul petto di chi suonava piuttosto che al nome presente sul retro della casacca. Nella New York degli anni ’80, quelli del Paradise Garage, del The Loft e della prima ondata house, la più grande aspirazione che un dj potesse avere era ottenere una residency in un locale e da ciò ottenerne fama, e non certo in cambio di un cachet a molti zeri. Anzi, per molti anni, fare il dj è stato qualcosa che andava oltre il voler diventare ricchi ma semplicemente era il frutto di una naturale voglia di condivisione e di vera passione. Oggi invece l’attenzione è sempre più focalizzata sul nome degli artisti e sulle loro produzioni ed è naturale (salvo poche, pochissime eccezioni) che chi non riesce a stare al passo coi tempi finisca per essere assorbito e rimanga indietro. E’ una delle leggi del business e qualunque addetto ai lavori né è in qualche modo soggetto.
Personalmente credo che lo scettro decisionale sia ancora una volta nelle mani del pubblico prima ancora che in quelle di chi sta dall’altra parte dello specchio e che “tira i fili”. Il problema è far sì che tutti ne prendano coscienza. Sono proprio i consumatori che dovrebbero essere maggiormente consapevoli di ciò che ascoltano andando al di là dello show che gli viene messo davanti e delle tracce che gli piacciono. La sostanza è che con o senza tecnologia, con o senza il benedetto SYNC di cui ormai si è parlato anche troppo, con o senza tutte le polemiche che sono uscite negli ultimi anni per via della diffusione a macchia d’olio del ruolo del dj nella società, un appassionato di musica dovrebbe aver innanzitutto la voglia di acquisire la sensibilità per notare la differenza tra una performance curata e di sapiente e genuina provenienza rispetto a qualcosa di asettico e fasullo. Il messaggio che è importante far passare è che non ci sarà mai una critica da parte dei media di settore abbastanza tagliente ed efficace quanto la disapprovazione del pubblico pagante, ed è giusto che proprio i consumatori finali abbiano il coraggio di essere per primi critici ed esigenti e che tramite la passione e la curiosità possano arrivare a giudicare da soli certe dinamiche, senza che un Deadmau5 qualunque debba cinguettare a proposito di chi possa essere o meno un buon performer.