Gli anni ’90, in Italia ma non solo, sono stati un periodo di grande creatività e che ha visto nascere alcuni artisti la cui notorietà è sopravvissuta fino ai giorni nostri ma anche tanti altri i cui ricordi si perdono nelle pieghe del tempo: quello che distingue questi ultimi dagli artisti attuali, però, è che la scarsità di mezzi d’informazione dell’epoca ha fatto sì che molti di loro diventassero personaggi leggendari, in cui il confine tra notizie reali e racconti tramandati oralmente è più che mai sottile.
Giosuè Impellizzeri, quando non scrive per noi, si è fatto carico dell’impresa sovrumana di cercare di raccogliere tutto il materiale informativo prodotto in quel decennio e di ricavarne una storia coesa, che cercasse di raccontare il più possibile di quello che è successo, interpellando molti dei protagonisti dell’epoca e riportando le loro versioni dei fatti: il risultato dell’enorme lavoro di ricerca svolto assieme a Luca Giampetruzzi è una serie di libri, di cui “Decadance Extra”, che potete acquistare a questo indirizzo, è solo l’ultimo episodio.
In occasione proprio dell’uscita di quest’ultimo volume abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Giosuè, per approfondire ulteriormente alcuni punti che ci sono sembrati particolarmente interessanti durante la lettura del libro.
La prima cosa che salta all’occhio, leggendo il libro, è il formato del contenuto, strutturato in piccoli brani molto brevi e – solo all’apparenza – sconnessi tra di loro, che in un certo senso è un po’ simile a quanto era frammentata la scena dance italiana negli anni ’90, con tanti piccoli gruppi solo apparentemente slegati l’uno dall’altro: come mai avete scelto di strutturare il libro in questo modo? E’ stata intenzionale la ricerca di questa somiglianza o me la sono inventata io?
La “formula” a cui ti riferisci fu parzialmente adottata anche in Decadance Appendix, il secondo volume della trilogia Decadance pubblicato nel 2012. È stato un effetto involontario dettato dalla vastità e varietà del panorama musicale preso in considerazione. Mi piace però il paragone che hai fatto: l’apparente disorganicità di alcune sezioni di questo volume (Decadancepillole, Le Indagini Di Decadance) somiglia parecchio alla scena dei 90s (non solo quella italiana) fatta di tanti piccoli mondi indipendenti l’uno dall’altro ma talvolta comunicanti con più naturalezza e meno pregiudizi rispetto ad oggi (mi torna in mente la Network Records diretta da Neil Rushton), e rende anche l’idea di come ai tempi venissero captate le notizie. Le informazioni giungevano in modo frammentario, dai giornali specializzati, dalla radio, dai dischi che acquistavi, da quello che ti raccontava qualcuno che, a sua volta, lo aveva sentito dire da chissà chi e chissà dove. A seconda delle cose che assimilavi ti facevi un’idea di ciò che accadeva, ma per ovvie ragioni si trattava di una visione parziale. Poteva comprensibilmente sfuggire quindi che mentre impazzavano gli Eiffel 65 si consumava la battaglia legale tra Underground Resistance e Sony/BMG, o che il primo successo internazionale di Bob Sinclar nacque da un presunto furto ai danni di Thomas Bangalter, o che la prima serata in un club italiano dei Daft Punk si risolse in un totale fiasco, o che la hit degli Underworld non si intitola “Born Slippy” (un pezzo completamente diverso) bensì “Born Slippy .NUXX”, o che nel 1992 i Dust Brothers (i futuri Chemical Brothers) furono costretti ad autoprodursi il primo disco perché considerato troppo lento ed addirittura ridicolo.
Una parte sostanziale del libro è costituita da aneddoti, alcuni dei quali più o meno noti già all’epoca e alcuni che hanno addirittura praticamente raggiunto lo status di “leggende metropolitane”, aiutati anche dal fatto che allora si sapeva molto meno degli artisti, a differenza di oggi che grazie a Internet sappiamo vita morte e miracoli di chiunque. Pensi che la mancanza di informazioni, o comunque la presenza di informazioni incomplete e frammentarie, abbia aiutato a creare alcune figure leggendarie degli anni ’90 la cui fama dura ancora oggi?
Erano anni in cui si poteva vivere la musica con una passionalità più intensa. Il non sapere con certezza alimentava curiosità e, perché no, fantasia. Quando acquistavo il disco di un artista di cui non avevo mai sentito parlare iniziavo a fantasticare su chi fosse, su come avesse creato quella musica e sul perché avesse scelto quei titoli. A volte era l’immagine in copertina ad evocare un mondo che poi esploravo ascoltando il disco stesso. Oggi tale suggestione non esiste quasi più. Quando compro o mi mandano musica al 90% so già di chi si tratta e la mia mente si predispone all’ascolto “sapendo di”. Inoltre un database come Discogs che incrocia migliaia di dati rende palesi certe cose che venticinque anni fa sapevano davvero in pochi, riducendo infinitamente il grado di esclusività delle informazioni. Il non conoscere, per certi versi, rendeva tutto più intrigante ed ha sicuramente contribuito ad alimentare il mito di alcuni personaggi.
Parlando di personaggi la cui fama dura ancora oggi, non ho potuto fare a meno di notare, nella parte dedicata alle interviste, che tutti i dj ancora in attività hanno un rapporto positivo con le nuove tecnologie, mentre tutti quelli che si dichiarano puristi irriducibili del vinile sembrano non avere più un grosso seguito, o addirittura hanno cambiato del tutto mestiere. Sono malfidente io, se vedo un nesso tra le due cose?
Credo che la questione del vinile sia sfuggita di mano a più di qualcuno. In buona parte degli anni Novanta i DJ adoperavano solo il giradischi ma non erano mica tutti dei maestri del mixaggio, incantatori di folle o esperti conoscitori della storia della musica. Il disco è diventato portatore di un “messaggio” in tempi recenti, come reazione agli improvvisati (e i mitomani) che a differenza di ieri riescono, complice la tecnologia democratizzante, ad accedere con assoluta facilità al sistema (produzioni, serate, visibilità in generale). Trovo comunque sterile la dicotomia vinile-digitale, che mi pare più radicata in Italia che in altri Paesi. Dai presunti “tutori della purezza” affetti da kainotetofobia mi aspetterei discorsi più incentrati sulla mancanza di cultura e passione che quelli sul formato come ipotetico ago della bilancia, perché la differenza alla fine si misura tra professionisti e dilettanti. Additare la musica liquida come serbatoio di inutilità talvolta sembra più una scusa per giustificare l’incapacità di selezionare in un oceano di pubblicazioni. Su Bandcamp, ad esempio, mi è capitato più volte di ascoltare cose interessantissime composte da gente tutt’altro che impreparata. Ovviamente mi schiero contro chi si autoproclama “artista” senza conoscere nemmeno l’abc, ma non condivido quel purismo spocchioso ed ostentato ormai diventato una moda, che finisce col dipingere il DJing quasi come una casta inaccessibile. Compro e colleziono dischi dal 1992 e sono legatissimo alla tattilità ma me ne guardo bene dal condannare chi pratica con diligenza la professione sebbene con tecnologie differenti. Si può essere inconcludenti con qualsiasi mezzo, anche col vinile. Penso anche a tutti coloro che si professano fan dell’analogico (spesso convinti che hardware ed analogico siano la stessa cosa) e spendono fior di quattrini per una TR-909 o una TR-808 limitandosi poi a programmare la sequenza 1-5-9-13.
In più di un’intervista (penso soprattutto a quella a Riccardo Persi, ma non è l’unica) si dice che il rapporto del pubblico con la discoteca e con la musica dance è cambiato radicalmente: mentre una volta si tendeva a dedicare molto più tempo e attenzione alla preparazione delle serate e a informarsi sulla musica, ora sembra che la possibilità di ottenere tutto e subito abbia reso il rapporto molto più superficiale, anche se ha allargato enormemente il bacino d’utenza. Sei d’accordo con questa visione? Come pensi si potrebbe fare per avere ancora oggi un pubblico appassionato e coinvolto come quello degli anni ’90?
Avere tutto, subito e gratis ha remato contro la sete di sapere di cui parlavo qualche riga sopra. Il richiamare in qualsiasi luogo e a qualsiasi ora un brano (anche rarissimo) e conoscerne facilmente il titolo ha azzerato l’interesse che un tempo si riservava alla radio. In modo analogo è scemato il grado di attenzione nei confronti di un’anteprima discografica visto che ogni giorno veniamo bombardati di preview, e si è quasi estinto il pubblico che dava peso alle recensioni. Il mondo ha subito una trasformazione tanto radicale che i giovanissimi fanno persino fatica a credere che prima si dovesse pagare per giocare ad un videogame (i mitici coin-op) o per poter disporre di un brano musicale. È chiaro che ora siano poco disposti ad investire la paghetta settimanale in dischi preferendo smartphone et similia, quindi ritengo sia difficile che le nuove generazioni si appassionino alla musica come in passato, quando svaghi ed hobby erano ben diversi (si pensi anche ai fumetti e a quanto quel comparto abbia perso terreno nell’ultimo ventennio). Questo non vuol dire però che il pubblico di prima fosse interamente mosso da passione, è un falso storico, così come quello che riguarda i club gestiti solo da coraggiosissimi art director o le case discografiche viste come garanti assolute di musica impeccabile e nemiche della faciloneria delle net label post millennio. Sono luoghi comuni nati e cresciuti negli anni Duemila e nella sezione del libro Ipse Dixit c’è più di qualche dichiarazione che lo attesta. Gli appassionati esistono ancora ma, come credo sia sempre avvenuto, sono numericamente inferiori rispetto a chi considera la musica una banale forma di intrattenimento. In base alla miriade di interviste e ricostruzioni storiche svolte ed ancora in corso (vedi il blog di Decadance), non risulta che negli anni Novanta si facesse la fila per acquistare i dischi della Warp, Origo Sound, Sähkö, Disturbance, Pronto Recordings, Minus Habens o Rephlex, e nel capitolo dedicato ai negozi di dischi si capisce bene che un certo tipo di mercato fosse comunque relegato ad una fascia d’utenza ridotta.
Un termine che ho visto spesso usare nelle interviste è “professionalità”, anche se nessuno poi articola nel dettaglio cosa significhi ma si limita a lamentare una mancanza della stessa: che cos’è, secondo te, la professionalità nell’ambito della musica e del clubbing, e a che cosa fanno riferimento gli artisti che avete intervistato quando ne parlano?
Per me “professionalità” è l’insieme di accorgimenti ed atteggiamenti che fanno la differenza rispetto a chi opera in modo approssimativo. Avere le giuste competenze, disciplina, credibilità, non improvvisare, fare leva sulla creatività come valore e segno di identità. È probabile che la mancanza di professionalità lamentata dagli artisti di cui parli faccia riferimento all’incapacità nel ritagliarsi un posto nel mondo globalizzato. Se ci fai caso le carriere di molti sono terminate proprio quando non fu più sufficiente confrontarsi col mercato domestico e si rese necessario scrollarsi di dosso la mentalità e gli atteggiamenti provincialistici. L’aumento esponenziale di case discografiche o presunte tali ha fatto poi crescere il numero degli improvvisati. Attenzione però, anche in questo caso vale quanto detto prima: non è vero che negli anni Ottanta o Novanta il mondo della musica e del clubbing fosse fatto e frequentato da soli professionisti, anzi, in alcune pagine dei tre libri di Decadance abbiamo raccontato esattamente il contrario. Ovviamente non mancano quei compositori che attribuiscono la non riuscita dei propri prodotti all’assenza di professionalità dei discografici, o quei DJ che incolpano gli art director o i PR di aver ostacolato la propria crescita professionale. Talvolta è più facile scaricare la colpa sugli altri che ammettere a se stessi i propri errori, i propri limiti e i propri fallimenti.
Il libro concede, giustamente, molto spazio a un personaggio come Albertino che degli anni ’90 è stato forse l’attore principale oltre che, per molti, l’immagine stessa del periodo: pensi che oggi ci sia qualcuno che, per vastità di influenza e importanza sul mercato oltre che sui gusti del pubblico, gli si avvicini?
Non penso che oggi possa esistere più una figura tale, ma non per assenza di professionisti in grado di raccoglierne il testimone. Il pubblico degli anni Novanta viveva un rapporto viscerale con la radio, completamente diverso da quello attuale. I DJ però non erano ancora star e si faticava a considerare il DJing stesso come un vero lavoro. Albertino e i suoi pard (facendo una similitudine col Tex Willer bonelliano) possono essere considerati, insieme alla Radio DeeJay cecchettiana, dei DJ star ante litteram, coi pro e contro che ne possono derivare. L’ampia gallery fotografica che abbiamo dedicato ad Albertino, a coronamento dell’intervista, nasce dall’esigenza di raccontare con le immagini come la brandizzazione del DJing sia nata anche in Italia. Ad un’analisi ancor più attenta si potrebbe retrodatare il fenomeno agli anni Ottanta quando Claudio Cecchetto cercò, ovviamente coi mezzi dei tempi, di moltiplicare il valore della sua squadra. Oggi non credo che la radio riesca più ad influenzare in modo determinante i gusti del pubblico, o perlomeno non come negli anni Novanta. L’Albertino del nuovo millennio potrebbe essere uno youtuber dedito alla musica. Ecco, uno come Favij condizionerebbe i gusti musicali dei giovanissimi. Forse.
Un altro fenomeno assolutamente caratteristico degli anni ’90 italiani è quello delle grandi catene di montaggio come la Media Records, che sfornavano hit letteralmente a getto continuo e in ambiti completamente diversi tra loro. Pensi che ci sia qualcosa di simile al giorno d’oggi oppure, una volta perso l’estro di un personaggio come Gianfranco Bortolotti un fenomeno del genere sia irripetibile?
Avviene ancora, basti pensare ai titani del mainstream come Spinnin’ Records e al loro profluvio di pubblicazioni. La citata Media Records però rappresenta un caso particolare visto che non si limitava ad immettere titoli sul mercato ma si preoccupava anche di produrre “in casa” gli stessi titoli, tolta qualche eccezione ovviamente. Gianfranco Bortolotti dotò la sua struttura di una galassia di studi di registrazione all’avanguardia e mise su una squadra composta da DJ, musicisti, fonici ed ingegneri del suono che operava su modello toyotista. La strategia si rivelò vincente ma dubito che oggi possa essere ancora applicata, non solo perché gli studi di registrazione sono allestibili da chiunque ma anche perché con la consacrazione su larga scala del DJing si è diffusa la smania di protagonismo. Poter tecnicamente fare qualcosa (aprire una label, incidere un brano, distribuirlo in tutto il mondo) illude molti di poter artisticamente fare quella determinata cosa in modo autonomo. La nostra è una società fondata sull’informazione ma, paradossalmente, non sulla conoscenza, e la conoscenza non si può scaricare dalla Rete. Per fortuna direi.
Parlando ancora dei fenomeni del giorno d’oggi, credo che la scena EDM attuale abbia più di un punto di contatto con quello che era la dance degli anni ’90, pur avendo attorno un contesto enormemente diverso per via di tutti i cambiamenti che hanno investito la società e i mezzi di comunicazione negli ultimi vent’anni: credi quindi che, da qui a vent’anni, dell’EDM rimarrà tanto quanto è rimasto oggi della dance degli anni ’90, oppure invecchierà diversamente?
Con le dovute proporzioni, l’EDM è la prosecuzione, con effetto ingigantito dal web, di quel che avveniva nel mondo pop dance negli anni Novanta ma anche negli Ottanta, ai tempi dell’italo disco per intenderci. Varie le similitudini che abbracciano tali epoche, dai ghost producer (date una lettura a questa mia recente inchiesta) allo stile musicale. Riff di stampo bubblegum pop se ne sentono ancora tanti anche se vengono dirottati in correnti che nulla hanno da spartire (vedi l’abuso incontrollato di termini come progressive house, deep house ed electro) o spacciati per invenzioni moderne aiutati dal continuo fiorire di nomenclature che di fantasioso hanno solo il nome. È mutato il marketing, le strategie promozionali, i riferimenti della popolarità (che un tempo si misurava in copie di dischi vendute ed oggi in visualizzazioni su YouTube o fan base sui social network) ma per il resto non vedo radicali mutazioni nella pop dance, se non che si sia mainstreamizzata come mai sinora. Credo che in futuro si ricorderà l’EDM come periodo di massima amplificazione commerciale del DJing e riadattamento della rave culture degli anni Novanta, ma non per particolari conquiste in termini stilistici. Non escludo si possa creare persino un periodo revivalistico perché è plausibile che nel 2036 i quindicenni di oggi rammenteranno Martin Garrix con la stessa emotività di chi ora ripensa ai propri anni Novanta scanditi da Snap!, Human Resource o Jam & Spoon, come ai tempi del resto c’era chi identificava il periodo migliore indicando Visage, Alphaville, Patrick Cowley o Yazoo. Arriva sempre quel momento in cui si desidera riavvolgere il nastro e tornare, in balia della nostalgia, su ciò che si considera il meglio del proprio passato.