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[tab title=”Italiano”]Deepchord, al secolo Rod Modell, dopo 2 anni di assenza torna su Soma con il suo nuovo album “Ultraviolet Music” regalandoci una nuovissima raccolta fonografica di paesaggi notturni, atmosfere siderali e infiniti mantra conditi da tonnellate di estetica dub. Legato a doppio filo alla sinestesia vedere-sentire, Deepchord rappresenta uno dei pochi esempi controcorrente e fuori dagli schemi in un panorama elettronico troppo statico e privo di vera originalità. Registrazioni ambientali, loop imperfetti e ripetizioni infinite contribuiscono a creare il suono cinematico che lo contraddistingue e trasportano letteralmente l’ascoltatore in un vero e proprio viaggio nella mente di Rod. Complesso, ispirato e spirituale come vuole la sua musica, Deepchord ha risposto con semplicità, passione e senza aver paura di sprecare parole a tutte le nostre domande, regalandoci immagini, visioni, spunti e lasciandoci la voglia di provare, di sperimentare e mettere in pratica tutto quello che ha voluto condividere con noi. Non c’è altro da dire, grazie Rod.
Quando eri piccolo, quali sono state le cose che ti sono piaciute di più mentre scoprivi la musica e che cosa ti ha fatto decidere poi di produrre musica elettronica?
Per quanto posso ricordare, tutto quello che mi importava erano la musica e la fotografia. Quando avevo cinque anni, per il mio compleanno mia nonna mi ha comprato una macchina fotografica Polaroid e mi pagava anche le pellicole. A sette ero pronto per una reflex, comprai una vecchia Ricoh XR2 a buon mercato e la portai ovunque, la adoravo. Da allora ho sempre continuato ad acquistare macchine fotografiche e onestamente le preferisco agli strumenti musicale perché è sempre stata la fotografia che mi ha ispirato a fare musica. Non mi è mai successo con altra musica, lo sono più dalle arti visive, dalla fotografia, dalla natura, dai fenomeni atmosferici, da quelli spirituali e sono passati davvero tanti anni dall’ultima volta che ho sentito musica che lo abbia fatto in qualche modo. Quando ero molto giovane, i miei genitori mi comprarono un giradischi e mia madre acquistò per me un disco di effetti sonori che si chiamava “The Sounds of Outerspace”. Era musica che all’epoca faceva parte del filone “Forbidden Planet”, strani effetti sonori passati attraverso riverberi a molla ed echi. L’ho ascoltato in continuazioni per giorni, non potevo credere alle mie orecchie, era favoloso. Ho capito che la musica poteva essere qualcosa di più che semplici canzoni e penso che quel disco mi abbia cambiato la vita. Se mia madre mi avesse comprato un disco di musica folk, forse quello che faccio oggi, sarebbe molto diverso. Da bambino andavo a letto e ascoltavo la radio AM sintonizzata tra le stazioni, perché un insegnante delle elementari, ci aveva detto che questo tipo di rumore era legato all’attività solare. E’ stata la mia musica preferita per anni, la adoravo e per me era confortante. Quando si parla di musica, credo di esser sempre stato un pervertito, mi piacciono le cose più strane, ad esempio difficilmente ascolto i dischi alla velocità corretta, secondo me suonano meglio rallentati. Credo che in quel periodo i miei genitori fossero un po’ spaventati.
Dopo 15 anni di attività con i tuoi progetti principali Deepchord, Echospace oltre a vari alias, molti singoli e un nuovo album in uscita su Soma cosa provi quando pensi alla tua carriera musicale? Cos’hai perso e cos’hai guadagnato nel tuo percorso artistico?
Credo di non averla mai veramente considerata una carriera, è solo una cosa che faccio, come mangiare e respirare. Se fosse una carriera dovrei prenderla molto più sul serio. Rinuncio a più spettacoli di quanti ne accetti e registro cose nuove solo quando mi sento davvero motivato. Credo che se si fosse trattato di una carriera avrei dovuto essere più disciplinato e regolare e avrei dovuto anche tenere in considerazione quello che la gente pensa della mia musica. In fondo sono solo uno che ama i suoni e i rumori e fa qualcosa ogni tanto. Dopo 30 anni di attività credo di essere diventato più bravo di quanto mi aspettassi, perché quando fai qualcosa per tanto tempo, impari anche tanti trucchetti. A volte mi sento come se dovessi fare musica che si adatta ai club perché penso che i promoters resterebbero delusi se suonassi solo droni in discoteca. Ecco, forse questa sensazione di dover fare qualcosa per soddisfare il pubblico è un compromesso, ma poi quando lo faccio, mi diverto e quindi forse non lo è. Ho imparato moltissimo, ad esempio come trasformare gli stimoli intorno a me in suoni. E’ un processo molto particolare. A volte mi capita di fare qualcosa che gli altri considerano una vera merda, ma a me fa venire un sorriso a trentadue denti solo perché mi ricorda un posto dove sono stato.
Avere un minimo di formazione musicale è qualcosa che quasi ogni artista della scena elettronica deve affrontare, ma non a tutti piace a causa dei vincoli che impone, cosa ne pensi? Hai preso lezioni anche tu?
Penso che studiare musica insegni molte più cose che non si possono fare e forse ti impedisce di fare le cose in maniera diversa. Non credo sia necessaria, ma non sono un musicista, sono più un sound designer. Si tratta di una sorta d’illuminazione che ho avuto anni fa ed è stato liberatorio, tutto a un tratto sono svaniti i vincoli del fare musica e mi sono concentrato solo sui piccoli frammenti che compongono i suoni. Non mi preoccupo di accordi, ponti o di fare una traccia di percussioni che sia suonabile da un vero batterista, semplicemente non m’interessano. Butto un mucchio di roba in una pentola, la faccio bollire per un paio d’ore e prendo quello che viene fuori. Non c’è un bello o brutto perché bello o brutto è arbitrario. Mi piace molto il concetto di Eno sulla musica generativa, dovrebbe essere autonoma, si dovrebbero definire i parametri e poi sedersi tra il pubblico per sentire dove va. Da ragazzo ho preso lezioni di basso per cinque anni, teoria musicale per un paio e da bambino lezioni di pianoforte, ma non uso niente, ho solo la fortuna di avere un buon orecchio per l’intonazione.
Detroit è stata la tua casa per diversi anni e hai fatto parte della prima ondata techno che ha creato il movimento. Negli ultimi anni la città ha affrontato grandissime difficoltà economiche, so che oggi vivi non troppo lontano in una città più piccola e viaggi anche molto in Europa e Giappone. Quali sono le principali differenze tra il passato e il presente? Perché hai deciso di andare via? Hai mai nostalgia di qualcosa?
Mi piaceva Detroit negli anni ’80, quando era un incubo opprimente, scuro e distopico. Ora non è più così, non mi da più niente, oggi è come qualsiasi altra metropoli. Chi è abbastanza vecchio da ricordare Detroit trent’anni fa sa di cosa sto parlando, era un luogo pericoloso ma allo stesso tempo emozionante. Mi mancano la sua sporcizia e la sua disperazione, era come il luogo dove viveva J.F. Sebastian in Blade Runner. Negli anni ’80 era il sogno cyberpunk, si poteva passeggiare, far finta di essere sul set di Gunhed o Hardware e tutte le persone più fiche vivevano in città. Oggi preferisco molto di più l’Europa o il Giappone, davvero, la mia sensibilità corrisponde più all’Europa che agli Stati Uniti. Mi piace Amsterdam, mi sento più a casa lì che a Detroit. Quando ho bisogno di trascorrere del tempo in Michigan, vado in una piccola città a circa un’ora a nord, in un posto semi-isolato sul Lago Huron. Mi piace aprire le finestre di notte e sentire le onde sulla spiaggia vicina. Più invecchio, più divento un recluso e mi piace. Oggi mi sono staccato da Detroit, ci sono stato trentacinque anni e sono pronto per qualcosa di nuovo.
I tuoi genitori erano tedeschi trasferiti a Detroit per lavorare nel settore auto. In quel periodo la politica era di assimilare piuttosto che integrare gli stranieri per farli diventare americani e dimenticare il loro passato. E’ qualcosa con cui hai dovuto fare i conti anche tu?
Non molto a dire il vero. I miei genitori l’hanno fatto per me prima che nascessi. La famiglia di mia madre in realtà era polacca, si erano trasferiti dalla Polonia alla Germania e poi a Detroit. Mia madre fino ai vent’anni non sapeva parlare inglese, sua madre (mia nonna) non l’ha mai parlato, solo polacco e tedesco. I miei genitori non ci hanno mai insegnano il polacco o il tedesco e mi dispiace, volevano che i loro figli fossero “Americani” e anche quando parlavano polacco, non volevano che noi lo imparassimo. Forse pensavano che ci avrebbero trattato in modo diverso a scuola, oppure considerati strani. Non lo so, penso che molti immigrati arrivati in quei giorni fossero orgogliosi di essere qui e amassero veramente l’America, era la loro patria adottiva e volevano che i loro figli crescessero come americani. Ovviamente, per questo motivo, c’è stata una tragica perdita di cultura. L’America al tempo era considerata il melting pot per eccellenza ma oggi c’è una totale commistione in tutto il mondo. Ci penso spesso quando sono in Giappone perché è forse l’unico posto in cui sono stato dove questo fenomeno non è così diffuso. Mentre giro, cerco di capire se è un bene o un male anche se in fin dei conti penso non sia rilevante, e forse, è anche un bene mescolare tutto perché la fisiologia non conta, è il nostro sistema di credenze, esperienze e valori che ci rendono ciò che siamo.
Nella biografia di Echospace, il tuo progetto con Steve Hitchell, il sound viene descritto come “L’anima di Detroit legata a radici giamaicane riprodotta attraverso un tunnel nello spazio profondo”, penso descriva perfettamente anche lo stile di Deepchord, iniziato anche questo con il tuo amico Mike Schommer, a volte trovando difficile distinguere tra i due. Dato che in ogni progetto ora sei rimasto solo tu, come sono iniziate e perché si sono fermate le collaborazioni? Preferisci lavorare da solo o con un amico?
Preferisco lavorare con un amico. Steve e Mike sono due dei miei migliori amici e ancora oggi li vedo regolarmente, ma entrambi sono impegnati in altre cose. Mike ha 6 figli che lo tengono piuttosto impegnato. Originariamente ero amico della sorella di Mike e solo poi siamo diventati amici, era la fine degli anni ’80. Steve e io avevamo gusti reciproci in fatto di musica e siamo diventati amici per questo motivo. Steve è anche un vero appassionato di synth e siccome lo ero anch’io qualche anno fa, parlavamo un sacco di sintetizzatori. Lui fa ancora musica ma non gli piaceva viaggiare e fare molti spettacoli. Mi piacerebbe lavorare ancora con tutti e due. Steve si è appena trasferito un po’ più vicino a me, magari potrebbe capitare l’occasione durante l’inverno. Mike sta costruendo un nuovo studio e mi ha chiesto di andare a vederlo, quindi mai dire mai. Negli ultimi anni ho suonato sempre all’after party di Movement Festival a Detroit e lui è venuto con me, per fortuna gli è tornata voglia di fare musica. In entrambi i progetti, Steve e Mike erano davvero la parte “dub” dell’equazione. A me piace il dub ma loro lo amavano profondamente, io ero più interessato a droni e sperimentazione. Tutte e due sono state belle collaborazioni ma a volte la vita ti porta su una strada che non lascia molto tempo per fare musica, comunque, sono buoni amici e hanno tutte le porte aperte a collaborare quando ne avranno voglia.
So che hai studiato fotografia all’Art School di Detroit prima di fare il musicista e penso che questo si rifletta nella tua musica perché ogni brano ha davvero la forza di materializzare luoghi e immagini. Oggi qual è il tuo rapporto con fotografia? Qual è il collegamento con la tua musica?
In tutta la mia vita, ho vacillato tra musica e fotografia perché sono le sole due che m’interessano e una ispira sicuramente l’altra. A volte mi stanco di fare musica e mi butto pesantemente sulla fotografia, poi qualche mese più tardi, metto via la macchina fotografica e ricomincio a fare musica. Credo che una alimenti l’altra, sono due facce della stessa medaglia e non potrebbero esistere separatamente. Una è il lato visivo e l’altra quello sonoro della stessa opera d’arte, come lo Yin e lo Yang. Ultimamente mi sto appassionando molto ai video, lo trovo un modo perfetto di fondere musica e fotografia. Sto lavorando a un nuovo progetto visual che si chiama “Shorelights” insieme a due amici di Detroit (Chris McNamara e Walter Wasacz). Chris insegna cinema all’University of Michigan e tutti e tre nell’ultimo anno abbiamo registrato moltissimo materiale.
Dato che colleghi spesso la musica a immagini molto vivide, mi piacerebbe che ci guidassi all’Eastern Market di Detroit, il famoso “techno boulevard” della metà anni ’80 per farci vedere come te lo ricordi tu che l’hai vissuto, puoi?
Non era un bel periodo e mi provoca una sorta di disagio pensarci. C’erano un sacco di edifici in rovina e moltissima prostituzione. Ero li per caso, è stato divertente, ma non mi è mai sembrato così speciale, ne oggi ne allora. L’area divenne famosa con il movimento techno, ma all’epoca era solo un altro quartiere orribile nel vuoto che era Detroit nel 1990. Non ho un affetto particolare per quel periodo, cercavo solo di trovare me stesso e desideravo uno studio con vista sulla campagna.
Nei primi anni della tua carriera hai avuto anche qualche esperienza come label manager ma poi hai smesso, perché?
Ho scoperto che non mi piace fare tutto. All’inizio del 2000 le cose non andavano bene, i distributori impiegavano sempre più tempo a pagare o fallivano ancora prima. Avevo un accordo esclusivo con Watts Music di New York e quando hanno chiuso non mi sono messo a cercarne altri. La parte commerciale non mi piaceva, volevo solo registrare suoni e lavorare in studio. Oggi va meglio, qualche volta penso di riaprire l’etichetta Deepchord, di recente sono stato a pranzo con Mike Huckaby e abbiamo parlato proprio di questo. Sinceramente penso di aver detto quasi tutto quello che avevo da dire con il progetto Deepchord e potrebbe anche essere il momento di investire più tempo in altre cose, forse proprio in una nuova etichetta dedicata a sonorità più lente e sperimentali, come SonuoS in Svezia.
Il tuo nuovo album “Ultraviolet Music” contiene 21 nuovi brani che spaziano dalla dub techno a emozionanti atmosfere notturne. Il titolo è molto evocativo perché sappiamo che l’ultravioletto è una radiazione invisibile e titoli come “Visibile Audio”, “CMOS Therapy”, “Red Sky” ci suggeriscono che c’è qualcosa ancora una volta legato ad un concetto sinestetico tra sentire e vedere, potresti dirci come è nato e perché hai scelto questo nome?
Sicuramente un elemento sinestetico c’è in tutto quello che faccio. “Ultraviolet Music” è influenzato dal mondo invisibile ci circonda, da trasmissioni aliene a onde corte ed entità spirituali, materiale che galleggia intorno a noi, fuori, all’esterno, come il suono. Mi piacciono molto i suoni di cui ti accorgi solo quando non ci sono più e mi piacciono i fenomeni psicoacustici. Di solito m’influenzano le cose che vedo, in questo caso sono state più le cose che ho sentito e ho deciso di chiamarlo “Ultraviolet Music” perché penso che il mondo ultravioletto riassuma perfettamente il concetto di qualcosa che è tutto intorno a noi ma non si può davvero vedere, onnipresente ma invisibile.
Ascoltando la tua musica, la prima cosa che si percepisce è il senso di spazio: grande, aperto, crepuscolare o notturno. Come fai e che tipo di tecnica usi?
Credo che derivi dalle registrazioni ambientali fatte in luoghi molto grandi. Attraverso centinaia di anni di evoluzione, il nostro cervello è in grado di identificare quei suoni, anche quando sono processati e capire cosa sono. Mi piace sovrapporre registrazioni ambientali a sintetizzatori e campioni, mette tutto in un ambiente adeguato che manca nella maggior parte della musica. Mi ricordo quando ero bambino alle elementari, ho fatto un disegno di tre mobili su un foglio di carta bianca, sembrava stupido, solo tre mobili galleggianti su uno sfondo bianco. Poi, ho disegnato una linea orizzontale attraverso il foglio e i mobili sembrava all’interno di una camera, l’intero quadro era scattato in prospettiva ed è la stessa cosa che succede quando combino registrazioni e strumentazione, tutto va a fuoco mentre prima era solo un mucchio di rumori fluttuante nello spazio senza un punto fisso. E sì, ho sempre considerato la mia musica su misura per il tramonto o per la notte. Non so perché, ma non ho mai percepito il giorno in quello che faccio. Ricordo quando Soma stava progettando la copertina di “20 Electrostatic Soundfields” e il grafico m’inviò alcune bozze per un parere. La grafica originale era qualcosa di luminoso e allegro con un sacco di colori bianchi e luminosi ma a me sembrava assurda, l’ho rimandata indietro, ho detto a tutti che non andava bene, di pensare in termini di notte, di colori scuri e poi ha fatto quella definitiva. La prima bozza era incredibilmente diversa, sembrava un annuncio per un hotel in riva al mare in Florida, non mi piaceva. Faccio musica che è infinitamente più potente a mezzanotte in mezzo a una tempesta di pioggia che a mezzogiorno in una giornata soleggiata. È fatta per il buio.
Nei tuoi brani utilizzi moltissimi loop e registrazioni ambientali, come trovi l’ispirazione per decidere cosa vale la pena registrazione e perché sei così affascinato dalle ripetizioni?
In realtà uso i loop molto di più delle sequenze MIDI. Preferisco utilizzare looper come il Looperlative LP1 o un vecchio Lexicon JamMan su cui registro la maggior parte dei miei synth. Continuo a suonare fino a quando esce qualcosa d’interessante, poi schiaccio il pedale e lo registro. Mi piace perché non è così rigido come una sequenza midi. Le uniche cose quantizzate in una traccia Deepchord sono le percussioni e il basso e qualche volta nemmeno quelle. Fa sembrare tutto più rilassato. Usare le ripetizioni diventa una specia di droga e quando nel loop ci sono delle piccolissime variazioni diventa quasi magico. Alla fine degli anni ’80 e nei primi anni ’90 ho passato un sacco di tempo con gli Hare Krishna. Mi ricordo di quanto sono andato a cantare al tempio di Detroit la prima volta, dopo circa venti minuti è successo qualcosa di straordinario, è scattato qualcosa nella mia testa, una specie di risveglio kundalini, qualcosa che non avevo mai sentito prima, il canto del mantra ripetuto in continuazione mi aveva aperto la mente. Succede lo stesso con i loop, è stato fantastico, ho visto il potere della ripetizione e mi sforzo di fare musica così. Devi abbandonarti alla ripetizione e quando lo fai può cambiarti, puoi arrivare a nuove percezioni perché la ripetizione è come un farmaco che altera la mente, ed è gratuito.
Oggi il software audio è più rilevante rispetto all’hardware principalmente perché siamo in grado di fare cose impossibili in passato. Alcuni artisti hanno deciso di spostarsi dall’hardware al software, anche se poi qualcuno si è pentito e ha fatto un passo indietro. Qual è la tua esperienza? Con cosa lavori oggi?
Probabilmente una combinazione dei due è la soluzione migliore, anche se ultimamente ho una vera ossessione per i vecchi campionatori. Tutti pensano che preferisca l’hardware perché è quello che ho usato in passato, ma non è così, usavo quello perché è quello che avevo e non l’ho mai preferito al software. Ho costruito il mio vecchio studio tra il 1980 e il 1990, avevo una grande collezione di synth e processori di segnali e fino a poco tempo fa non avevo nemmeno un computer, così tutti quelli che hanno visto il mio set up dicevano “preferisce l’hardware” ma semplicemente, io preferisco quello che ho a disposizione al momento. Negli ultimi anni in realtà ho imparato a odiare l’hardware perché è troppo vincolante, mi piace il lato Zen del software e mi piace avere tutto in una scatoletta. Nel 2015 l’hardware mi sembra un modo antiquato di lavorare e credo che la cosa più importante in studio sia il flusso di lavoro. Non ho più la pazienza che avevo prima e ho bisogno di andare dal punto A al punto B il più velocemente possibile, altrimenti rischio che le idee svaniscano prima che riesca a buttarle giù. Con l’hardware posso pasticciare con i cavi per mezza giornata solo per esser pronto a registrare un brano, oppure, con lo stesso tempo, posso fare una traccia intera su un computer. Per me lavorare con l’hardware è inefficiente e il mio obiettivo finale è quello di avere i brani registrati, non smanettare con i sintetizzatori. Se fossi uno che si diverte a girare le manopole sarebbe diverso, perdere tempo sarebbe metà del divertimento e varrebbe il tempo speso. In realtà io odio i sintetizzatori, sono più interessato al quadro piuttosto che ai pennelli che uso per dipingerlo e trovo il computer una liberazione. Oggi, con tutti questi sistemi Eurorack, c’è molta più passione per i sintetizzatori di quanta ce ne fosse in passato. Per quanto mi riguarda, non voglio aver niente a che fare con le tendenze, quindi non li voglio nemmeno usare, li lascio agli altri, io faccio cose in modo diverso. Credo che tutto il mercato sia terribilmente arretrato rispetto a dove dovrebbe essere nel 2015, ci sono aziende che hanno fatto strumenti favolosi, come per esempio l’Hartmann Neuron o Jomox Resonator Neuronium ma che sono stati monumentali flop commerciali perché tutti vogliono dei cloni X0X. In pratica rinunciano allo sviluppo per vendere più Electribes o Aira, continuando a riconfezionare tecnologia del 1970. E’ ridicolo ed è uno dei motivi per cui non voglio contribuire a sostenere il mercato dei synth nel 2015.
Sin dagli albori l’estetica techno è rimasta quasi la stessa, secondo te qual è la situazione del movimento negli ultimi anni e quale pensi potrebbe essere la prossimo grande tendenza?
Penso che la techno abbia smesso di svilupparsi diversi anni fa. Ricordo quando andavo nei negozi dischi negli anni ’90, prendevo un mucchio di album dalla parete e quando li ascoltavo era sbalordito e ne dovevo comprare almeno la metà. Erano tutti originali, tutti si spingevano verso nuovi confini e tutti cercavano suoni nuovi, sono anni che non sento più qualcosa di simile. Sette, otto anni fa tutti hanno deciso che il suono andava bene così com’era e non si sono più mossi, fanno tutti lo stesso disco sforzandosi di rendere la musica “Berghain compatible” piuttosto che spingersi in territori inesplorati. E’ molto triste. Negli ultimi dieci anni credo di aver sentito solo un disco veramente interessante. Hanno tutti paura di rischiare perché pensano che forse ai loro fan potrebbe non piacere, per quel che mi riguarda ho sempre pensato “chi se ne frega”, è meglio provare e fallire che non provare affatto. Fare musica pensata per un grande impianto Funktion One è diverso dal lavorare a paesaggi e a sonorità avvolgenti pensate per un sistema domestico high-end. La roba per un Funktion One deve essere semplice e ricca di transienti, 5-6 tracce con percussioni molto definite per far rendere al massimo l’impianto. Preferisco fare musica per un paio di Martin Logan elettrostatiche alimentate da un bell’amplificatore Audio Research. Spero che la prossima tendenza sia la musica ambient. Credo che alla musica elettronica di oggi manchi lo stile degli anni ’90. Spero che prima o poi pad e altri elementi melodici ritrovino un posto nei brani tutti uguali che si sentono in giro. Oggi la techno è fatta quasi al 100% di percussioni, da batterie e synth percussivi. C’è bisogno di girare i pomelli dei sintetizzatori, allungare i suoni perché ci sono troppe tracce che sembrano un disco speedmetal, il rumore fa male al sistema nervoso, dovremmo ammorbidirci un po’.
Dato che hai molta esperienza come produttore ma anche come proprietario di un’etichetta, hai qualche consiglio da dare un giovane produttore per essere efficace quando prende contatto con una label?
Il mio consiglio è di concentrarsi sul fare qualcosa di completamente unico. Ci concentriamo troppo sul fare qualcosa di “bello”, ma cos’è “bello”? Chi lo sa. E’ del tutto arbitrario ma lo capisci subito quando senti qualcosa di unico. Fai qualcosa che non hanno mai sentito prima. Certo, è molto più difficile, ma è anche infinitamente più gratificante e penso che le etichette lo apprezzino. Tanti musicisti fanno l’errore di pensare che siccome l’etichetta X ha pubblicato un genere, allora le piacerà solo quel tipo di musica e mandano materiale che probabilmente hanno già. Credo che invece sarebbero più inclini a pubblicare qualcosa di completamente diverso.
Quali sono i tuoi dischi preferiti e perché?
Dal catalogo Deepchord mi piace “Hash Bar Loops”, mi ricorda un periodo in cui mi trovavo a Amsterdam, vivevo sul canale Keizersgracht e registravo musica tutta la notte. E’ la colonna sonora di un album fotografico che mi ricorda un momento felice. “20 Electrostatic Soundfields” è molto simile, ogni brano rappresenta una sorta di esperienza personale e mi fa sentire come se stessi portando la gente in tour in quei luoghi. “Rooftop” è la sensazione di stare in piedi da solo, sotto l’ombrello nel mezzo di una notte di pioggia in cima al Barcelo Raval a Barcellona. “Morning” è la prima colazione a casa nel Michigan. “Day’s End” è la sera a Shinjuku. “De Wallen” è una colonna sonora per il quartiere a luci rosse di Amsterdam ecc, ecc. Ci sono un sacco di fonografie in quelle tracce, è un enorme collage di field recordings che ho fatto con i registratori portatili nel corso degli anni. “De Wallen” è la mia traccia preferita, ha un’atmosfera oscura, subacquea, sotterranea. Sono molto amico (non in senso intimo) con un paio di ragazze bulgare che lavorano nel quartiere a luci rosse e mi permettono di registrare nelle loro camere quando non sono impegnate con i clienti. Non credo capiscano quello che faccio ma è divertente. Per ripagarle vado a prendergli un caffè o nel giorno libero gli pago il pranzo. Alcune registrazione sono in “De Wallen” e “Trompettersteeg”. Oltre alla musica Deepchord, mi piace molto “Untrue” di Burial, penso rappresenti l’unico vero cambiamento di paradigma nella musica degli ultimi 15 anni: nessun synth, nessuna sequenza X0X, non c’è nessuna affinità con la tendenze attuale e mi piace per questo, secondo me prima e dopo non c’è stato niente. Sono anche un grande fan della serie Kompakt “Pop Ambient”, è bellissima e ho tutti i dischi. Quando sono a casa ascolto solo musica molto vecchia da 1940 al 1950 e registrazioni ambientali, amo The Percy Faith Orchestra, Ray Conniff e Eddie Calvert, mi piacciono molto le registrazioni di Jean-Luc Herelle e la musica di David Lynch. Se sono in vena di qualcosa di un po’ più pesante ascolto a tutto volume Fushitsusha o “Holy Money” degli SWANS, che secondo me è uno dei dischi più belli di sempre e lo adoro. Non ascolto quasi mai techno.[/tab]
[tab title=”English”]Deepchord, aka Rod Modell, returns on Soma after 2 years of absence with his new album “Ultraviolet Music” giving us a new collection of the phonographic nights capes, stellar atmospheres and endless mantra topped by tons of dub’s aesthetics. Tied hand in glove to synesthesia see-feel, Deepchord is one of the few maverick and unconventional examples in an electronic scene too static and lacking true originality. Field recordings, imperfect loops and endless repetitions contribute to the cinematic sound that sets it apart and literally carry the listener on a real journey into the mind of Rod. Complex, Inspired and spiritual as his music wants, Deepchord responded with simplicity, passion and without fear of wasting words to all our questions, giving us images, visions, ideas and leaving the desire to try, to experiment and practice all he wanted to share with us. Nothing more to say, thank you Rod.
When you were young, what have been the things that you’ve enjoyed the most while discovering music and what led you to decide to produce electronic music?
It seems as long as I can remember, all I really cared about was music and photography. When I was 5, my grandmother bought me a Polaroid camera for my birthday. She was also nice enough to support my film habit. By the time I was 7, I was ready for an SLR camera, and found an old used Ricoh XR2 for dirt cheap. I loved that camera and took it with me everywhere. I kept getting better and better cameras and still love them more than music toys. Even back then, photography inspired me to make music. I’m really not inspired much by other music. Never have been. I’m more inspired to make much by visual arts, photography, nature, inclimate weather, and spiritual phenomena. It’s been years since I heard any music that was inspirational. When I was very young, my parents bought me a record player. My mom bought me a soundeffects record called “The Sounds of Outerspace”. It was “Forbidden Planet type music”. Weird sound FX going through spring reverbs and echoes. When I got this record, I put it on and listened in awe for days. I couldn’t believe what I was hearing. It was amazing to me. Since the very start, I saw that music could be more than songs. I think that record changed my life. If my mother bought me a record of typical music, maybe what I do would be very different. I use to go to bed at night as a child listening to AM radio tuned between stations. An elementary school science teacher explained to us that this noise was related to solar activity. This AM radio noise was my favorite music for years. I loved it. It was comforting. I guess I was a musical pervert since the very beginning. I loved the most bizarre things when it came to music. I would rarely play my records at the correct speed. They just sounded so much better slowed down. I think I scared my parents a little back then. After 15 years of activity with your main projects Deepchord, Echospace alongside several aliases, lots of releases and a new album coming out on Soma what are your feelings about your musical career? What do you think you’ve gained and what you’ve lost during your artistic path? I guess I never really look at it as a career. It’s just something I do. Like eat and breathe. If I was doing it as a career, I would take it a lot more seriously. I turn down more shows than I accept,and only record when I feel really motivated. I guess if it was a career, I’d have to be more disciplined about this and make myself do it more regularly. I’d also have to care about what people think of my music if it was a career. I’m just a guy who likes noise and sounds. So I make some now and again. I suppose after doing it for 30 years, I’ve gotten better at it than I expected to. If you do anything for 3 decades, you learn a few tricks along the way. Sometimes I feel like I have to make music to fit a club environment. Promoters would be disappointed if I played drones to a dance floor. Maybe this is a loss. This feeling of needing to make something to suit an audience. But then I do it and enjoy it also. So maybe not. I’ve gained quite a bit. A better understanding of how to transmute stimuli around me into sound. It’s a strange process. Sometimes what I do sounds like shit to everyone around, and I have a big ear to ear grin because it reminds me of a place I’ve been.
Having a formal musical training is something that more or less every artist in the electronic scene has to deal with but not all of them really enjoy because of the constraints, what is you opinion about? Have you had a formal training too?
I think that musical training teaches you more about things that you can’t do and maybe scares you into not doing things a certain way. I don’t think it’s necessary. But then again, I’m not a musician so much as a sound designer. This was an epiphany that I had several years ago, and learning this about myself was liberating. All of a sudden, I was freed from the constraints of making music, and could focus on that grains that make up the sounds. I don’t care about chords or bridges or making a percussion track that sounds playable by a real drummer. I don’t care about any of that stuff. I just toss a bunch of stuff in a pot, simmer it for a couple hours, and what comes out is what you get. There really is no such thing as good or bad. Good or bad is arbitrary. I like Eno’s concept of Generative music. He had it right. Music should be autonomous. Define the parameters and go sit with the audience and see where it goes. I had some musical training when I was young. Bass guitar lessons for 5 years. Music theory for a couple years. Piano lessons as a child. But I don’t use any of it. I’ve always had a good sense of pitch. This kind of saves me.
Detroit has been your home for several years and you’ve been part of the first techno wave that started the movement. The city faced very big economic troubles during the last years and I know that nowadays you live in a smaller town not too far away and you also travel a lot in Europe and Japan. What are the main differences between now and then when you think about the city you’ve lived in? Why have you decided to move away? Do you miss something?
I liked Detroit in the 80’s. When it was an oppressive, dark, dystopian, nightmarish place. Now it’s really cleaned up and no big deal really. I get nothing from Detroit. I did back then, but today it’s just like any other metropolis. People who are old enough to remember Detroit 30 years ago know what I’m talking about. Detroit used to be a dangerous and exciting place. I kind of miss the filth and despair the city had back then. It was like the place where J. F. Sebastian lived in the Blade Runner movie. In the 80’s, it was a cyberpunk’s wet dream. You could walk around and pretend that you were on the movie set of Gunhed or Hardware. Back then, all the cool people lived in the city. Today all the people who want to be cool are going there. I prefer Europe or Japan. Really. My sensibilities match European ones more than US ones. I like Amsterdam. I feel like I’m more at home there than Detroit. But since I do need to spend time in Michigan, I do it in a small city about an hour north of Detroit. I’m semi isolated and right on Lake Huron. I like opening up my windows at night and hearing the waves on the beach next to the house. The older I get, the more of a recluse I become. But it’s a good thing. I’m disconnected from Detroit. I had 35 years there. I’m ready for something new.
Your parents were from Germany and moved to Detroit to work in the auto industry. During these early days the policy was to assimilate rather than integrate the foreigners having them to become Americans and forget about their pasts. Is it something you’ve had to deal with too?
I didn’t have to deal with much. My parents did that for me before I was born. My mom’s family was actually Polish and moved from Poland to Germany, then Detroit. My mother didn’t speak English until she was in her late teens. Her mom (my grandmother) spoke zero English. She never learned it. Just Polish and German. My parents didn’t teach us Polish or German. To my disappointment. They wanted their kids to “be American”. Even thought they would speak Polish around us, they didn’t want us to learn it. Maybe they thought we would be treated differently in school, or thought of as unusual. I don’t know. I think many immigrants came here in those days and were proud to be here, and loved America. It was their new adopted home. They wanted their kids to grow up American. There was a tragic loss of culture in those days because of this. America was considered the melting pot. But now you see that everywhere I guess. Total worldwide integration. It’s good. I think about this often in Japan. It’s maybe the only place I’ve been where this isn’t as prevalent. I try to learn if this is good or bad as I walk around there. I guess at the end of the day I come to the consensus that it doesn’t matter, and maybe it’s even good to mix it all up. The physiology doesn’t matter much. It’s our experiences, value system, and belief structure that make us what we are.
On Echospace bio, your projects with Steve Hitchell your sound is described as “Detroit soul ties to Jamaican roots played through a tunnel in deep space” and I think it perfectly depicts also the style of Deepchord that also started with your friend Mike Schommer, sometimes finding difficult to differentiate between them. Since each one ended with only you, howdid you start and why did they stop the collaborations? Do you prefer to work alone or with a friend?
I prefer to work with a friend. Steve and Mike are 2 of my best friend even today, and I see them both regularly. But they both got caught up with other things. Mike has 6 really great kids today,so that keeps him pretty busy. Originally I was friends with Mike’s sister, and eventually got to be friends with Mike. This was in the late 80’s. Steve and I had mutual taste in music, and became friends long ago because of this. Steve is also a synth nut, and I was too years ago. So we had lots of “synthtalk”. Steve is still active making music, but didn’t like the traveling (to do shows) much. I would love to work with either again. Steve just moved a little closer, so that may happen over the winter. And Mike is building a new studio and has been asking me over to check out the progress along the way. So never say never. I played an after party in Detroit at last year’s Movement Festival, and Mike came with me. Hopefully he was inspired on some level. Steve and Mike were really the “dub” part of the equation. I love dub, but they really, really loved dub. I was more the experimentalist and drones behind it all. It was a good combo (either of them). I think sometimes life takes you in a direction that doesn’t offer much time for making music. But again, both are good friends today and both have open invitations to collaborate when they feel like it.
I know that you’ve studied photography at art school in Detroit before taking the musical career, and I personally think that this reflects in your music as well, because every song can really help materializing images and places. What is your relationship with photography now? What do you think is the link with your music?
Throughout my life, I’ve vacillated between music and photography. The two things I’ve ever really cared about. One definitely inspires the other, but sometimes I just have enough of the music, and get heavy back into making photography. Then several months later, I put the cameras away and start making music more. I think one fuels the other. They are two sides of what I do. There wouldn’t be one without the other. One is the visual side, and one is the sonic side of the same art piece. The Yin and Yang. I actually have been getting more and more into video also. It’s a way to meld music and photography. I’ve been working on a new project called “Shorelights” with two good friends from Detroit (Chris McNamara and Walter Wasacz) that will be very visual. Chris is actually a film instructor at University of Michigan, and the three of us have been shooting footage for this project over the last year.
Since you often link music and vivid images I’d like you to drive us in Detroit’s Eastern Market, the “Techno Boulevard” during the middle 80s to show it to us as you remember and you’ve lived it, could you?
Those were kind of dark days. It actually makes me kind of uncomfortable going back there in my thoughts. There were lots of bombed out buildings. Lots of prostitution around Detroit back then. I was there by sheer happenstance. It was funny, because I didn’t really think it was very special back then (or now really). The area became immortalized later as techno grew, but at the time, it was just another horrible neighborhood in the void that was 1990’s Detroit. I guess my memories of that time aren’t viewed with any sort of special fondness. I was just trying to find myself back then. I wished for a studio with a view of the countryside back then.
In the early years of your career you’ve had some experience also as a labels manager but then dropped them, why?
I basically found that I didn’t have the stomach for it all. Things were bad in early 2000’s for labels. Distributors were taking longer and longer to pay (or were going out of business before they paid). I had an exclusive agreement with Watts Music in NYC, and when they folded, I guess I didn’t feel like searching for a new distributer. Doing the business side of it really made it unenjoyable for me. I just wanted to record sounds and be an artist working in my studio. Things are a little better today, and once and awhile I think about restarting deepchord (the label). I was having lunch with Mike Huckaby recently, and we were talking about this. But I think I’ve said almost everything that I have to say with deepchord and it might be time to invest more time in other projects. Or maybe a new label for slower, more experimental sounds. Like SonuoS in Sweden.
Your new album is called “Ultraviolet Music” and contains 21 new tracks that spread from dub techno to more emotive middle of the night atmospheres. The title is also very evocative as we know that ultraviolet is a radiation lower than violet, the first one that is outside visible range and song’s names like “Visible Audio”, “CMOS Therapy”, “Red Sky” suggest that there’s again something related to a synesthetic concept between hearing and seeing, could you tell us how it was born and why did you choose this name?
Definitely a synesthetic element to everything I make. But I think Ultraviolet Music was influenced more by the unseen world around us. Alien shortwave transmission and spiritual entities. Stuff floating on and out of our periphery. Like the sounds themself. I like sounds that you don’t realize are there until they’re gone. Psychoacoustic phenomena. Usually things I’ve seen are primary influences, but I think in the case of U.M., things that I’ve felt are the primary influence. I chose to call it Ultraviolet Music, because I think the Ultraviolet realm is indicative of what I’m explaining here. Something that’s all around us but you can’t really see. Omnipresent but invisible.
While listening to your music the first thing to be felt is space: big, open, spaces at dusk or night. How can you achieve that and what kind of technique do you use?
I think a lot of that comes from background recordings of big places. Through hundreds of years of evolution, I think our brain can identify those sounds, even in lieu of processing, and figure out what they are. I like using background recordings behind the synths and samples. They put the sounds in a proper setting. This is missing in most music. I remember when I was a child in elementary school; I made a drawing of 3 pieces of furniture on a sheet of white paper. It looked stupid. Just three pieces of furniture floating on a white background. But then, I drew a horizontal line through the sheet, and instantly, the furniture looked like it was situated in a room. The line I drew indicated where the floor met the wall. The whole picture snapped into perspective. This is the exact same thing that happens when I combine the correct field recordings with instrumentation. Everything snaps into focus. Prior to doing that, it was a bunch of noises floating in space without being grounded to anything. And yes, I always felt my music is tailor made for night (or dusk). I don’t know why, but I never feel daytime in my music. I remember when Soma was designing the cover for “20 Electrostatic Soundfields”, the artists sent a draft of the album artwork to get my impressions. The original art was something bright and cheery. Lots of white and bright colors. I thought it looked bizarre. I emailed back and said this doesn’t fit my music at all. I told him to think in terms of nighttime and dark colors, and then he made the one that actually got used. But the first draft was incredibly different. It looked like an advert for an oceanside hotel in Florida. I couldn’t handle it. I definitely make nocturnal music. It comes across infinitely more powerful at 12am during a middle of the night rainstorm than 12pm on a sunny day. It’s designed for dark times.
You use lots of looping and field recordings in your production process, how do you get the inspiration to decide what is worth recording and why are you so fascinated with repetitions?
I actually use more audio looping than midi sequencing. I never was one for sequencing. I prefer using looping devices like the Looperlative LP1 or an old Lexicon JamMan. Most of my synth parts are recorded on these. I’ll just mess around until I’m making something interesting and then hit a foot pedal and record in into a looper. I like that it’s not so rigid like a midi sequence. Pretty much the only thing that’s quantized in a DC tune is percussion and bass lines. And sometimes not even that. It gives everything a looser feel. I like looping. Repetition can be intoxicating, and when you have subtle shifts in the loops, things get magical. In the late 1980’s and early 1990’s I spent LOTS of time with the Hare Krishnas. I remember going to the temple in Detroit the first time and chanting. About 20 minutes into doing this, something remarkable happened. It was like a big POP in my head. Some kind of kundalini awakening. Something I never felt before that. This chanting of the mantra over and over caused some kind of area of my mind to open up. Almost like the repetition cause a physical alteration of my physiology. It was completely nuts. At this moment, I saw the power of repetition. I strive to create that effect in my music. You have to relinquish control to the loop, and when you do… it can change you. It can open new paths of perception. Repetition is a mind altering drug. And it’s free.
Today the software is much more relevant than hardware in music productions mostly because we are able to do things impossible in the past. Some artists decided to move from hardware based studio to a software one and some of them also regretted it and stepped back. What is your experience? What is the setup you are working with nowadays?
Probably a combination of the two is best. I do have a recent obsession with old hardware samplers. There is a misconception that I prefer hardware because that’s what I’ve used in the past. But that’s not entirely true. I used hardware because that’s what I had. I never preferred it to software. I built my (old) studio in the 1980’s and 1990’s. I amassed a big collection of synths and processors over the years. I didn’t even have a computer until fairly recently. So everyone saw my set up and said… “oh he prefers hardware”. I just prefer whatever I have at the time. In recent years, I’ve actually grown to hate hardware. It’s too constraining. I like software because of the Zen of it. Having everything in a little box is nice to me. In 2015, I feel that hardware is an antiquated way of working. The most important thing in the studio is workflow. I don’t seem to have the attention span that I had years ago. So I need to get from point A to point B as quickly as possible, or the ideas will vanish before they’re committed to tape. With hardware, I can mess with patch bays for ½ the day just to get ready to make a track. Or, in the same amount of time I can actually make a track on a computer. Working with hardware is woefully inefficient. My ultimate goal is to get things recorded, not to play with synthesizers. If I was a synthesist… a guy who enjoys playing with knobs, it would be different. Then, wasting time playing with them would be ½ the fun and worth the time spent. But really, I hate synthesizers. I’m more concerned with the final painting rather than the brushes that I use. So I find computers liberating. Also, there is a bigger fascination with synths today that I can every remember… with all these eurorack systems etc. I want nothing to do with trends, so I won’t even use this stuff. Let everyone else play with it. I’m doing things differently. I think the whole synth market is terribly behind where it should be in 2015. I think synth companies make really cool tools, like say for instance the Hartmann Neuron or Jomox Resonator Neuronium, and they end up being monumental commercial flops because all buyers want are more X0X boxes. So they shelf all the great developments and make more Electribes or Aira’s. They’re continuously repackaging 1970’s technology. It’s a joke, and one of the reasons that I don’t support the synth market in 2015.
Since it’s very beginnings the techno aesthetics are more or less the same, what do you think about the health of scene in recent years and what do you think it could be the next big thing?
I think techno stopped being a developing art form several years ago. I remember going to record stores in the 90’s, and taking a pile of records of the wall and listening to them and being floored. I had to buy ½ the pile. Everything back then was so unusual from each other. Guys were pushing boundaries and everyone was trying to take the sound to the next level. I haven’t seen this for years. 7-8 years ago, everyone decided that they like the sound where it’s at, and it’s been the same since. Everyone seems to be making the same record over and over. They are striving to make “Berghain compatible music” rather than pushing sound into new realms. It’s sad to me. I’ve only heard one truly interesting record in the past 10 years. I think artists are scared to take a risk. Like maybe their fan base won’t like it. I always thought, “Who cares”. It’s better to try and fail than to not try. Crafting sound for a big Funktion One system is different than crafting enveloping soundscapes for a high-end home system. Stuff for a Funktion One must be simple with brutal transients. Keeping it down to 5-6 tracks with sharp percussion exaggerates the sound system’s power. I prefer making music for a big pair of Martin Logan Electrostatic speakers powered by a nice Audio Research amplifier. I hope the next big thing is ambient music. I think so much electronic music today is lacking the “lushness” or 1990’s music. I hope pads and other emotive elements find their way back into the click and cut music that’s so prevalent today. Techno today is almost 100% percussion. Not all drums, but percussive synths also. We need to increase the hold/decay knobs a little and swim around in the sound a little more. So many new techno tracks today are as brutal as a speed metal record. Harsh noise is tough on the nervous system. We should soften things up a little.
Having lots of experience as a producer but also as a label owner do you have any advice to help a young producer being effective while approaching a label?
My best advice is to focus on making something completely unique. We focus too much on being “good”, but what is “good”? Who knows? It’s totally arbitrary. But you know when you hear something unique. Make something that hasn’t been heard before. It’s much harder to do, but infinitely more rewarding. I think labels appreciate this too. So many musicians make the mistake of thinking… “label X likes this kind of music because this is what they’ve released in the past”, so they send them more of what they already have. I think they’d be more inclined to release something completely different than what they already have.
What are your favorite releases and why?
From the DC catalog, I like “Hash Bar Loops”. It reminds me of a time when I was staying in Amsterdam, living on the Keizersgracht canal, and recording music all night. It’s the soundtrack for my photo album of a happy time. “20 electrostatic Sound fields” is kind of like this too. Every track represents some kind of personal experience that I had. With that one, I feel like I’m taking people on a tour of interesting places. Rooftop is standing alone on top of the Barcelo Raval (in Barcelona) in the middle of a rainy night, with the rain hitting my umbrella. “Morning” is breakfast time at home in Michigan. “Day’s End” is evening in Shinjuku. “De Wallen” is a soundtrack for the red-light district in Amsterdam. Etc. etc. Lots of weird personal phonography in that one. It’s a big collection of those little recordings I made with portable WAV recorders over the years. “De Wallen” may be my favorite Deepchord track of all time. It’s got a murky, underwater/subterranean feel with a foreboding vibe. I’m good friends (not intimately) with a couple Bulgarian girls who work in the red light district, and they allow me to record in their “kamers” when they’re not busy with customers. I don’t think they get what I’m doing, but humor me all the same. I’ll go get them a coffee or buy lunch on their day off to repay them. Some of those recording are buried in “De Wallen” and “Trompettersteeg”. With other music than Deepchord, I really like “Untrue” by Burial. I think it represents the only true paradigm shift I’ve heard in music over the past 15 years. No synths. No X0X sequencing. It forgoes all the current trends in making electronic music, and I love it because of this. Nothing like it before or since IMO. I’m also a HUGE fan of the Kompakt Pop Ambient series. Those are gorgeous and I have every one. But at home, I really only listen to old music (1940’s and 1950’s) and field recordings. I love The Percy Faith Orchestra, Ray Conniff, and Eddie Calvert. I really like the field recordings of Jean Luc Herelle and David Lynch’s music. If I’m in the mood for something a little heavier, I’ll listen to some Fushitsusha or “Holy Money” by the SWANS at full blast. That’s one of the absolute greatest records of all time. I love it. I rarely listen to any techno music.[/tab]
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