Siamo felici. Siamo al settimo cielo come non lo eravamo da tempo. Quando ripensiamo a quanto ci siamo divertiti ancora ci si muovono inconsciamente i piedi sotto al tavolo. Vorremmo solo chiudere gli occhi, fare un respiro profondo e veder ripartire da zero quell’incredibile, scintillante e variopinta giostra che è stato questo weekend in terra olandese. Riassumere tutto il festival in un unico, gigantesco, periodo ci sembra un peccato perché ognuno dei cinque dancefloor (uno in più rispetto alla prima edizione) ha saputo crearsi un’identità ben definita nell’arco della manifestazione. Abbiamo pensato lungamente a come riuscire a trasmettervi anche solo un decimo dell’atmosfera che si è respirata grazie alla musica e ai sorrisi delle persone splendide incontrate nel corso di questo Dekmantel Festival e forse non ci riusciremo mai del tutto. Ma l’incarico che ci è stato affidato è innanzitutto quello di provare a raccontarvi la nostra storia e se alla fine di queste poche righe anche solo uno di voi avrà alzato la testa pensando “Cazzo, cosa mi sono perso!”, allora avremo degnamente portato a termine il nostro compito.
Le mille luci del Main Stage.
Sicuramente il centro nevralgico del festival: un’enorme distesa d’erba culminata da una tensostruttura circolare aperta con un palco a semicerchio interamente ricoperto di ledwall. Quasi un peccato che ci fosse a disposizione soltanto un’oretta di buio al giorno perché una volta calato il sole i colori dello stage rendevano l’atmosfera davvero magica. E’ stata per tre giorni (visto lo spazio abbondante) anche la location ideale per sedersi nel prato con una birra e godersi lo spettacolo mentre si ricaricavano le pile per poi ripartire. Nelle prime due giornate la musica è stata prettamente vaporosa, a partire dal live di inestimabile qualità dei Magic Mountain High, diviso scientificamente in due fra ambient pura prima ed una macarena di drum machine poi (con un a 303 grande protagonista dei momenti più intensi del live). Stesso discorso per gli attesissimi Nicolas Jaar e Jamie xx, che hanno accompagnato dolcemente il pubblico alla chiusura della prima giornata senza mai calcare veramente la mano. Unico vero contraltare sono stati i tre ragazzi della Hessle Audio che hanno regalato oltre due ore di un talento tanto cristallino quanto sfaccettato, con Ben UFO a fare da metronomo in mezzo all’indole musicale sregolata di Pangaea e Pearson Sound. La domenica però il Main Stage ha cambiato radicalmente faccia: l’innesto all’ultimo momento del live dei Karenn (tanto impulsivo quanto cattivo, pura industrial) ha alzato notevolmente il tiro e dopo di loro i maestri Robert Hood, Surgeon e Jeff Mills non si sono di certo fatti pregare.
Il cuore dark dell’UFO.
L’unica area interamente al coperto è stato il tendone UFO, dove si concentrava la faccia musicale più dura del Dekmantel. Ammettiamo che la bellezza degli stage open air (e un clima particolarmente favorevole) era tale da non considerare troppo soddisfacente l’idea di chiudersi dentro una tenda buia ad ascoltare techno con il sole a farci il canto delle sirene da fuori, ma abbiamo comunque cercato di rimanerci il più possibile. Ed abbiamo trovato grandi ed inattese sorprese ma anche cocenti delusioni. Tra i promossi ci sono sicuramente il live strepitoso dei fratelli Russell (aka TR//ER) ed il sempre lucidissimo Shackleton; ma anche Rødhåd, Joey Anderson ed Oscar Mulero. Qualche dubbio ce l’ha lasciato il live Trade, duo composto da Blawan e Surgeon, sul quale avevamo grandi aspettative ma che ci ha lasciati abbastanza indifferenti. Un peccato. Discorso a parte merita la domenica, dove Ostgut Ton ha portato quasi tutto il roster offrendo una serie di dualismi (alcuni inediti) che hanno avuto risultati altalenanti. Strepitoso il live combinato di Atom TM e Tobias, dritto ed essenziale come meglio non si poteva fare, così come molto bene hanno fatto anche Ben Klock e Ryan Elliott in chiusura. Meno bene Marcel Dettmann e Luke Slater, i cui differenti setup e stili musicali hanno obbligato i due ad un compromesso che non ci ha convinti fino in fondo. Un vero disastro invece Steffi ed Answer Code Request, che dopo una manciata di dischi davvero incompatibili hanno deciso di dividersi il tempo e suonare singolarmente. Tutto sommato crediamo che in un festival di questo livello sarebbe stato più opportuno affidarsi alle solide certezze che l’etichetta del Berghain può vantare piuttosto che affidarsi ad esperimenti in alcuni casi un po’ troppo azzardati.
Sotto il sole del The Woods.
Non vi mentiremo: durante le prime ore della giornata era quasi impossibile restare sotto questo palco ubicato in uno spiazzo privo di alberi nel mezzo del bosco. Infatti tendeva a riempirsi per bene soltanto da metà pomeriggio in poi. Questa location verrà ricordata principalmente per l’esibizione che tutti quanti aspettavano, anche se i Three Chairs hanno dovuto iniziare con un po’ di ritardo a causa del rischio maltempo (ne parleremo approfonditamente più avanti) e per l’occasione hanno gentilmente integrato nel loro back-to-back anche il futuro di Detroit, rappresentato al meglio da Jay Daniel e Kyle Hall, rimasti a bocca asciutta per i problemi citati sopra. E’ stato l’unico momento di questa tre giorni in cui abbiamo deciso di avventurarci nel backstage per qualche minuto. Veder lavorare, ridere, dividere una birra delle persone che fanno questo mestiere da tre decadi è stato meraviglioso e ci ha dato conferma di come questo ambiente sia stato in passato una vera grande famiglia, nonostante sia poi diventato un business che frutta cifre a molti zeri. Non vogliamo togliere nemmeno un’oncia alla classe degli eroi di Detroit, ma per noi il set del weekend al The Woods resterà sempre e comunque il bellissimo e scatenatissimo Can U Dance con cui quei due sregolati di Jackmaster e Oneman hanno concluso la nostra prima giornata di festival. Un concentrato di cultura musicale e “presa a bene” pressoché unico nel suo genere. Bravi bravi bravi. Da segnalare anche il live dei Plaid, che hanno presentato il nuovo (bellissimo) album e per un Andrew Weatherall capace di sfornare sonorità molto più energiche di quanto il suo background musicale abbia offerto negli ultimi anni. Menzione d’onore anche per gli unici a rappresentare i nostri colori al Dekmantel, quei Tale Of Us a cui è stato affidato il compito di far calare il sipario sul festival la domenica sera e che hanno radunato di fronte a loro una folla veramente impressionante, sinonimo di quanto vengano apprezzati anche e soprattutto fuori dai nostri confini.
Il giardino dell’Eden si chiama Selectors Stage.
Quando è stato annunciato questo nuovo palco abbiamo creduto fin da subito che si sarebbe trattato di qualcosa di marginale, di complementare, un “plus” che avremmo considerato relativamente in mezzo ad una line up foltissima come quella già annunciata. Quando sono usciti i nomi dei dj che si sarebbero esibiti al suo interno, però, abbiamo capito immediatamente di quanto il Selectors fosse roba seria. Descrivere cosa sono stati gli attimi passati in questo stage sarebbe quasi impossibile, quello che possiamo dirvi è che è stato come trasportare l’atmosfera di un club all’interno di un festival. E vi assicuriamo che non è affatto cosa facile. Immaginatevi un rettangolo immerso nel fitto verde dominato da un enorme salice piangente posto al centro della pista con una sorta di pagoda di carta di riso adibita a palco con luci gialle ad illuminarne le pareti. Gli artisti per un’ambientazione simile non potevano essere scelti a caso ed infatti non siamo mai rimasti delusi durante le molte ore passate da quelle parti. Sicuramente i maggiori attestati di stima li merita il duo composto da Gerd Janson e Prins Thomas, che hanno sfornato chicche su chicche facendo miagolare di gioia tutta la pista per tre, meravigliose, ore. Stesso discorso vale per il signor Rush Hour, meglio conosciuto come Antal, che si è scatenato come e più di noi per tutta la durata del suo set, e per i ritmi caldi e coinvolgenti offerti da San Proper e Melon – due che da queste parti si sono fatti voler bene non da ieri. Anche Ben UFO si è meritato un plauso con tre ore che hanno esposto tutte le sfaccettature di un talento destinato a durare ancora per molto. Bravissimi anche l’americano Traxx ed il duo inglese Optimo che hanno saputo chiudere alla grande le giornate di sabato e domenica. Piccola menzione a parte per DJ Harvey, quello che più di tutti attendevamo da queste parti: è vero che il Selectors voleva offrire appositamente set lunghi per permettere ad ogni artista di offrire il massimo, e che un dj del calibro di Harvey tende a trasformare ogni set in un autentico percorso, ma ad un festival bisogna mettersi nell’ottica che difficilmente una persona resterà per tre ore di fronte allo stesso artista, figurarsi avendo a disposizione una line up come quella del Dekmantel. Questo per dire che forse il set di Locussolus ha un po’ stonato con il resto di ciò che è stato proposto all’interno del Selectors proprio perché è sembrato un eterno divenire che faticava a coinvolgere chi se n’era perso una parte. Massimo rispetto per lui, ma stavolta ci ha lasciati un po’ con l’amaro in bocca.
Smile, you’re on Boiler Room!
Lo stage più piccolo offriva una diretta di sei ore al giorno con alcuni degli artisti che già si erano esibiti nelle altre sale nel corso del festival uniti a qualche sorpresa dell’ultimo minuto (che si sa, sono sempre le migliori). Come l’anno scorso, il tutto era organizzato sotto una struttura circolare intorno alla quale si ballava tutti insieme appassionatamente. Glissando sulla (tragicomica) disciplina Olimpica del fare a gomitate per apparire in diretta mondiale mentre si balla dietro ad un dj, anche da queste parti si sono vissuti parecchi attimi memorabili nel corso del weekend. Su tutti, applausi a scena aperta per lo strepitoso set di Motor City Drum Ensemble e per Steve Rachmad, qui nelle vesti di Sterac. Crediamo che entrambi avrebbero meritato più spazio in questo festival, speriamo accada l’anno prossimo. Molto bene anche l’inglese Kowton, capace di stupire tutti con quarantacinque minuti di qualità altissima, così come la leggenda americana Rahaan e il giovane talento olandese Interstellar Funk.
L’unica cosa ad averci lasciati con un po’ d’amaro in bocca si è verificata il secondo giorno, quando tre sale su cinque sono rimaste chiuse per circa metà della giornata a causa del rischio di temporali – che poi, fortunatamente, hanno solo sfiorato il festival. Quello che per molti è stato considerato un eccesso di zelo, però, viene perdonato agli organizzatori immediatamente, tanto è stato esaltante e divertente il resto della rassegna.
Di cose da raccontare, se solo non fossimo stati spesso costretti a decisioni dolorose che ci hanno obbligati a scegliere tra diverse esibizioni, ce ne sarebbero ancora: i ragazzi di Dekmantel sono stati in grado di mettere in piedi un gioiellino, donando al mondo del clubbing un piccolo miracolo, “crescendolo” nel migliore dei modi e facendogli fare un significativo passo avanti rispetto alla scorsa edizione, pur mantenendone l’autenticità. Un anno fa eravamo rimasti tutti di sasso, inutile negarlo, dinnanzi a un festival di tre giorni nuovo di zecca, con un’asticella qualitativa e quantitativa altissima (ma allo stesso tempo con un target numerico volutamente limitato) capace di sconvolgere ed allo stesso tempo conquistare tutti i partecipanti. Oggi, dopo la seconda edizione, torniamo a casa con lo stesso sorrisone a trentadue denti della prima volta, ma anche con una solida certezza dentro la nostra saccoccia: non è stato assolutamente un caso.