Questa volta partiamo dai titoli di coda, dalle ultime istantanee di un festival che tanto noi quanto voi abbiamo imparato ad amare in queste prime quattro edizioni. Partiamo da Motor City Drum Ensemble che, a margine di un set trascinante come è solito proporre, si guarda bene dal cedere alla ghiottissima tentazione di salutarci con un paio di hit – quelle che non è nuovo riservare al pubblico dei club dove ogni settimana suona i suoi dischi – e sceglie di schiacciare bruscamente il pedale del freno, spezzando il crescendo adrenalinico della sua selezione e abbracciandoci coi ritmi compassati di “Don’t Want To Lose You” di Nina Decosta. È il suo modo di dirci che vuole bene a questo pubblico che negli anni l’ha coccolato, idolatrato e definitivamente consacrato a icona della notte mondiale, ponendolo alla stregua dei più grandi (tanti, quasi tutti) transitati per i suoi stage ed elevandolo a “dj manifesto” dell’intera rassegna.
Il Dekmantel e Motor City Drum Ensemble escono entrambi più grandi e maturi da questa quattro-giorni di musica, forti dell’ennesima prova di maturità e sempre più all’altezza delle sfide che inevitabilmente si trova di fronte chi sta crescendo. Se per Danilo Plessow abbiamo esaurito gli aggettivi, ancora una volta estasiati dalla sua capacità di mantenere intatta ad ogni costo l’identità della sua musica dinnanzi ai dancefloor più disparati (“ma una bombazza in chiusura ci sarebbe stata”, lo abbiamo comunque sentito dire da chi ci circondava a centro pista), non smetteremo mai di ribadire quanto il festival olandese rappresenti una delle eccellenze per quanto concerne le rassegne elettroniche del Vecchio Continente.
Il Dekmantel, nonostante cresca visibilmente in termini di presenze e malgrado queste stiano inevitabilmente cambiando con l’aumetare della sua popolarità, resta sinonimo di musica di qualità, qualsiasi sia la declinazione musicale preferita. House, techno o disco, fa poca differenza: all’Amsterdam Bos si ballano dischi meravigliosi grazie ad artisti che – almeno nella stragrande maggioranza dei casi – sembrano trovare a queste latitudini l’habitat ideale per esprimere al meglio il loro potenziale. È il caso di molti dei dj autoctoni (o di base dalle parti di Rush Hour), è chiaro, ma il discorso vale soprattuto per tutti quegli artisti che durante la rassegna sono chiamati in causa al Selectors Stage, sempre più termometro del festival, e alla Greenhouse. È qui che anche questa volta succedono le cose più memorabili della rassegna, è qui che le nostre orecchie e le nostre ginocchia trovano pane per i loro denti.
Al Selectors Stage e alla Greenhouse i dj sono messi nelle condizioni migliori per potersi esibire: pubblico a stretto contatto, soundsystem addirittura migliorati rispetto alle passate edizioni e slot più lunghi della media. Il primo a beneficiarne è DJ Harvey, che da il calcio d’inizio come meglio non potrebbe al festival di fronte a un dancefloor gremito sin dai primissimi dischi: è una delle star di questo Dekmantel e il suo sound dai bpm compassati tutto disco e funk trasforma le sue tre ore e mezza in una messa cantata tutta lustrini e sorrisi, nonostante il sole abbia faticato un un po’ a farsi vedere. Dopo di lui Young Marco, abile a tenere alto l’umore della pista, difendendosi egregiamente dagli altri “big” sparsi in giro per le altre consolle.
Se però con DJ Harvey e il giovane olandese si è andati praticamente a botta sicura, chi ci ha lasciati invece parecchio interdetti sono stati Marcellus Pittman e Theo Parrish. Il back-to-back dei due mostri sacri di Detroit è stato sicuramente sotto le (altissime) aspettative: al contrario di quanto circolato in rete subito dopo la loro esibizione, il dancefloor del Selectors non ha mai vibrato dell’energia delle ore precedenti, riempiendosi solo ad ondate durante le cinque ora e mezza occupate da giganti americani. Dopo un inizio sottotono l’impegno non è comunque mancato, ma le tante alternative offerte dal festival non hanno aiutato Parrish e Pittman a fare del Selectors Stage il cuore e l’anima del venerdì sera. Chi ha goduto delle loro scelte sbagliate sono stati sicuramente Tom Trago e Cinnaman che, forti di un pubblico di ammiratori autoctoni decisamente coinvolto, hanno saputo far vibrare la Greenhouse, tenendo il dancefloor con le braccia alzate e il sorriso stampato in faccia fino a chiusura. Con la loro selezione imprevedibile i due olandesi hanno proposto la migliore delle alternative a chi avrebbe fatto volentieri a meno di Blawan, del sempre eccellente Jeff Mills o di DJ Stingray alla Boiler Room.
Fatta eccezione per il rivedibilissimo back-to-back tra Magda e Mike Servito, mai veramente all’altezza di un palcoscenico come quello del Selectors, dove il pubblico si è dimostrato paziente e curioso come quello di pochi club al mondo, i nostri due stage preferiti sono rimasti, insieme alla Boiler Room, il baricentro dei nostri spostamenti anche il secondo e il terzo giorno del festival. Nel palco dei “selezionatori” si sono alternati il back-to-back tra i canadesi Pender Street Steppers e gli americani Beautiful Swimmers, una delle più piacevoli sorprese dell’intera rassegna, Donato Dozzy e Call Super, già presenti e fortemente applauditi nell’edizione precedente; mentre alla Boiler Room, dopo i set di Palms Trax e Pearson Sound il venerdì, abbiamo goduto del meraviglioso sound proposto da Antal e Sadar Bahar, ciascuno autore di uno show degno di uno streaming tanto seguito.
Alla Greenhouse menzione obbligatoria per Egyptian Lover, che si ritaglia un posto nei nostri cuori grazie ad un’esibizione unica nel suo genere. Più che dj e produttore, lo vorremmo chiamare “entertainer” per la presa che ha avuto sul pubblico: “scegli un disco, mettilo sul Technics, prendi in mano il microfono e inizia a cantare” è la formula che l’eccentrico produttore sceglie per la sua performance che, a parer nostro, va ammirata almeno una volta nella vita. Oltre all’americano, le altre note positive “dalla serra” del Dekmantel sono l’ormai quotatissima The Black Madonna, Paul Woolford in versione Special Request (autore di un suono ’90 trascinante e divertente), il set funky di Vakula, il live robotico degli AUX 88 e quello reggae e dub di Adrian Sherwood in compagnia di un Lee “Scratch” Perry più in forma che mai nonostante abbia spento ottanta candeline lo scorso marzo.
Il Main Stage, dopo averci regalato l’ennesima prova di bravura di Dixon il venerdì, recita la parte del protagonista il giorno di chiusura del festival: Palms Trax col suo set ricco di hit – a tratti fin troppo – lancia la volata conclusiva che, nonostante il live di Fatima Yamaha sia stato piazzato in modo improbabile nel cuore del pomeriggio, viaggia a vele spiegate fino a DJ Koze (prima) e Motor City Drum Ensemble (poi), resistendo alla tentazione di dedicare più tempo all’ennesimo set vincente di Robert Hood, sempre più idolo del pubblico del Dekmantel. Se Stefan Kozalla fa, come troppo spesso ci è capitato di assistere, il compito senza regalare veri e propri colpi di scena (il suo remix di “Bad Kingdom” se lo aspettavano praticamente anche i baristi), è Danilo Plessow a salire in cattedra e a far sua l’intera scena. Il tedesco, col suo inizio dolce, ha regalato al pubblico un set dal climax ascendente fino alla bellissima voce di Nina Decosta, con la quale ha riportato la folla in estasi coi piedi per terra dopo un’ora e cinquanta di mani al cielo e coriandoli.
L’edizione 2016 del Dekmantel Festival è stata indubbiamente più affollata delle precedenti. Gli aerei hanno iniziato ad essere pieni di persone pronte a fare dell’Amsterdam Bos la loro base per tre giorni, i palchi sono stati resi ancor più belli (al Selectors, ad esempio, dietro alla consolle era stata posizionata una libreria con vinili, mentre il Main Stage è stato arricchito da visual a tratti mozzafiato), le file si sono allungate e i controlli all’ingresso si sono fatti più serrati, ma la qualità musicale non ne ha minimamente risentito. Il Dekmantel Festival si riconferma, anche quest’anno, una delle migliori rassegne europee, capace di stupire e coccolare chi decide di trascorrere una piccolissima parte delle propria estate tra gli altissimi alberi e i verdi prati che caratterizzano la campagna olandese.
Ma dopo tre giorni così, che cosa rimane? Sicuramente la sensazione di aver fatto parte di un gruppo di persone riunitesi per ascoltare, capire e scoprire artisti non necessariamente conosciutissimi; ma anche l’euforia di una festa che sì, può essere estenuante, ma che non si vorrebbe finisse mai. È una fatica piacevole il Dekmantel Festival, quel tipo di fatica che, almeno una volta nella vita, vi consigliamo di vivere.