Nonostante il rush adrenalinico intasi ancora a pieno il nostro organismo siamo lucidi a sufficienza da renderci conto che, purtroppo, anche la quinta edizione di Dekmantel Festival (la quarta consecutiva coperta sul campo) è terminata e bisogna ritornare mestamente alla vita. Perchè sì, c’è vita dopo il Dekmantel. O, se vogliamo, c’è vita fino al prossimo Dekmantel. Perchè non c’è niente da fare: non appena finito di contare (letteralmente) le ore che mancano alla fine di un altro weekend di grande festa, di amicizie nate per caso ed altre rafforzatesi sempre più, di artisti ed addetti ai lavori più interessati a vivere a pieno il mood lontano dalla consolle ancor più che quello al suo interno, di infrastrutture e servizi ancora una volta al limite dell’impressionante, di una qualità media musicale da far impallidire gran parte degli altri open air estivi, non resta altro che iniziare – come ogni anno – un solerte conto alla rovescia fino a quando si potrà ancora una volta scorgere, nel bel mezzo dell’Amsterdamse Bos, quel piccolo angolo di Paradiso che rimane ogni volta esattamente come lo ricordavamo e che, ancora una volta, si è preso e portato con se una parte considerevole del nostro cuore.
Perchè i ragazzi di Dekmantel hanno capito bene qual è la strada da percorrere per creare un prodotto che sia di successo nel medio-lungo termine: la continuità sensoriale. Quella stessa qualità inestimabile che ha reso e rende tuttora eventi come Sònar, Time Warp, Awakenings e via discorrendo così tanto amati anche a distanza di anni. La capacità da parte del cliente di sentirsi immediatamente a casa non appena varcata la soglia, di riconoscerne i punti di riferimento, di sapere esattamente dove recarsi per mangiare, sentire questo o quell’altro genere musicale, farsi una sana pisciata o semplicemente andarsi a prendere un taxi o una navetta una volta concluso il tutto. Persino la gente che nelle battute finali del set di chiusura nel Main Stage scavalca le transenne e comincia a ballare sui muri di casse è diventata una riminiscenza comune. Questo è ciò che solitamente offre un valore aggiunto e permette di garantire un boost emozionale che spinge a non considerare più un festival come un evento mordi e fuggi ma, al contrario, come un vero e proprio appuntamento fisso. Qualcosa che, in un modo o nell’altro, viene subito voglia di prenotare di nuovo non appena finito quello precedente. A dimostrazione che il concetto secondo il quale rimodellare gli ambienti ed aggiungere sempre più epica in ambito di scenografie non serve quando si ha un prodotto che funziona, fruito da chi ha come unica pretesa quella di ascoltare musica di qualità senza che troppi abbellimenti estetici vadano ad impensierirne il ruolo come fattore principale. Come ha detto qualcuno durante questo weekend: i fuochi d’artificio devono farli i dj e non i palchi.
E ci abbiamo tenuto a ribadirlo anche agli stessi organizzatori, Thomas Martojo e Casper Tielrooij, quando abbiamo avuto occasione di incrociarli in giro per la location. E proprio da loro inizia la nostra storia, essendosi resi (quasi involontariamente) partecipi di uno dei momenti emozionalmente più alti di questa edizione 2017, all’ora di cena del sabato. Quando, imprevista ma fortunatamente unica in tutto il weekend, una pioggia fitta e insidiosa ha fatto capolino per una buona mezz’ora proprio durante il loro set come Dekmantel Soundsystem, per la prima volta approdato nel Selectors dopo quattro anni di aperture sporadiche nel Main Stage. Visto l’annuncio (tramite notifica su app ufficiale del festival, per farvi capire il livello organizzativo) di questo temporale in arrivo, gran parte degli astanti (noi compresi) si era rifugiata sotto la cupola del Main Stage dove Floating Points – ottimo groove ma non sempre incisivo per il contesto in cui era impegnato – stava lasciando il testimone al poco intrigante dj set di Jon Hopkins. E’ bastato uno sguardo e via: “Sai che c’è? Io mi prendo la pioggia e sia quel che sia.”
Mai scelta fu più azzeccata: il Selectors, sotto un’acqua infernale, ha cominciato a riempirsi di poncho trasparenti (lanciati dal palco e distribuiti nei bar) e la festa non solo è andata avanti, ma ha accelerato al punto da creare quel famoso “effetto Dekmantel” che fino a quel momento aveva latitato un po’, seppur la qualità media di ciò che avevamo ascoltato era stata comunque ben oltre un’onesta sufficienza. Quell’ora vissuta dentro il Selectors è stato uno di quei momenti che dovutamente ci si mette nel taschino dei ricordi per il resto della vita. Gente che saltava da tutte le parti al ritmo di una selezione molto eclettica ed ideale per il contesto, un oceano di mani in aria come se il sole non fosse mai andato via. Da una situazione di oggettivo disagio è nato qualcosa di incredibile, da pelle d’oca solo a pensarci. Ed anche i (molti) artisti presenti in quel momento non hanno potuto fare a meno di prendere parte al delirio collettivo.
Parlavamo però di meno momenti clou in mezzo a tanta bella musica. E qua lo confermiamo. Seppur sia vero che il Dekmantel ci ha abituato (anche musicalmente) ad un livello talmente elevato di aspettativa da rendere quasi ordinarie prestazioni comunque più che discrete come, ad esempio, quella di Motor City Drum Ensemble nel Selectors o di Robert Hood nel Main Stage a chiudere la prima giornata, bisogna ammettere che rispetto alle precedenti edizioni ci siamo trovati alle prese con tantissime cose buone ma pochissime davvero eccezionali. Ad eccezione, oltre ai già citati, di un Ben UFO strepitoso e maturo come poche volte lo avevamo visto di fronte ad una folla oceanica per la chiusura del sabato. Il talentino inglese ha osato un po’ nella prima mezz’ora, buttando l’amo qua e là per vedere da che parte pendeva la pista, salvo poi ingranare la quarta senza mai snaturarsi e andando ad impattare il risultato pieno con un mix perfetto di fattura prettamente anglosassone. Prendendosi il plebiscito non solo della pista tutta, ma anche e soprattutto dei molti colleghi presenti che ne hanno tessuto le lodi sui social durante le ore successive. Stesso discorso per la coppia d’oro di Rush Hour composta da Antal e Hunee che, dopo la masterclass a tema house music tenuta da Larry Heard e Mr. White, hanno chiuso i battenti del festival come meglio non si poteva. Andando persino ad impensierire set clamorosi come quelli di Dixon e Motor City Drum Ensemble lo scorso anno con un set che ha fatto il giro del mondo della musica toccando Sud America, Stati Uniti, Africa ed ovviamente il vecchio Continente. Prendendosi qualche rischio nella parte centrale del set ma andando a conquistare una doverosa ovazione urbi et orbi. Così come accaduto al Greenhouse dove la chiusura del venerdì è stata affidata, quattro anni dopo, alle mani sapientissime di Joe Claussell che ha deliziato i presenti col suo solito show fatto di isolatori e body movement sfrenato.
Cos’è mancato quindi? Forse, per la prima volta in quattro anni di presenza, una vera possibilità di scelta in molti momenti del weekend, con ad esempio uno stage UFO sicuramente accattivante sotto il profilo artistico ma decisamente poco appetibile per quanto concerneva quello ambientale. Gli anni precedenti (essendo aperto su tutto il lato lungo) era possibile anche ballare comodamente senza immergersi nel caldo torrido del tendone. Quest’anno con un unico ingresso a fondo sala la soluzione era molto meno percorribile. Tre giorni di sole e venticello contro una sauna costante (per stessa ammissione di chi ci ha passato dentro delle ore uscendo stremato) non è una scelta dipendente dal gusto musicale. Si tratta proprio di sopravvivenza del corpo e dello spirito. Anche le altre sale, il Selectors in particolare, hanno lasciato molto spazio a sorprese e nomi meno noti, ma con risultati non sempre edificanti. Se da una parte gli innesti di Nina Kraviz e Marcel Dettmann hanno comunque portato un valore aggiunto alle aperture dei primi due giorni, altri nomi come Beatrice Dillon, Baris K e Vladimir Ivkovic non hanno saputo dare quel mordente che aveva caratterizzato molti dei nuovi ingressi nelle precedenti edizioni. Anche la Boiler Room ha finito per essere spesso snobbata a causa di molti doppi set di artisti già esibitisi e un po’ meno atmosfera rispetto agli anni passati. Il grande veicolatore del weekend è stato senza dubbio il Main Stage, centro emozionale del festival come mai prima d’ora. Molte delle performance migliori si sono concentrate da queste parti andando forse un po’ a mettere in ombra il resto del programma.
Il verdetto quindi da che parte penderà? Bè, l’abbiamo detto, il Dekmantel porta con se aspettative ingenti, ma riesce comunque a rispedirci a casa (come ogni volta) con la sensazione di essere stati testimoni di qualcosa di meraviglioso e difficilmente eguagliabile nel mondo dei festival estivi. La speranza sarà quella di ritrovare, come era sempre stato, un festival che ruoti meno attorno al suo epicentro strutturale e più sulla possibilità di vivere molti festival in base al gusto, alla curiosità, all’attitudine. Resterà solo da capire cosa ci riserverà la sesta edizione per la quale sono state già aperte le pre-registrazioni sul sito ufficiale e per cui, come accade da quattro lunghi anni, è già iniziato il solito, maledetto, conto alla rovescia.