Chi dice che un festival di musica elettronica debba per forza insegnare qualcosa ai propri frequentatori? Chi ha teorizzato che il rischio d’impresa sia solo un parolone da dinamiche corporate ed estraneo alle arti figurative? Dove sta scritto che un’organizzazione sia obbligata a dare ascolto alle critiche dei propri astanti e regolare le proprie scelte nel breve-medio-lungo termine (anche) su questa base?
Risposta univoca: NESSUNO.
E siamo pieni zeppi di esempi dove eventi – anche enormi – hanno dimostrato che cavalcare un’identità consolidata negli anni, sferragliando a moto perpetuo su binari conosciuti piuttosto che perdere faccia e/o fan base con azzardi artistico/logistici di una certa rilevanza possa dimostrarsi un modello vincente, in grado di mantenersi dalla parte giusta del break-even point. Com’è vero peró che altrettanti eventi – ed anche qua ne troviamo di iconici – hanno, alla lunga, pagato dazio per la poca volontà di evolvere il proprio concept, rimanendo rintanati nelle certezze dell’ego e di ricordi sempre più sbiaditi. Salvo poi provare a salvare il salvabile, snaturandosi totalmente quando ormai era troppo tardi.
Lo riconosco, quando si parla di Dekmantel Festival ne faccio sempre una questione di cuore. Perchè il mio, di cuore, lo lascio puntualmente dentro all’Amsterdamse Bos ogni anno dal lontano 2014. E lo vado a riprendere, puntuale come un orologio svizzero, quello successivo. Eppure, se dovessi guardarmi indietro, potrei dire di aver vissuto – nelle mie cinque edizioni da frequentatore – altrettanti festival differenti. Con linee artistiche sempre volte a ció che sarebbe stato, senza sentirsi troppo comodi nella bambagia dei feedback positivi e degli incrementi di fama dovuti a ció che si era già costruito.
La cosa che in assoluto ho pensato più volte mentre vagavo per il Dekmantel in questi anni è stata: “Speriamo che questo posto non cambi di una virgola. MAI.”. L’ho persino detto più di una volta a Thomas Martojo, uno dei suoi padri fondatori. Senza neanche rendermi conto che in cinque anni, in quel Main Stage dove oggi chiude un talento purissimo – e che al Dekmantel deve molto – come Helena Hauff, dove hanno chiuso Antal & Hunee e MCDE, una volta c’erano Laurent Garnier e Dixon. Dove una volta c’erano i Tale Of Us e Jeff Mills oggi ci sono Palms Trax e Young Marco. Il festival, come la miglior cantera sportiva, ha preferito crescersi in casa i propri headliner del domani invece che essere costretto a strapagare per i top player di oggi. E l’ha fatto anche andando ad allargare sempre maggiormente la sua forbice musicale: sperimentando nuovi intrecci sonori ed ascoltando il parere di chi, come me, come noi, quel festival l’ha amato dal primo momento in cui ci ha messo piede.
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Ho visto un’attenzione alle reazioni del pubblico che raramente mi era capitato di testimoniare in oltre dieci anni che bazzico questo ambiente. Ogni possibile miglioria e suggerimento è stato realmente preso in considerazione. Spesso anche all’interno dello stesso weekend come accaduto quando, venerdì sera, si è creato un pericoloso imbuto a cavallo fra le due parti del festival in prossimità dei bagni e la gente ha cominciato a spazientirsi. Il giorno dopo, al nostro arrivo, la viabilità in quel tratto era stata dovutamente riveduta per permettere alla folla di spostarsi ed usufruire del terreno di gioco in maniera più agevole.
Perchè questi sono i veri patrimoni del Dekmantel Festival che non dovranno mai cambiare: la sua casa e coloro che la abitano. Le uniche, reali costanti che permettono ad un evento del genere di essere in grado di mantenere un hype mostruoso anche rimescolando spesso il proprio orientamento musicale. Per questo oggi i suoi proprietari, nelle vesti di Dekmantel Soundsystem, possono tenere il Greenhouse zeppo come un bazaar mediorientale per tre ore filate mentre altrove suonano nomi come Shackleton, DJ Bone, Tom Trago e Maceo Plex (anche se nelle vesti old-school di Mariel Ito). Per questo sale come Selectors ed UFO sono rimaste murate per quasi tutto il weekend: erano l’isola felice per chi non sapeva bene cosa sentire in alcuni momenti. Erano, rispettivamente per house e techno, la certezza di trovare un ambiente consono al proprio modo di vivere la musica e la festa in generale. La fiducia che la selezione artistica fosse stata pensata per incastrarcisi perfettamente completava idealmente il puzzle. E questo vale molto più di qualunque sequela infinita nomi da cartellone.
Sono sicuro che più di qualcuno farà notare come nei due UFO facesse davvero troppo caldo. Che il merchandising sia sempre più caro. E soprattutto di come, man mano, il Main Stage stia perdendo un po’ di quel fascino da big room che si era costruito nei primi anni. E questa sarà senz’altro la grande sfida per la prossima edizione: dare nuova linfa al centro nevralgico della manifestazione, un po’ troppo spesso snobbato nelle ultime due edizioni, in particolare questa. Trovare nuove sinergie che ci si possano sposare senza dover nuovamente ricorrere a facili escamotage artistici non sarà facile, ma quello sui cui gli organizzatori oggi sanno di poter contare è che al primo weekend di agosto del prossimo anno, molti di noi torneranno a mettersi in fila sotto il sole, educatamente ma con la spontanea sicurezza di chi si sente sulla soglia di casa dopo una lunga attesa, a reclamare ancora una volta il proprio cuore, anche se solo per un weekend.