“O muori da eroe o vivi tanto a lungo da diventare il cattivo”
Non pensavo avrei mai potuto usare una citazione di Batman per spiegare un concetto legato al clubbing, ma tant’è. Perchè dunque questa frase è così perfettamente indicata per descrivere cosa rappresenta la demolizione – dopo diverse decadi di inattività – del numero 84 di King Street, in quel di New York, avvenuta proprio in questi ultimi giorni? La risposta è semplice: era solo un palazzo in disuso che doveva fare spazio a qualcos’altro, come spesso accade nelle grandi città vittime della gentrificazione, e niente più. Chiaro e semplice. Come quando qualcuno muore: fa poca differenza se viene sepolto, bruciato, sparso in mare o qual si voglia metodo alternativo. Una volta spentosi ció che quel “contenitore” racchiudeva rimangono solo ossa e carne. Restano solo le spoglie, fredde fondamenta di qualcosa che potrà rimanere vivo solo attraverso ció che ha significato per chi ha avuto la fortuna di viverne il meglio. Qualcosa che, si spera, verrà tramandato a chi, in seconda battuta, deciderà di raccoglierne figurativamente il testimone per perpetuarne gli insegnamenti, andando così a renderne le gesta qualcosa di realmente immortale. Non è infatti un segreto che molti dei club che hanno fatto la storia, anche e soprattutto nel Vecchio Continente, abbiano guardato a luoghi rimasti soltanto nell’immaginario collettivo come il Warehouse / Muzik Box ed, appunto, il Garage come punto di riferimento etico ed artistico.
Nello splendido documentario dedicato ad un campione infinito come George Best, il bravissimo Federico Buffa questo concetto lo esemplifica alla perfezione: perchè ci ricordiamo con così tanta commozione di un giocatore come lui seppure la sua carriera sia stata cosparsa di una luce a tratti meravigliosa ma ben più spesso flebile come una candela che sfida la violenza del vento? Termine mutuato poi da Elton John per cantare di un’altra stella caduta troppo presto nella trappola della vita come Marylin Monroe. E poi riadattato, perfettamente in linea con questo concetto, per i funerali di Lady Diana dopo il drammatico incidente del tunnel di Place de l’Alma. E ci sarebbe una serie infinita di altri esempi perfettamente calzanti.
La mia risposta a questo interrogativo è: perché alcuni miti vengono scolpiti proprio dalla scomparsa prematura ed improvvisa nel momento di massimo splendore. Dalla scoperta della fragilità nell’onnipotenza. Dall’improvvisa scarica di disarmante umanità in figure che ordinarie non lo sono sembrate mai. Forse perché, come diceva Freddie Mercury poco tempo prima di confessare al mondo la sua duratura battaglia contro l’AIDS, un sessantenne che danza in tutù su un palco sarebbe qualcosa di ridicolo. Ed in un’altra intervista precedente, in tempi ancora non sospetti, alla domanda su dove si vedesse fra vent’anni, aveva risposto: “Sei matto?! A quell’ora sarò già morto!”. Come se già inconsciamente sapesse che una vita spesa costantemente sulla cresta dell’onda avrebbe dovuto, per forza di cose, esigere un tributo.
Perchè, in fondo, i nostri eroi non vorremmo vederli invecchiare mai. Ci piacerebbe mantenerne il miglior ricordo senza essere costretti a vederli sfiorire nel corpo e nello spirito e chissà, magari svendere il proprio ideale. Quello di quando ci hanno fatto emozionare e sentire la voglia di emularne le gesta.
Il Paradise Garage ha seguito la stessa regola, andando, nella sua decade di attività fra il 1977 ed il 1987, a creare un porto franco ed un simbolo per tutti coloro che cercavano riparo dagli stereotipi imposti dalla New York di quel momento storico. Rimanendo saldamente un punto di riferimento per un movimento sociale, non solo musicale. E finendo peró ad accartocciarsi su se stesso, vittima sfortunata delle conseguenze di quegli ideali di libertà individuale che ne hanno poi reso immortale il ricordo ma anche così dolorosa la dipartita. Il mio dubbio è: avremmo lo stesso trasporto nel menzionare quelle quattro mura se la sua legacy fosse sopravvisuta al periodo storico in cui si incastrava perfettamente? O vederselo strappare via nel suo momento di massimo splendore ne ha – volente o nolente – consacrato ancor più la grandezza? E allora perchè ci disperiamo se il palazzo dove quel cuore ha smesso di battere da ormai tre decadi viene infine buttato giù invece che essere conservato come reperto fondamentale di un movimento che ancora oggi gli deve molto? Secondo me non avrebbero potuto fargli un favore migliore! Sui monumenti ci cagano i piccioni e poco più. Sono gli ideali ed i ricordi a sopravvivere alla crudeltà del tempo che scorre. Non i corpi morti, non i pezzi di pietra.
Per questo non ho mai amato i cimiteri. Luoghi dove si va figurativamente a prendersi un attimo da dedicare alle persone care passeggiando in mezzo a migliaia di corpi morti che non hanno più nulla in comune con coloro che abbiamo perso. Il modo migliore per onorare il ricordo di qualcosa che ci è stato portato via non è portare dei fiori davanti ad un pezzo di mogano tre metri sotto terra una volta ogni tanto o fare una foto davanti ad un palazzo vuoto che non significa più niente, ma lasciare che le esperienze vissute insieme e gli insegnamenti ricevuti facciano da sottofondo al resto della nostra vita e quella di coloro che un giorno, di rimando, ricorderanno ció che noi siamo stati per loro.