[tabgroup layout=”horizontal”]
[tab title=”Italiano”]Quando pensiamo a Dennis Ferrer le prime associazioni mentali sono il travolgente carisma e la carica fisica ed emotiva che i suoi dj set trasudano. Un esempio sono i suoi recenti video direttamente dal BPM Festival a Playa del Carmen in Messico. Un istrione, un animale da palcoscenico, un intrattenitore degno della scena house della NY degli anni ’80-’90 in cui è nato e cresciuto. Eppure è il Dennis che non ti aspetti quello che troverete nelle righe che seguono. Cinico, sicuro di se e focalizzato anima e corpo sul futuro. Non ha problemi a dirci che è nato in un quartiere difficile, dove essere creativi era quasi una colpa invece che un valore, dove nessuno gli ha mai regalato niente senza che se lo sudasse. Questo tipo di etica lo ha accompagnato per tutto il corso della sua carriera. Guai a sedersi, a guardarsi alle spalle con l’involontario sogghigno di chi sa di aver un ruolo di nota nello spettacolo che è stata la musica house degli ultimi vent’anni. Il mondo è in continuo divenire e, parole sue, se ti ritieni soddisfatto la tua carriera è bella e che finita. A voi le sue parole!
Adoro intervistare gli artisti che si sono formati musicalmente negli Stati Uniti. Il motivo è che nell’arcobaleno di luoghi e di persone che hanno caratterizzato le ultime tre decadi, ognuno ha vissuto una sua personalissima storia che lo ha poi avvicinato al mondo della musica. Qual è la storia di Dennis Ferrer e quanto ha contribuito a creare la persone e l’artista che è oggi?
Sono stato molto fortunato a crescere nella New York di quel periodo, quando la musica dance non era ancora inquadrata rigidamente in un genere specifico. Non c’era sensazione migliore che avere 10 anni ed avere qualche dollaro che mi bruciava dentro alle tasche ed andare nei negozi di dischi dove ad aspettarmi c’erano “Le Freak” degli Chic oppure “September” degli Earth, Wind & Fire. E’ stato davvero un gran periodo per la musica. C’era così tanta innovazione nella struttura delle canzoni e anche nei testi. Non come la mentalità “a stampino” che tende a prevalere oggi. Sono cresciuto in un tempo in cui alcuni pezzi riuscivano davvero a scuotere il mondo: ad esempio “Heartbeat” di Taana Gardner, direttamente dal West-End. Non si parlava ancora di tracce. Perciò la mia preferenza è quella di creare dischi che siano prima di tutti canzoni. Purtroppo al tempo la parte interna di NYC era parecchio pericolosa a cavallo tra gli anni ’80 e i ’90 e lo era assai di più se eri un teenager. La musica era una parte della mia realtà parallela e mi ha permesso di evadere, di sognare, di avere un rifugio, di sentirmi vivo, mentre all’esterno il mondo reale non perdeva occasione di punire senza alcuna pietà coloro che osavano rivelare quel lato di loro stessi. Questo aspetto è una delle prime cose che filtrano attraverso la mia musica.
Crescere a NYC durante un periodo musicalmente florido come gli anni ’80 e ’90 deve essere stato particolarmente stimolante. Quali erano i locali che frequentavi assiduamente e gli artisti che ascoltavi con più fedeltà?
Durante gli anni ’80 ero un filo troppo piccolo per frequentare la maggioranza dei club. Per i ragazzini ruotava tutto intorno ai party in casa oppure ai “block parties” (letteralmente feste dell’isolato, ndr) dove un dj attaccava le proprie apparecchiature ad un palo della luce e ci si ritrovava in 200 a ballare in mezzo alla strada. L’arrivo degli anni ’90 mi ha portato il Palladium, il Limelight, il Danceteria, il Tilt, il Latin Quarter, Il The Tunnel, il Twilo e il The World. Eravamo ancora ragazzi ed eravamo ancora un po’ “confusi”. Io stesso come artista all’inizio ero parecchio confuso: con una mano ascoltavo “Digeridoo” di Aphex Twin e The Scientist fino ad arrivare a DJ Pierre ed MK con un contorno di Pal Joey, poi A Tribe Called Quest e Brand Nubian, poi Luther Vandross e Jodeci. Non me ne fregava niente che facessero generi diametralmente diversi, il mio cervello in quel momento era come una spugna.
Nella tua bio troviamo come prima frase “right place, right time” (nel posto giusto al momento giusto, ndr). Questa filosofia ha caratterizzato solo l’alba della tua carriera come musicista o ne hai fatto tesoro anche durante gli anni seguenti?
Credo profondamente in quel tipo di etica. E’ il senso della vita. Puoi provare a creare delle dinamiche che ti siano favorevoli, ma la verità è che la vita ruota tutto intorno a quella filosofia. Puoi conquistarti delle possibilità, ma l’importante è capire quando poter trarre vantaggio da queste possibilità. Nel posto giusto al momento giusto.
Quali sono state le persone che hanno maggiormente creduto in te durante il tuo percorso come artista? Farsi notare a quel tempo era complesso come oggi o c’era maggior fiducia nei giovani talenti?
Nessuno credeva in me, ma non mi serviva ed io non volevo neanche che accadesse. Tutti pensavano che fossi uno pieno di m***a, perciò non avevo bisogno del permesso di nessuno, né tanto meno dell’approvazione o dell’accettazione. L’unica cosa che avevo ben chiara in mente era che c’era qualcosa dentro di me che volevo mostrare al mondo intero. Fare musica è stata semplicemente un estensione di questo sentimento ed è stato qualcosa che mi ha placato e che mi ha reso felice. Ho sempre ripetuto a tutti che non mi servivano favori o pietà, ma di darmi l’occasione di dimostrare quanto posso valere solo grazie ai miei meriti. Lasciate che siano le mie canzoni a parlare da sole, perché alla fine della giornata è sulla loro base che mi dovrete giudicare. Non me la voglio menare, è che credo profondamente che sia importante comprendere che se si lavora duro allora le cose buone succederanno. Fate un lavoro schifoso e non riceverete altro che delusioni. Ed è lo stesso principio che andrebbe applicato oggi come ieri. L’unico problema è che molti non sono granché onesti con loro stessi.
Nel 2006 è nata Objektivity, la tua etichetta discografica, che ha sfornato grandi EP e come ciliegina sulla torta negli scorsi giorni l’incontro tra generazioni fra i leggendari Jazzanova e il nuovo asso britannico Ben Westbeech. Quali sono state le tracce che ti hanno reso maggiormente fiero della tua creatura?
Bè, diciamo che non amo guardarmi alle spalle e lodare pubblicamente il mio lavoro. Se mi capita di andare a ricercare qualche disco che ho prodotto o realizzato in passato è più che altro per capire come diavolo è stato composto tecnicamente. Non è molto salutare guardarsi continuamente alle spalle e rivivere le conversazioni che hai fatto dieci anni fa no? Ecco, io mi sento allo stesso modo quando penso ai vecchi dischi che ho sfornato o che sono usciti sulla mia etichetta. La vita è troppo breve per stare troppo tempo a riflettere. Io preferisco passarla creando qualcosa.
Tra i talenti che hai scoperto, due in particolare hanno catturato la mia attenzione quando mi è capitato di venire a qualche vostro party: sono ovviamente i fratelli mattacchioni del Bronx aka The Martinez Brothers, divenuti ormai un fenomeno globale. Ricordo di aver visto alcuni loro video da semi-sconosciuti qualche anno fa e di essere rimasto a bocca aperta per la grinta che mettevano durante i loro set. Sembravano quasi caduti in uno stato di trance. E’ questo ciò che ha colpito anche te?
No, non avevo idea di come si comportassero dietro la consolle fino a quanto Chris, il fratello minore, mi ha contattato tramite MySpace. Il nostro rapporto si è sviluppato a partire da lì. Quando poi li ho visti per la prima volta dal vivo, sono rimasto senza parole! Era una cosa da pazzi. Erano così tanto giovani! Mi ricordo ancora bene di quell’esperienza. Sono veramente orgoglioso di tutto il successo che stanno avendo. Erano dei fuoriclasse e lo sono ancora oggi. Avranno sempre un posto speciale nel mio cuore.
Un altro artista che mi ha colpito molto è un ragazzo all’apparenza introverso ma davvero talentuoso dietro la consolle. Sto parlando di Andrè Hommen. Come hai stretto rapporti con lui e in che modo è diventato parte della famiglia Objektivity?
Andre era parte della squadra da parecchio tempo. Ha lavoro per e con Objektivity come addetto amministrativo e logistico per diversi anni, praticamente da quando abbiamo iniziato ad essere onesti. Sapevo già che era un dj quando abbiamo iniziato a lavorare insieme ma non avevo idea di quanto fosse bravo fino a che non l’ho sentito dal vivo e sono ci sono rimasto di stucco. E’ stata una scoperta stupenda. E’ bravissimo ed adoro il suo atteggiamento. Non si tratta di essere introverso ma di essere un professionista. Lui è senza fronzoli ed ha bene in mente qual è il suo obbiettivo. Ti garantisco che è parecchio difficile trovare persone di questo tipo in un business del genere.
Penso che di parlare di “Hey Hey” tu ne abbia anche abbastanza, ma una domandina te la devo fare per forza. Quanto è difficile ripartire da zero in studio dopo aver sfornato una hit che ha avuto così tanto successo? Qual è stato il tuo approccio nel momento in cui ti sei dovuto confrontare con un monolite di quelle dimensioni?
Non ho paura di creare delle hit, perché si tratta solo di aver pescato il numero vincente alla lotteria del mese. Purtroppo non possiedo la lotteria, cerco solo di pescare i numeri che mi piacciono di più. Vado semplicemente in studio con la speranza di far si che qualcuno gridi di gioia ascoltando ciò che ne viene fuori. Se poi non si tratta di un hit va bene lo stesso. Se sento una mia traccia suonata da qualcuno e la gente impazzisce… be’ direi che ho comunque raggiunto l’obbiettivo che mi ero preposto. Ho sempre fatti dischi che potessero suscitare emozioni e la considero l’unica condizione fondamentale con cui dover fare i conti.
Nel primo periodo dopo “Hey Hey” sei stato più vicino agli ambienti commerciali ma è durato poco e sei tornato maggiormente nell’underground. Ti sei reso conto che quel tipo di business non era compatibile col tuo modo di vivere la musica e il dancefloor?
Quello che la maggior parte delle persone non comprende è che quando è uscita, “Hey Hey” era concepita come un disco soulful per la scena underground. Non era pensata per diventare commerciale, è stato solo un caso che sia poi risultata in maniera diversa. Ovviamente non posso controllare ogni aspetto di ciò che accade ad una traccia. Dopo che è accaduto molti grandi club commerciali hanno cominciato ad interessarsi per farmi esibire da loro. Credevano (sbagliando) che mi sarei presentato a suonare commerciale, ma in realtà non ho mai variato il mio modo di suonare. Io sono house underground e loro la pensano diversamente. Ci è voluto un po’ di tempo prima che se ne rendessero conto però. Io sono sempre lo stesso e di questo vado molto fiero.
In una tua intervista dello scorso anno avevi dichiarato che oggi non potresti più suonare soulful perché la pista si svuoterebbe. Eppure oggi certi ritmi sembra stiano tornando prepotentemente sulla scena. Credi che sia possibile che l’house con cui sei cresciuto abbia ancora qualcosa da dare al mondo della musica? In fin dei conti si sa che è tutto ciclico in questo ambiente no?
Un ritorno della soulful? Non ancora dai. Se sentissi “Su Su Bobien” suonata da Seth Troxler, Ricardo Villalobos, Solomun ed altri come loro allora sì, potresti avere ragione. Peccato che non succederà mai per il momento. (ride)
Esistono però delle piccole isole felici dove hai potuto tornare ai tempi che furono e sentirti libero di mettere qualsiasi cosa facendo affidamento sulla competenza della pista? A me viene in mente il Southport Weekender ma forse ce ne sono stati altri nel corso della tua carriera.
Che io mi ricordi direi di no. I ragazzi non vogliono proprio aver niente a che fare con quella roba. A loro interessa maggiormente sentire ciò che è attuale. Per dirti la verità quando avevo 18 anni non mi sarebbe piaciuto ascoltare dei vecchi dischi anni ’70 dentro ad un club, perciò cosa ti fa pensare che i ragazzini di oggi abbiano voglia di ascoltare dei dischi prodotti ancora prima che nascessero? Certo, se ne cacci uno o due dentro ad un set non c’è nessun problema, serve comunque per dargli un po’ di educazione, per il resto (ride) meglio tenerli per qualche notte revival. Ora come ora cerco di suonare l’house underground attuale perché è il mio ruolo essere al passo coi tempi. Questo è quello che credo sia il modo migliore per mantenersi al top in questo business. Ovviamente altri potrebbero pensarla in maniera diversa, ma questa è la mia opinione.
Se guardi al mondo della musica elettronica di oggi, riesci a vedere qualche piccolo Dennis Ferrer? Qualcuno in cui trovi particolari affinità nel rapporto col pubblico o nel modo di produrre?
No, non direi. Credo che ognuno abbia il suo modo di essere e di fare. E’ probabile che ci siano delle cose in comune, ma non posso dire di aver visto qualcuno di davvero simile a me. O allo stesso tempo di aver visto qualcuno di troppo simile a qualcun altro. Penso che inconsciamente, soprattutto quando si tratta di produrre, tutti cerchiamo di trarre qualcosa che ciò che abbiamo visto e sentito. Il risultato è quello di combinare tutto ciò e di crearne un proprio stile.
Nel 2013 ti sei maggiormente dedicato all’attività in studio. Sei soddisfatto di ciò che hai ricavato?
Vorrei sempre più tempo per dedicarmi allo studio e questo non è mai cambiato. Non sono mai felice e di conseguenza non mi riesco mai a ritenere soddisfatto. Se sei soddisfatto allora la tua carriera è giunta al termine.
E quali sono le tue aspettative per il 2014 appena iniziato? Vuoi rivelarci qualche dettaglio interessante?
Le mie uniche aspettative sono quelle di continuare a lavorare sodo e di riuscire ad ottenere risultati sempre migliori dell’anno precedente.[/tab]
[tab title=”English”]When we think about Dennis Ferrer, the first mental associations are his overpowering charisma and the physical and emotional charge that his dj sets exude. An example could be given watching his videos during the last BPM Festival in Playa Del Carmen, Mexico. He’s an actor, a showman, an entertainer, perfectly fitting in the 80s and 90s NYC’s house scene in which he was born and raised. But it is the Dennis you wouldn’t expect what you will find in the following lines. Cynical, confident and focused body and soul on the future. He has no problem telling us that he was born in a rough neighborhood, where being creative was almost a sin instead of a value and where no one has ever given anything without working hard to get it. This kind of ethics has accompanied him throughout the course of his career. Woe to sit, looking over your shoulder with the involuntary grin of someone who knows to have had a known role in the show that was the house music of the last two decades. The world is constantly changing and, in his words, if you retain yourself satisfied your career is over. Here are his words!
I love to interview artists who have been musically raised in the United States. The reason is that in the rainbow of venues and cities and artists that have characterized the last three decades, everyone has experienced a very personal story that led to his introduction to the world of music. What’s the story of Dennis Ferrer and how much has had a part in what you are today as an artist and as a person?
I was very lucky to grow up at a time in NYC when dance music was not so rigidly genre specific. There was no better feeling than being 10 years old with a few dollars burning a hole in my pocket and walking into the record shop to find Chic’s “Le Freak” waiting for me or Earth Wind and Fire’s “September”. It was such a great time for music. So much innovation in song structures and writing in general. Not like the cookie cutter mentality that prevails today. I grew up at a time when songs moved the world like West End’s Taana Gardner and “Heartbeat”, not tracks. Hence my preference to making records that are songs. Inner NYC was a very dangerous place to live in the 80’s and early 90’s. So much more so if you were a teenager at this time. Music was part of my alternate parallel reality. It allowed me to escape, to dream, to have a soft spot in my heart, to feel. While the real world within NYC’s inner city punished without mercy those who dared to reveal that side of themselves. It would make you afraid to be the real you, to be human. It is why I consider myself a Jekyll and Hyde character. This by default seeps into the music I make.
Growing up in NYC during a musically prosperous period as the 80s and 90s must have been particularly challenging. Which venues did you frequent assiduously and which artists did you listen more faithfully back in the day?
During the 80’s I was a bit too young to frequent most clubs. For teens, it was all about crashing a house party or hanging out a “block” parties where a dj would plug their equipment into a public utility light pole and there would be 200 people in the street dancing. The 90’s brought me out to NYC’s Palladium, Limelight, Danceteria, Tilt, Latin Quarter, The Tunnel, Twilo, The World. We were kids and we were all over the place. As far as artists I was all over the place with that also. On one hand I’d be listening to Aphex Twin’s “Digeridoo” and The Scientist then on to Dj Pierre. and MK with a side order of Pal Joey the next Tribe Called Quest and Brand Nubian, then Luther Vandross and Jodeci! LOL, It didn’t matter. My brain was a sponge.
On your bio at first we find this sentence: “Right place, right time”. Has this philosophy featured just the early years of your career as a musician or have you maintained it valid since nowdays?
I truly believe in that ethos. It is the way of life. You can try and create situations for yourself but in reality life revolves around that philosophy. You can create possibilities but it is knowing when to take advantage of these possibilities at “right place, right time…”
What were the people who most believed in you during your journey as an artist? Getting noticed at that time was as complex as today or there was greater confidence in young talents?
Nobody believed in me. I didn’t need that. I didn’t want that. Everyone just thought I was full of sh*t. So I didn’t need someone’s permission, required their acceptance or approval. I only knew that I had something inside of me that I liked to show the world. That making music was an extension of language for me it soothed me and made me happy. I’ve always told everyone, I don’t need your favors or pity, I just need you to give me the chance to show you what I can do on my own merits. Let my songs or tracks speak for themselves. At the end of the day that is what I will be measured by. It’s not confidence, it’s the belief in understanding that if I do good work then good things will happen. Do crappy work and you get nothing but heartbreak. The same principle applies today as then. It’s just most people are not realistic and honest with themselves.
In 2006 came Objektivity, your record label, which has produced great EP and as icing on the cake in recent days you have putted together two generations with the featuring between the legendary Jazzanova and the new British ace Ben Westbeech. What were the tracks that made you most proud of your creation during the years?
I really don’t look back and admire my work publicly. If I do look back at records I’ve released or signed it is usually to figure out how the hell it was made technically. For me it’s not healthy to constantly go back and re-live conversations with people that happened 10 years ago right? So I feel the same way about the records I’ve made or put out. Life is too short to reflect, I’d rather create.
Among the talents that you have discovered, two in particular caught my attention when I came to some of your parties: I’m obviously speaking about the bros from the Bronx aka The Martinez Brothers, which nowdays have become a global phenomenon. I remember seeing some video when they were like semi-unknown a few years ago and I rembember myself being left open-mouthed by the grit which they were putting in during their set. They seemed like fallen into a state of trance. Was this kind of energy that hit you too?
No, I had no knowledge of their playing skills until Chris, the younger brother, hit me up on Myspace. The relationship developed from there. When I saw them first play, I was shocked. It was crazy. They were so young I remember that time fondly. I’m very proud of all the success they’re having. They were the real deal and still are. Bless them, they hold a special place in my heart to this day.
Another artist that impressed me a lot is a seemingly introverted guy that is very talented behind the decks. I’m talking about André Hommen. How did you come in contact with him and how he became part of the Objektivity family?
Andre has been with us for some time, he had been working for and with Objektivity in an administrative and logistical capacity for many years. Since Objektivity started honestly. I knew at the time he was a dj but I had no idea how good he was until I heard him and I was stunned lol! It was a wonderful surprise. He’s amazing. I love his demeanor. He’s not at all introverted, it’s called being a professional. He’s no nonsense and he has his goal. In this business it’s very refreshing to find this kind of attitude.
I guess you have enough to talk about “Hey Hey” but there’s a little question that I need to make you. How hard is it to start from scratch in the studio after having churned out a hit that has been so successful? What was your approach when you had to deal with a monolith of that size?
I don’t worry about making hits. Hits are called being lucky by having the winning lottery number for that month. I don’t make nor do I own the lottery, I only pick the numbers that I like. I just go into the studio hoping to make a record that makes someone go “yes!” If I happen to do that but it’s not a big hit, that’s ok. Because if I see it being played by someone and the crowd goes crazy, well, then it’s still accomplished what I wanted it to do. I’ve always made records to elicit emotion and that is what I consider my only requirement that i have to meet.
In the first period after “Hey Hey” you have been closer to the commercial environment but it lasted just a little and you came back soon in the underground scene. Did you realize that kind of business was not compatible with the way you live music and danceloor?
The thing most people don’t understand is that when I did “Hey Hey” it was a soulful underground record. It wasn’t meant to be commercial, it just happened to turn out that way. I couldn’t control any aspect of that. Then the huge commercial venues became interested in me dj’ing. They erroneously thought I would play commercial but I never changed the way I played. I play underground house and they thought differently. LOL It’s taken a while for people to actually realize this. I never changed and I’m very proud of that fact.
Last year in one of your interviews you have stated that nowdays you couldn’t play much soulful because the dancefloor would remain empty. But yet today it seems that those rhythms are coming back strongly on the scene. Do you think it is possible that the house music you grew up with still could have something to give to the world of music now? In the end, you know that everything is cyclical in this environment isn’t it?
Soulful back? lol not yet… When you hear “Su Su Bobien” being played by Seth Troxler, Ricardo Villalobos, Solomun and others like that, then yeah, soulful will have arrived. That’s not gonna happen any time soon.
Were there any venues where you have been able to go back in the day and feel free to put anything in reliance on the competence of the crowd? I am reminded of the Southport Weekender but maybe there have been others in the course of your career.
As of late no. Kids don’t really want to hear that. They want to hear what’s current. To tell you the truth when I was 18 I didn’t want to hear some old 70’s record in a club so what makes you think an 18 year old today wants to hear disco records from before they were born? lol. If you sneak one or two into a set then cool! Give them a lil bit of education otherwise save it for a special oldies night lol. As it stands I make and play current underground dance music. It is my job to be current. This is how I believe I want to remain relevant. Some might offer a different opinion but this one’s mine.
If you look at today’s electronic music business, can you see any little Dennis Ferrer look alike? Maybe someone that has special affinity in the relationship with the audience or in the way of producing?
No not really, I think everyone is their own make and model. There might be similarities but I haven’t seen anyone similar to me. Or to anyone for that matter. Though in producing everyone unconsciously takes a little bit of everything they’ve ever heard and seen to combine all of these into a style they soon consider their own.
In 2013 you have more focused on the studio work. Are you satisfied with what you have obtained?
I always want more studio time, that’s never changed. I’m never happy so no I’m not satisfied. If you are satisfied then your career is over.
And what are your expectations for 2014 that has just begun? Do you want to reveal some interesting detail?
I have no other expectations than for me to continue to work hard and be even more successful than the previous year.[/tab]
[/tabgroup]