Ogni tanto la superficie elettronica subisce una scossa: che sia d’assestamento o meno, dipende da quanto profondamente i canoni estetici vengono sconvolti. Uno dei cambiamenti più significativi lo abbiamo vissuto quando l’embrionale concetto di “dance music” è mutato diventando “musica da club”: possiamo collocare l’inizio della fluttuazione quando a metà degli anni ‘70 Larry Levan era dietro i giradischi del Paradise Garage, successivamente quando Frankie Knuckles approdò al Warehouse di Chicago.
Il risvolto è stata la fioritura di un sentimento di diversificazione che ha dato vita ad un altro microcosmo: il clubbing così come lo conosciamo oggi. Una dimensione nella quale si presuppone un ambiente più intimo; “chiuso”: con una vera e propria comunità che ne fa parte e che ne onora gli spazi, invocando l’ardore della musica. “Club” poi tende anche ad implicare una comunità storicamente più informata: quella che riconosce e rispetta le radici della musica dance elettronica.
Non riesco in realtà a quantificare quanto tutto questo sia vero e quanto invece “ci piacerebbe che fosse così”; ma lascerò ad ognuno di voi la possibilità di convenire con l’una o l’altra linea come meglio crede, poiché non è rispondere a questo quesito il fine dell’articolo che state leggendo. E’ solo una premessa; una premessa per provare a capire insieme se siamo nel bel mezzo di una nuova scossa oppure no, se il clubbing e la musica da club stanno realmente mutando. Se sta avvenendo cioè una nuova metamorfosi del concetto di clubbing, figlio del cambiamento della società: nuove tecnologie, nuove possibilità d’espressione e comunicazione ma soprattutto nuove necessità.
Chi vi scrive non è mai stata altamente propensa alle nuove tecnologie, ha sempre avuto la freddezza oggettiva di riconoscere che le cose “andavano bene anche prima”. A livello musicale poi, “prima”, sembra essere fatto tutto un po’ meglio, magari per una schietta questione di “come suonano” i dischi e di come sono stati fatti, a livello pratico. O no? Be’, da un lato credo di aver ragionato fino ad adesso in modo limitato – perché io, che sono sempre alla ricerca di nuovi stimoli, dovevo capire fin da subito che per trovare un artista che mi parlasse della mia realtà, dovevo trovare un artista che la mia realtà la vivesse. E… volete o nolente, la mia realtà è oramai 2.0, è cybernetica, è veloce. Estremamente veloce.
L’arte, nonostante in questo contesto mi riferisca più strettamente alla musica, è stata fin dai tempi dei tempi specchio della realtà sociale ed urbana. Mi riferisco ad ogni genere: il rock, il punk, l’R&B, il soul (e così via). Lo so. Questo sembra essere un secolo povero di contenuti: l’evoluzione tecnologica, il grande spartiacque che è stato internet, sembra aver portato uno smembramento dei sentimenti e una più generale patina di superficialità. Tanti fuoriclasse ci stanno lasciando (vedi: David Bowie, Paul Kantner, Prince, Leonard Cohen, David Mancuso) e noi – la parte appassionata del movimento – abbiamo l’obbligo morale di credere che non c’è solo la nuova trap (made in Italy e non) a dare voce alle nuove generazioni, così come non c’è nemmeno solo quel dannatissimo pop radiofonico che sembra essere creato apposta per lobotomizzare tutti a cantare la stessa stupida canzone durante il periodo estivo. Bisogna incominciare a pensare che non c’è solo una generazione allo sbando nel senso più negativo del termine; dobbiamo anzi incominciare a riflettere sul fatto che di generazioni allo sbando, ciclicamente nei decenni passati, ce ne sono già state, e sono proprio quelle che più hanno regalato emozioni autentiche alla storia della musica. C’è stata la cultura hippie, il punk e un’Inghilterra-rave, durante l’ascesa dell’acid music.
Una volta assodato questo, mi piacerebbe che anche tu, tu che mi stai leggendo, per qualche minuto ti privassi dei tuoi pregiudizi (…è inutile negarlo, a livello musicale tutti ne abbiamo qualcuno) e riuscissi ad entrare nell’ottica che ci potrebbe essere (e a detta di chi scrive, c’è) una fetta di artisti elettronici che cercano, attraverso i suoni, di raccontare la frustrazione urbana nascosta tra lo scintillio di un nuovo display ultra piatto e la falsa felicità condivisa tramite una foto su un social. C’è insomma qualcuno che ancora non si è fatto travolgere dall’oblio, ma che anzi ha deciso di fare di questo oblio la propria tana usandolo come mezzo per comunicare il proprio messaggio. Questo, non vuol dire che dovrà piacerti per forza. Vorrei solo portarti a riflettere. Stipulare ipotesi.
Il 2016 ha visto il ritorno di diversi artisti che, a loro volta, anni fa erano indicati come gli avventori di una nuova musica: Autechre, Datach’i e Jega in primis; e la pubblicazione di lavori di spessore come “I AKA I” di Ash Koosha, “The Digging Remedy” dei Plaid, “Traditional Synthesizer Music” di Venetian Snares o il rilancio dell’album d’annata 1996 di Mike Paridanas e Aphex Twin “Mike & Rich”. Anche i succosi cataloghi della Shipwrec e della Central Processing Unit, della Kondi recentemente resuscitata o altre ancor più remote, come la Börft Records ci portano a sbilanciarci e dichiarare di percepire un ritorno in auge dell’electro. Non che il genere sia mai morto, no, ma che fosse piuttosto “offuscato” negli anni passati questo sì.
Dal punto di vista pratico invece, in Italia quest’anno è stato Club To Club a prendersi l’onere di proporre un venerdì notte ricco di proposte musicali che dessero più importanza al contenuto artistico, di spessore, di speculazione, in contrapposizione ad act che invece fossero incentrati solo sulla parte ludica/edonistica, che poi sono quelli che di solito vanno per la maggiore, rappresentando una realtà apparentemente quasi inevitabile per la sopravvivenza delle realtà del clubbing; ne è colpevole anche la crisi economica che ha soffocato l’interesse del pubblico (se si esce e si spende, si esce e si spende per andare a divertirsi a colpo sicuro?) e costipato la volontà degli investitori nel rischiare.
Già dagli anni ’90 durante la diffusione della musica IDM tramite la Warp, rappresentata al meglio in quegli anni da Autechre, Squarepusher, Aphex Twin e affiliati vari, degli intarsi breakbeat di DJ Shadow (protagonista del sabato di Club To Club), della jungle / drum’n’bass e di quella definita musica tout court elettronica sperimentale, sembrava comunque che tutto questo potesse essere questione solo per gli ascoltatori più “avventurosi” e non per tutti, col grosso dei fruitori della musica cosiddetta dance che stavano legati a più chiari e rassicuranti tracciati house in quattro quarti. Erano (e sono) sonorità scarsamente radiofoniche: che hanno suggerito all’ascoltatore di distanziarsi dal solo approccio danzereccio, avvicinandosi invece ad un ascolto più elaborato.
La sensazione di un robusto revival esattamente di quella sfera lì, quella complicata/alternativa, emerge però sempre più nitidamente; e alla luce di questi fatti mi interrogo se sia questo il momento in cui “riflettori” sono nuovamente puntati sulla musica sperimentale. Col passare del tempo, ho sempre più nutrito infatti la sensazione che il termine sperimentale fosse usato per lo più quando non si riusciva a catalogare qualcosa. La musica sperimentale – per definizione – non si basa su un linguaggio stabilito, ma è più simile ad un flusso di coscienza, ad una creatività che supera il limite mentale della “classificazione”. Dunque, qual è la musica sperimentale, e come facciamo a riconoscerla? Essa nasce dal rock e lentamente si è allontanata dal genere fino a toccare le corde della musica elettronica. Fino ad arroccarsi all’IDM. Negli anni passati è stato forse più facile categorizzarla, perché determinate sonorità non erano realmente mai state esplorate prima. John Cage disse che ciò che è sperimentale è “qualcosa il cui esito non è noto”; oggi, approssimativamente, sembra essere qualcosa di “non convenzionale”.
Il ritorno in voga di stili musicali considerati più di nicchia – e simpaticamente più, ehm, “intellettuali” – mi danno motivo di credere che si stia gridando all’ennesimo cambio di ciclo. La musica infatti, è ciclica. Abbiamo via via ripreso i canoni estetici degli stili passati, sempre più velocemente, sempre più bulimicamente, dal punk fuso con l’industrial, alla disco e alla black music. Oggi come non mai si soffre della repentina centrifuga delle mode. Tutto è molto più veloce – come la società è molto più frenetica.
Ma se i movimenti musicali degli anni ’90 sono riusciti a concedere un nuovo significato al concetto di clubbing, ponendo al centro della questione un ascolto e una modalità di fruizione diversi, potrebbe succedere anche oggi? D’altronde, ci troviamo in un momento storico favorevole, reduci da un sovraccarico techno / tech-house degli ultimi anni e in una società che non si accontenta più tanto facilmente. E se oggi questo oscillamento sta realmente accadendo, cosa potrebbe cambiare? Cosa sta per succedere? Si potrebbero creare nuovi movimenti – non sostitutivi, ma paralleli – in grado di concedere un più marcato aspetto intellettivo al modo di fruire la musica elettronica. Sì, è possibile. Mi piace immaginarla come un un’era della musica “post-clubbing”, intesa come “oltre – il – clubbing”, una musica in grado di incarnare un’umanità vulnerabile e avvolta da cupi circuiti, ma bisognosa d’ascoltare.
Alcuni, come il critico musicale Adam Harper (di cui trovate l’intervento durante la Berlin Music Week qui), si sono avvalsi dell’aggettivo “accelerazionista” per dare un nome a una musica che sembra poter essere protagonista di un futuro prossimo.
Altri hanno trovato come più “oggettiva” soluzione un filo rosso che colleghi questo stile cybernetico ipercontemporaneo alla musica industriale di fine ’70 e ’80, di cui sarebbe una specie di eco, un’eco 2.0, con nuove tematiche, nuove espressioni e nuove oppressioni. Una tesi assolutamente non da scartare visto le tinture intrise di aggressività e frustrazione, che sembrano non voler creare altro che una possibile via di fuga da questa realtà.
Il fenomeno accelerazionista nasce con una matrice filosofico-politica, ma è stato spinto pian piano fino alle arti digitali (se siete appassionati di politica, potete trovare una buona spiegazione qui). E’ obbligatorio sottolineare che tutto ciò che conosciamo d’estrazione più tradizionalmente discografica ha una linea di vita non più lunga di cinque, sei anni, ancora un fenomeno molto fresco quindi. Viene da sé che questo potrebbe essere uno dei motivi per cui il fenomeno non è mai stato realmente preso in considerazione, oltre al fatto che sono spesso e volentieri i prodotti più sbilanciati verso l’intrattenimento più luccicante, come quelli concepiti dall’etichetta discografica PC Music ad aver conquistato la predominanza rispetto ad altri esperimenti riconducibili all’accelerazionismo. Harper parla di quella che lui stesso definisce “musica hi-tech”: “Il mondo digitale che ascolta se stesso, internet che si guarda allo specchio”, e cita come esempi Arca, FKA Twigs, Fatima Al Qadiri e Oneohtrix Point Never.
Per quanto mi riguarda, trovo interessante come lʼaggettivo “accelerazionista” abbia lentamente preso piede in recensioni ed editoriali (ed è proprio così che anche io stessa ne sono venuta a conoscenza). Nel momento in cui si incomincia a sentire l’esigenza di trovare una nuova via (e si sa, la musica è un’arte potentissima proprio perché non ha realmente manuali “di grammatica”), si cerca sempre di “disegnarla” farcendola di parole, proprio come sto facendo io adesso, perché l’uomo è così, è sempre alla ricerca del significato. Quindi esatto, c’era evidentemente bisogno di una parola che aprisse le porte ad un ipotetico “nuovo modo” di fare musica.
Non vi nascondo però che, anche in questo caso, nutro la sensazione che l’aggettivo sia stato accostato non solo a ciò che profuma di futuro ma anche a ciò che non si riesce a catalogare: se dislochiamo il termine dalla filosofia contemporanea e lo ampliamo a più vaste vie di pensiero, anche la stessa techno di Detroit potrebbe essere considerata un oggetto accelerazionista, così come la jungle, la drum’n’bass e il footwork. Nel panorama attuale nessun musicista si è autoproclamato un “artista accelerazionista”, ma svariati sono stati classificati come tali; il termine è stato applicato allo Shangann Electro (un movimento dance nato nel 21° secolo da un riavvio della tradizione folk delle township sud africane), all’italiano Lorenzo Senni, all’inglese Slackk, all’americano James Ferraro e al duo berlinese (d’adozione) Amnesia Scanner.
Cosa renderebbe quindi una musica, un disco, un artista accelerazionista? Potremmo osare nel dire che la sottocultura accelerazionista si estende attraverso una schiera di menti che si diversificano intensamente in stili e processi produttivi, parlando però lingue simili tra loro: freddezza digitale, suoni cybernetici, suoni tirati a lucido in un maestoso lavoro di sound design, soprattutto la pertinenza al mondo moderno. Ma c’è anche un altro aspetto che questi artisti condividono, ed è ciò che più ha mosso in me curiosità ed interesse: il rifiuto di una qualsiasi tentazione nostalgica.
Ne avevo parlato anche qui in occasione dell’esibizione di Theo Parrish a Jazz Re:Found: una fetta sempre più consistente della “scena underground” ha cominciato a trasudare una certa insofferenza per quella che Simon Reynolds ha battezzato “retromania”. Con il termine si riferisce alla nostalgia per i tempi e le estetiche che furono, così come la predilezione per i toni caldi delle strumentazioni “old school”. L’opposizione, mossa dai suoni liquidi dell’era digitale, sembra aver ora sopraffatto la tendenza; non so se fosse inevitabile, ma alle mie orecchie suona se non altro provvidenziale, perché la verità è che non possiamo tornare indietro. Non possiamo nemmeno stare fermi. Ed è proprio l’esserci (auto)arginati che ci ha condotto in questa centrifuga di stili fasulli, abbozzati in cui ci troviamo ora. Hype, favoreggiamenti, artisti ottimi non abbastanza considerati, scartati -perché non abbastanza convenzionali? Non abbastanza alla moda? Si, forse questo avveniva anche prima, ma mi demoralizza pensare che oggi un artista possa essere giudicato in base a quanti like ha sulla pagina Facebook.
Ora, anche se l’accelerazionismo è un movimento artistico-filosofico incentrato sulla ridefinizione dell’idea di presente e futuro prossimo, non posso certo costringermi/vi ad apprezzarlo a forza; ma posso invitarvi a riflettere, questo sì, perché la bolla di hype in cui oggi galleggia il movimento dance elettronico è luccicante. E proprio per questo può portare ad ascoltare musiche che magari – in fondo, nel profondo – un individuo non sente nemmeno vicine alle proprie inclinazioni, ma l’ascolta, la condivide, va ai party per il senso di appartenenza ad un gruppo sociale oggi considerato “cool”. Va ai party e non gli rimane niente, non si arricchisce spiritualmente; ma con buona probabilità la mattina dopo avrà un paio di amici virtuali in più e una bella foto dove sembra felice. Ma lo è davvero? La musica, serve per dare voce a quelle sensazioni interiori che a parole non si riescono ad esprimere; è quindi importante trovare una musica che realmente parli di te, di quello che vivi quotidianamente. E che ti spinga a ragionare con più profondità, nell’analisi di ciò che ti circonda.
Quindi, non solo vi invito a cercare qualcosa che racconti di voi, ma anche a cercare qualcosa che parli della vostra/nostra realtà in modo non piatto, non “facile”. Non possiamo poi continuare a rifugiarci in dischi del passato, a cui delegare questa esigenza di “spessore” come se loro e solo loro potessero darcela, il presente bisogna affrontarlo senza pudore – anche perché sono molteplici i modi in cui lo si può affrontare. Questa potrebbe essere una buona sfida: ed è nostra. E’ delle nuove generazioni.