Nel corso degli anni in cui ho viaggiato per questioni di clubbing – che fosse come cliente o giornalista fa poca differenza – e man mano che ho accumulato esperienza in materia, mi sono reso conto – più o meno rapidamente – di alcuni cambiamenti fondamentali nel mio approccio nei confronti della musica e dei club/festival che visitavo. Prima di tutto, l’inevitabile perdita di quel genuino stupore che accompagna gli anni delle cosiddette “prime volte“: dove spesso e volentieri alcuni aspetti vengono totalmente ignorati o bypassati a favore del mero e scanzonato divertimento. Ma ciò che si guadagna da questa mancanza è un orecchio più esigente, uno spirito critico più acuto ed una visione d’insieme quanto meno più stimolante ed eterogenea. Vi è però una controindicazione da non lasciar passare sotto traccia in questo tipo di evoluzione: ricordare sempre di guardarsi attorno prima di emettere una sentenza. Ed in caso la reazione degli altri non faccia scopa col proprio giudizio, è opportuno accettare che se ci si trova ad essere soli contro il mondo – per quanto le proprie argomentazioni possano essere solide e sostenute dall’evidenza – forse semplicemente stiamo dando troppo peso a qualcosa che, per chi effettivamente è chiamato a fruirne, non è di così vitale importanza.
Tutto questo per dire che, fra le tante cose realmente piacevoli viste e vissute all’NDSM Docklands di Amsterdam durante il weekend appena terminato, c’è sicuramente stato qualcosa che mi ha fatto storcere il naso e che, davvero, non è possibile non menzionare come un problema: il freddo. Ora, nessuno nell’Universo conosciuto si sognerebbe mai di mettere in dubbio le inappuntabili doti organizzative olandesi in materia di festival. Ma è altrettanto vero che non c’è bisogno di essere il Colonnello Giuliacci per prevedere le temperature medie del Nord Europa a cavallo con l’inizio della Primavera (spoiler: sei fortunato quando ci sono due cifre sul termometro). Ideare e sviluppare un evento dove per andare da un ambiente all’altro è necessario attraversare uno spazio aperto piuttosto esteso – obbligando le persone a passare dal caldo al freddo ed alla pioggia e ritorno per due giorni – ai miei occhi risulta come qualcosa di insensato. Ed in un certo senso anche pericoloso. Io personalmente in un evento simile feci l’errore di lasciare la giacca ai locker e dopo due birre ghiacciate (e circa un’ora di festa) finì con la testa nella ceramica per il resto della giornata con una più che meritata congestione. Questa volta sono stato più accorto, ma ho visto gente girare in canottiera a 4 gradi e pioggia e godersela senza problemi. Non ho letto neanche grandi lamentele sui profili social della manifestazione. Luogo dove solitamente si concentrerebbe il malcontento. E allora mi dico: se DGTL riesce ad avere una risposta in termini di presenza di questo livello ogni anno – e credetemi, parliamo di un sacco di gente – evidentemente il problema del clima non è nei pensieri della clientela quanto potrebbe esserlo per chi vi scrive. E in fondo se a loro va bene così, chi sono io per voler avere ragione?
Ho avuto una sensazione simile mentre ascoltavo alcuni artisti durante questa bella tre giorni, Amelie Lens in particolare. Ero molto curioso di sentirla dal vivo per capire se tutto questo hype dietro la sua figura fosse meritato. E per quanto abbia trovato il suo modo di fare molto genuino, la domanda che mi frullava in testa era: qual è il valore aggiunto per la scena techno di una figura del genere a parte il fatto di aver saputo vendere bene la propria immagine sui social? Eppure l’enorme sala Generator era imballata da cima a fondo, forse come non l’ho più vista fino alla fine del weekend. Ed ancora una volta – di fronte al plebiscito che la giovane belga ha saputo guadagnarsi – non ho potuto far altro che alzare le mani ed arrendermi al volere del pubblico. E proprio i dancefloor sempre stracolmi sono stati il leitmotiv del weekend: tantissimi clubber di ogni età e provenienza – ho persino incrociato un gruppo venuto dal Brasile – passionali al punto giusto ma mai maleducati, come si conviene a queste latitudini. Non capita spesso di passare due giorni senza mai vedere una sala semi-vuota. Ed è senza dubbio un merito che va attribuito agli organizzatori, capaci di suddividere la proposta artistica in maniera variegata ed intelligente.
E se alcune sale altro non erano che i classici capannoni enormi a cui i festival olandesi ci hanno abituato, un grande plauso va fatto ad altre molto particolari come quella organizzata in collaborazione con Resident Advisor, dove un ambiente che ricordava vagamente un fienile di legno ed un impianto Funktion One davvero prepotente hanno fatto da cornice ad una pista indemoniata ed arrampicata da tutte le parti per tutto il corso del weekend. Da quelle parti chi ha davvero vinto tutto sono state Honey Dijon – che dopo la stratosferica Boiler Room australiana di qualche settimana fa ha ancora una volta tenuto la pista costantemente ad un metro da terra – e CC:DISCO! che – la sparo grossa – potrebbe essere tranquillamente la next big thing in termini di sonorità vintage. Brava – musicalmente e tecnicamente – e soprattutto per niente scontata, come spesso accade agli artisti che hanno cavalcato l’onda del memorabilia a tutti i costi.
In termini di sonorità, chi ha portato a casa la palma del weekend sono state le epiche gentili e melodiche prima ancora delle scudisciate facilone: i ragazzi di Innervisions, ad esempio, hanno tenuto banco con due esibizioni molto apprezzabili: se da un lato vedere riuniti gli Ame in un concept ibrido denominato Ame II Ame è stata una piacevolissima sorpresa, il live Schwarzmann – composto da Henrik Schwarz e Frank Wiedemann – ha portato a casa il premio di miglior set del venerdì sera in una line up dove anche Theo Parrish prima ed il back-to-back inaspettatamente scurissimo fra Hunee e Floating points poi non si sono certamente comportati male. Ma al di là dei nomi di cartello, c’è stato tanto di cui discutere anche nel sottobosco del festival: se i Red Axes non sono ormai più una sorpresa – il loro live un vero spettacolo per occhi ed orecchie – nomi come Pin Up Club e Seth Schwarz hanno saputo guadagnarsi delle meritatissime ovazioni in orari meno centrali ma, come detto, quasi sempre di fronte a sale murate. Ed in fin dei conti sono queste le sorprese che chi ama questa vita cerca sempre di rincorrere: siamo tutti capaci di andare a sentire Laurent Garnier e Jeff Mills (entrambi comunque sempre speciali, niente da dire) ma la ricerca dell’inesplorato dovrebbe essere sempre fra le spinte emotive quando ci si approccia ad un evento.
E’ vero anche, al contrario, che chi si interfaccia con un festival di questo tipo non dovrebbe focalizzare il proprio interesse sul lasciarsi educare musicalmente a tutti i costi. Difficilmente si può trovare il tempo per concentrarsi a fondo quando si deve fare i conti con un ambiente multi-sala dove vorremmo solo avere tempo a sufficienza per sentire tutto. Il divertimento assume quindi un ruolo chiave. E a quel punto set molto “facili” come quelli di Eats Everything e Modeselektor – a cui mancava solo un Booster Spirit in consolle per essere l’epitome degli zarri degli anni ’90 – assumono tutto sommato un valore apprezzabile. Chi ha saputo invece buttare sul piatto musica facilmente assimilabile senza rinunciare alla qualità ed a un minimo di ricercatezza sono stati nomi come Job Jobse – che con “Komm” di Sven Väth ed Anthony Rother e “You Prefer Cocaine” di Vitalic ci ha sbriciolato la sala Frequency per la chiusura del sabato, dopo che Gerd Janson l’aveva preparata a dovere nelle ore precedenti – e Denis Sulta con una grandissima presa sul pubblico della piccola sala Filter per la chiusura domenicale.
E la techno? Che dire, sicuramente è un suono che vive una fase di notevole appiattimento: se da un lato posso capire come si riesca a lasciarsi sedurre dalle randellate fini a loro stesse di artisti come Blawan e Dax J – dritti come la Milano-Bologna e duri come un ferro da stiro sulla faccia – rimango però sorpreso dal fatto che, essenzialmente, in festival di questo tipo si sentano le stesse identiche cose (tra cicli e ricicli vari) da dieci anni a questa parte e si debba ancora rifugiarsi fra le braccia dei già citati soliti noti della vecchia guardia per trovare un po’ di varietà. Manca davvero una boccata d’aria nuova nel compartimento più “mainstream” della techno. Eppure alla fine sembrano sempre tutti contenti così. Ma, come già detto a sufficienza tra le righe, conta il parere del pubblico prima di ogni altra cosa. E quello su cui sicuramente concorderemo sarà che questo DGTL è stato un vero successo. Un weekend pieno di momenti di estasi, tante nuove conoscenze e qualche vecchio lupo di mare in consolle a cui ci piace rivolgere occhi ed orecchie quando vogliamo sentirci come se fossimo ancora giovani ed alle prime armi. Spegnere la luce e lasciarci semplicemente andare fra le braccia del suono della nostra vita. Al raffreddore ci penseremo domani.