Questa è una intervista che dovete leggere. Non è una intervista semplice: si vola alto, si va al di là delle solite cazzate “Fatto questo, suonato quello“, si va al di là delle routine che il clubbing – l’atto del ballare – è diventato nel tentativo (comunque giusto, comunque rispettabile) di darsi una identità ed una struttura. Ma nel darsi una identità e una struttura, il rischio è quello di buttare a mare la bellezza, la forza delle emozioni, il gusto della libertà. Tropicantesimo è uno dei best kept secret della club culture italiana, anche se loro – e lo argomentano molto bene, con grande intelligenza ed acume – il termine “club culture” non lo sopportano e lo derubricano a trovata del giornalismo (o dell’industria culturale, che purtroppo spesso è la stessa cosa). Quello che dovete sapere è che tutto si svolge a Roma (ma non solo). Anzi, prendendo in prestito le parole delle comunicazioni ufficiali: “Tropicantesimo è un rituale musicale dilatato nel tempo, attraverso la celebrazione del suono e del ballo. Tutto è iniziato 10 anni fa come una festa, presso il club Fanfulla di Roma, che negli anni si è trasformata in un’esperienza di ascolto, condivisione e scoperta fuori dal tempo e dallo spazio. Nel tempo il collettivo animato dal dj Hugo Sanchez, Lola Kola, Rocco Bartucci, Gabor e Egeeno si è spostato prsso un nuovo club, Pescheria, e si è aperto a jam estemporanee e collaborazioni con musicisti e dj di varia estrazione e provenienza“. Questo è un primo inquadramento, sono le coordinate “pratiche” di una realtà che promette di essere – ed è! – molto di più dell’ennesima nuova crew che dà vita ad una serata. Lo diciamo forte e chiaro: la rinascita del clubbing, pardon, del ballo e della festa in Italia passa attraverso il talento e la visione di Tropicantesimo. Obbligatoriamente. Davvero: questa è una intervista che dovete leggere. E capire. Perché è bellissima. Dopodiché occhio: sulla label Penny Records, con distribuzione Goodfellas, è in arrivo una serie di uscite, a nome banalmente”Session”. La prima è già in giro: ascoltatela (qui sotto), fatela vostra (appena potete).
La vostra è una storia ormai decennale, nata a Roma al Fanfulla. Prima domanda: quanto è cambiata Roma, in questi dieci anni, e quanto siete invece cambiati voi – e se c’è in qualche modo una correlazione fra queste due cose…
Tutto cambia, todo cumbia. C’è tra di noi una continua necessità di agevolare la trasformazione. E di innescarla. Il concetto di identità è di per sé indecidibile: ogni gesto ci trasforma, i territori che attraversiamo ci ridefiniscono continuamente. Vogliamo vivere, non guardare la vita o farci vivere. La città, lo spazio urbano è di per sé uno spazio di cattività per l’animale umano, una costrizione che genera tutte le brutalità possibili. Il movimento allora ci guida, il ballo è la nostra possibilità di liberarci dalla svilente condizione di separazione che viviamo continuamente, sia in casa che negli spazi collettivi. Il ballo è la possibilità di agire con il movimento del corpo, sovvertire la logica dei gesti abituali, cambiare il rapporto con il tempo, entrando in sintonia con altri corpi in movimento. La Roma che vedi è la stessa da migliaia di anni: stesse parole, stesse planimetrie. Brutalità e goduria. Ci può essere un’altra città nella nostra Remoria: vogliamo che il piacere sia condiviso, vogliamo che le macerie urbane non siano solo un frame per i turisti, vogliamo ballarci sopra. Perché la sensualità sia centro e periferia. Perché nel ballo ogni corpo vada verso l’altro con desiderio e amore. Perché la metropoli sia una festa a qualsiasi ora e in qualsiasi luogo.
Troviamo obsoleto parlare di “club culture“: di club culture parlano solo i giornalisti, mentre le persone dicono “Andiamo a quella festa, andiamo a sentire quel dj che suona, che droghe abbiamo?“
Tropicantesimo è molto più di altre una esperienza collettiva: vi ritenete un caso atipico in questo, o non vi siete mai posti il problema? Quanto è difficile gestire una esperienza a più teste, e quanto invece è un valore aggiunto?
La vita di ognuna del collettivo è di per sé la dimostrazione che tutto è possibile, in termini di corpo, espressione, esperienze di vita, di desiderio di sessualità. Fare esperienza della musica nel collettivo è una possibilità che ci siamo conquistati attraverso la pratica quotidiana, riscattandoci da visioni individualiste e degradanti di attori con ruoli di primo e secondo piano. Agire nello spazio di suono collettivo è bello perché è tangibile: è una dimensione liberante, non sei sola, sei un corpo più eccitante, scopri ciò che non avevi il coraggio di scoprire individualmente. L’ego ci riduce spesso a essere felicemente soli, il suono che stai sentendo non è invece diretto solo a te, è di tutti, contemporaneamente. Siamo tante ad essere in ascolto, anche se stiamo facendo altro. “Omnia sunt communia” dicevano i latini: tutto è di tutti. Dall’estremo oriente arriva una melodiosa risposta: “Niente è di nessuno“.
State riuscendo a fare una delle cose più difficili per il contesto danceflooriano, almeno da un po’ di tempo a questa parte: “disegnarvi” addosso una precisa identità sonora. E’ una cosa su cui avevate ragionato già dall’inizio, o è arrivata col tempo in maniera quasi inconsapevole?
Se agevoli la trasformazione, ti avvicini al desiderio: riconosci ciò che ti piace al di là di quello che dovrebbe piacerti. Da bambini volevamo giocare, ridere, correre, fare cose senza senso. Sentivamo gli adulti parlare di problemi da risolvere e cose da costruire; e ci chiedevamo come mai, potendo scegliere, i grandi non passassero tutto il giorno alle giostre. Sulle nostra pelle abbiamo imparato che il piacere e il godimento vanno riconquistati crescendo. Il suono è la vibrazione che ci rimette in contatto con gli istinti sopiti, sepolti nella vita socialmente accettata: il suono destruttura le gerarchie, ci rende tutti esseri vibranti all’unisono. Siamo contrari a qualsiasi rapporto suprematista tra le specie: ci mette a disagio tanto il cane al guinzaglio quanto una siepe sagomata ad ornamento di un giardino (…magari a forma di cane). Siamo contrari alla normalizzazione e alla standardizzazione di tutte le forme di espressione, perché riducono il piacere al vuoto consumo. Il divertimento diventa divertificio, una sera deve essere per forza una “serata“. Per questo portiamo il terzo paesaggio in uno spazio al chiuso: non vogliamo violentare o reinventare la natura. E’ una forzatura, la nostra, per aprire una visione diversa allo sguardo di tutti. Non è un abbellimento di uno spazio, non è una bella cornice: è uno spaesamento brutale, è scomodo e più puzzolente di quello che ammiri in una foto. Molti continuano a toccare le foglie delle nostre installazioni per capire se toccano una foglia vera o di plastica: già l’atto di volere decifrare se una cosa è vera o finta è perturbante. Scoprire quello che non avresti voluto immaginare è scioccante. Quale è la vegetazione che reputi bella? Perché quella piantina nel vaso è bella e utile al tuo salotto e il resto può essere uno scarto del decoro urbano, sradicata per fare più funzionale e logico il tuo scenario urbano? Noi stesse siamo quelle piante, balliamo con loro e per loro.
(Un assaggio di Tropicantesimo, ma occhio che molto altro è in arrivo; continua sotto)
A proposito di ballo e di standardizzazione, per un sacco di tempo questo approccio a BPM “lento” era abbastanza una follia, in termini di mercato e di appetibilità per esso; poi all’improvviso sono iniziate ad arrivare esperienze come Despacio che hanno riportato in primo piano, anche fra la gente-che-piace e crea i trend, un certo tipo di approccio. Speravate e sperate tutt’ora che la ruota giri e diventiate finalmente una cosa super alla moda e nel “giro giusto”, siete indifferenti rispetto ad una prospettiva di questo tipo o addirittura la temete?
Il nostro corpo vuole il groove, non il BPM. Il nostro corpo sprigiona sensualità, non codici binari. Non ci piace ridurre la musica a un valore numerico espresso in BPM. La scienza del BPM ha qualcosa di simile alla logica capitalistica per cui l’incremento è un vantaggio: più soldi hai, più sei felice, eccetera eccetera. Noi vogliamo liberare i corpi dal BPM di riferimento dei generi musicali. Conoscere è fondamentale, ma classificare è impoverente. Il groove è qualcosa di molto più complesso e profondo che risiede nella nostra primigenia propensione al ritmo, all’istinto di entrare in sintonia con gli altri. “All’ingresso di ogni scuola dovrebbe essere scritto: non importa se non capisci, segui il ritmo“. (Maria Lai)
Esiste una differenza tra club culture “alta” e club culture “commerciale”? Voi tra l’altro siete maestri in accostamenti inattesi e apparentemente “troppo pop”, dalla Berté in giù: quanto è sottile il confine tra paraculata e genialata?
Parliamo di “festa“, e ci interessa definire il nostro gesto una “festa” per renderlo accessibile e per evolvere la visione di festa. La festa ha una tradizione lunga e un potere profondo. Rita Lee dice: “Amor é bossa nova, Sexo é carnaval“. ll club non ci interessa nella sua definizione perché non vogliamo un servizio di sicurezza, non vogliamo una guest list, non vogliamo un privè, non vogliamo discriminazioni, non vogliamo che ci siano delle persone che pagano e altre che non pagano, non vogliamo che ci siano degli orari di chiusura stabiliti e, banalmente, non ci piace l’idea di dj resident o di line up. Il nostro agire in movimento è una gitanìa mossa dal suono, suono che va liberato e lasciato scorrere dove trova spazio – come un ruscello che non saprà di essere lago a un certo punto, e poi finire in mare. Troviamo obsoleto parlare di “club culture“: di club culture parlano solo i giornalisti, mentre le persone dicono “Andiamo a quella festa, andiamo a sentire quel dj che suona, che droghe abbiamo?“. La club culture è una distopia nella sua stessa formulazione. Nelle nostre borse dei dischi c’è di tutto. Le nostre non sono console, ma macchine del suono a cui colleghiamo molte fonti sonore. Il suono ci guida, siamo al suo servizio. Sì, stai ascoltando un Fatboy Slim suonato alla velocità sbagliata; questo invece è un 45gg di cui non sappiamo nulla perché lo abbiamo salvato dal triste destino di sottobicchiere in una vineria; questa invece è una cumbia rippata da youtube e messa in loop. Tutto il suono è possibile. “Tutta la musica ha senso di essere ascoltata“, ci ha detto John Cage. Perché tutti possano avere la possibilità di partecipare a dei riti collettivi sia chi ha strumenti e li mette a disposizione degli altri come collezioni di dischi, strumentazione per generare suono e conoscenze tecniche, chi balla fino alla fine, chi ti versa da bere, chi è in fila per il bagno, chi non andrà a lavorare domani. La festa è un ecosistema, il battito della farfalla sei tu che stai seduto sul divano e non batti ciglio.
ll club non ci interessa nella sua definizione perché non vogliamo un servizio di sicurezza, non vogliamo una guest list, non vogliamo un privè, non vogliamo discriminazioni, non vogliamo che ci siano delle persone che pagano e altre che non pagano, non vogliamo che ci siano degli orari di chiusura stabiliti e, banalmente, non ci piace l’idea di dj resident o di line up
Questo è volare alto. Ci sono realtà italiane che sentite vicine se non per suono, almeno per attitudine?
Sicuramente tutto il giro dei musicisti di Roma Est. Ma semplicemente perchè siamo tutti amici e condividiamo un sacco di serate, musiche, ispirazioni. E poi tanti altri artisti indipendenti e non con cui siamo entrati in contatto negli anni e dei quali ci colpisce il suono. E che spesso passano da Tropicantesimo, e si flashano. Vuoi i nomi di etichette e band? Ecco: Grip Casino, Holiday Inn, Steve Pepe, Front De Cadeaux, Fabrizio Mammarella, Wow, Since crew, Iaboon. Maria Violenza, Ivreatronic, Il Quadro di Troisi, Daddies On Acid a Berlino.
A proposito di Berlini, quanto è importante costruire un network con l’estero? Fino a che punto in questi anni è stata una vostra priorità, o almeno una cosa da fare nella “to do list”?
Le nostre “to do list” vengono scritte e perse dopo pochissimo tempo. Stiamo più sul qui&ora. I network poi nascono in modo fluido e naturale, come tutto intorno a noi.
Dovendo descrivere in uno o due aggettivi a testa ciascun componente del collettivo, come ve la sbrighereste?
Facile: tutte bone. Come te, se lo vuoi.
Ok, torniamo ai piani quinquennali di sovietica memoria, tanto per concludere: come saranno i prossimi cinque anni di Tropicantesimo?
Il futuro non esiste. Il bello del passato è che è già passato. “Facciamo samba e amore fino a tardi e la mattina non ci svegliamo mai“. (Chico Buarque)