L’appuntamento è in quella che si può definire “Casa Bosconi”: il quartier generale di una delle migliori label italiane, una label che abbiamo sempre amato tanto e che continuiamo ad amare, visto che la qualità delle release è sempre altissima. Questo quartier generale è in realtà anche la residenza di Fabio Della Torre, metà dei Minimono, deus ex machina dietro all’idea e allo sviluppo di Bosconi, anche se lui sottolinea sempre il carattere comunitario e di condivisione di questa avventura discografica. Il posto è bellissimo: sulle colline dietro Firenze, dalle parti di Fiesole, isolati ma non troppo, con panorami mozzafiato. Più il panorama di un film romantico inglese che il vialotto di cemento che porta al Berghain o all’Hoppetosse, o la Rambla affollata che ti guida verso l’Hï e l’Ushuaïa. Eppure la musica di Bosconi è perfettamente sincronizzata con le contemporaneità del dancefloor. Ma lo è modo suo. Con grande qualità. Come questo sia possibile, potete cercare di intuirlo, anzi, di capirlo leggendo attentamente il risultato di questa lunga chiacchierata con Fabio, iniziata – guarda un po’ – davanti a una console con tanto di giradischi e attorniati da una montagna di vinili disposti disordinatamente, e incentrata originariamente sull’uscita, in questi giorni, del secondo volume della raccolta “Bosconi Stallions”.
Cosa stai suonando, in questo periodo?
Vuoi la verità? Non lo so di preciso! Quello che so, è che sto cercando di ritrovare il “sapore” del mio 1997. Quando facevo le seratine al Mint. Cosa suonavo… hard house? Techno? Sperimentale? Un insieme di queste cose, credo. Noto che in questo periodo c’è un ritorno a suoni più cinematici, progressivi, “spaziali”, c’è anche il ritorno dell’electro… Quindi ecco, diciamo che in questo periodo sto cercando molto fra la mia roba vecchia, in più vado spesso nei mercatini a recuperare dischi dimenticati.
Quando ci siamo conosciuti, ormai tanto tempo fa, mi ricordo che suonavi molto minimale. E attenzione: lo facevi quando la moda della minimal doveva ancora piombare in tutta la sua forza, era lontano dall’essere – come poi per qualche anno è stata – praticamente il Verbo Unico. Però ecco, è curiosa questa cosa, pensando soprattutto a come si è sviluppato negli anni il catalogo Bosconi: l’esatto contrario del minimale, come approccio, ricco com’è di colori, di elementi.
Hai ragione, ma pensa anche a come è stato l’inizio di Bosconi: la prima release fu affidata a Bruno Pronsato e a Minimono, in un periodo in cui condividevamo un suono simile. Poi, come si siano evolute le cose, chissà, non so nemmeno se riesco a descriverlo per bene. E’ stato di sicuro un percorso, un’evoluzione. Ho iniziato suonando techno, progressive, trance; poi a Berlino ho scoperto un altro tipo di suoni, da un certo tipo di electro al sound minimale stile Poker Flat. Da lì si è evoluto il mio personale gusto musicale, di pari passo con le produzioni targate Minimono – che ricordo era composta da me e da Ennio (Colaci, NdI), quando l’ho conosciuto lui era specializzato nel sonorizzare mostre di arte contemporanea. Le nostre produzioni, anche quelle a taglio più minimal, avevano comunque una componente – come dire? – microhouse, c’era insomma sempre un po’ di funky dentro, c’era sempre un po’ di musicalità. Cosa sia diventata la minimal oggi, mah, diciamo che non lo so. Diciamo che sembra tanto una specie di “post Rumenian house”, molto uguale a se stessa, non mi fa impazzire. Io di mio sto tornando indietro come ti dicevo, ho avuto anche un periodo in cui suonavo un sacco di robe funky house, con Paul Johnson, cose così. Credo che ogni periodo faccia parte del bagaglio di esperienze e competenze di un dj, e personalmente non credo che le mode mi abbiano mai contagiato. Anche perché aver abbandonato Berlino mi ha permesso di tenermene lontano, credo.
Ecco, appunto: hai fatto tutto sbagliato. Sei andato via da Berlino mentre gli altri iniziavano a trasferircisi in massa.
Sì. Me la sono vissuta durante gli anni dell’università, in Erasmus. Quando poi mi laureai, ci tornai un altro po’: ma la vedevo già cambiata. Non riuscivo a proiettare il mio futuro personale, in una città come quella.
Se fossi rimasto a vivere là, magari Bosconi non sarebbe mai nata. Anzi, molto probabile, considerando la sua specificità e i suoi “richiami locali”.
Chissà. Un mio rimpianto è forse aver studiato ingegneria, invece di fare qualche materia umanistica come filosofia, lettere o psicologia. D’altro canto è stato proprio l’aver fatto ingegneria a portarmi a Berlino, per l’Erasmus, era una delle mete migliori. Poi oh, magari Berlino l’avrei scoperta lo stesso, molto probabile anzi. Di sicuro pur facendo ingegneria meccanica sono riuscito a far rientrare in qualche modo la musica dalla finestra: ho fatto una tesi sul rumore e sulla sua gestione, su come insonorizzare!
Però: tornarci adesso, a Berlino? Tipo che potrebbe essere una mossa altamente strategica. Viverci è, per vari motivi più o meno condivisibili, un chiaro valore aggiunto per un producer.
Sinceramente? Non ho preso molto in considerazione questa cosa. Dici che stare a Berlino ti cambia la carriera? Può essere, come può non essere. Certo, mi piace l’idea di trascorrere un po’ di tempo in altre città: può essere Berlino come possono essere Amsterdam o Parigi (anche se quest’ultima è cara), Londra invece l’ho sempre esclusa fin dall’inizio. Però sì, parliamo di pochi mesi, una cosa transitoria. Berlino… è rimasta in qualche modo in sospeso. Lì. Lontana, nei pensieri. Non mi sono mai realmente posto il problema.
No, eh?
Forse perché avendo già fatto questa esperienza, quella di viverci, so che non fa per me vivere in quella città. Non capiscono il mio senso dell’umorismo, i tedeschi… (ride, NdI) Lì devo dire che mi sono sentito ogni tanto un pesce fuor d’acqua, a livello umano, a livello sociale. Rimane un’isola felice, perché lo è: c’è molto spazio, ci sono molte opportunità, la musica è ovunque, soprattutto un certo tipo di musica, ma… non so. Ci sono tante persone che ci si sono trasferite ma mi pare veramente che per qualcuno sia stata una decisione dettata più dalla moda del momento. Ad ogni modo c’è una questione che risolve ogni dubbio: stando dove sto sono molto più vicino alle persone con cui più amo collaborare. E molte di queste persone per Berlino ci sono passate pure loro, eh: Martino (Mass Prod, NdI) è andato a starci ma poi ha ceduto, Rufus ci ha fatto tre anni…
Quanto tempo è passato dalla nascita di Bosconi?
Più o meno fanno dieci anni. La prima release è stata nel 2008, ottobre 2008.
Ecco. Quando avete iniziato eravate i giovani outsider che provavano a fare qualcosa di diverso rispetto a quello che girava per l’Italia allora. Dieci anni dopo, siete ancora un po’ degli outsider. Come vedi Bosconi nella geografia della club culture italiana? Un decennio è tanto. Ci sarebbero tutti gli elementi per consideravi un po’ dei veterani. Ma non mi pare accada.
Mmmmmh…
Pensa a quanti artisti che vedi in giro da due, tre anni e pensi “Uh, ancora lui!”; poi ci siete voi, che siete in giro da dieci, ma sembrate sempre la “novità fresca” della scena.
Diciamo che l’etichetta è nata con l’idea di fare strettamente musica che ci piace. E visto che noi tutti siamo persone che cercano sempre nuovi stimoli, il risultato è che forse non abbiamo mai trovato una identità di suono ben definita, cristallizzabile. Non siamo insomma una piccola m_nus, non siamo Cadenza. Il mercato, beh, lo sai come funziona: il marketing vuole che tu sia un prodotto ben codificato, riconoscibile ed identificabile. Ecco, io credo che Bosconi non sia molto riconoscibile… Abbiamo fatto uscite anche molto diverse fra di loro. Forse per questo siamo riusciti a mantenere l’idea di freschezza attorno a noi, nel modo in cui veniamo percepiti.
Già. Sembrate sempre ai vostri esordi. Nel bene e nel male. Nel bene perché comunque fate uscire roba di qualità, nel male perché non partite mai da uno status acquisito, qualcosa che vi permetta ci contare già su una base di partenza.
Vero, ma sai cosa? Va anche detto che osservando le cose, negli anni ho sempre visto che parecchie realtà troppo riconoscibili hanno avuto un periodo d’oro per poi però fare maledettamente fatica, esaurendosi praticamente in se stesse. Chiaro: per una Perlon che ammiro molto perché è in grado di dire “Questo è il mio suono, ci resto fedele”, dall’altro ho visto troppe realtà che pur di restare in qualche modo fedeli alla linea piano piano hanno visto la passione spegnersi proprio all’interno, non solo all’esterno. Secondo me è fondamentale mantenere la passione, quando porti avanti un progetto: se ci riesci andando ogni volta in giro di suoni freschi, non convenzionali, quelli che non vanno esattamente per la maggiore, amen. Io personalmente preferisco un demo che mi dia una sensazione di freschezza ed innovazione piuttosto che uno magari impacchettato benissimo, mixato alla stragrande, prodotto da dio, ma con suoni molto prevedibili.
Quali sono le etichette che ammiri di più?
Perlon, appena citata, è stata comunque un punto di riferimento fondamentale. Non solo musicalmente: anche l’idea che ci sia un nucleo di artisti preciso che vi ruota attorno, il fatto di mantenere una identità grafica abbastanza costante. Sì, io preferisco mediamente chi è eclettico, ma a Perlon vanno dati tutti i crediti possibili, è stata una guida sotto molti punti di vista. I primi dischi che io ed Ennio facemmo uscire erano su Telegraph / Logistic, che era all’epoca una delle mie label preferite. Proprio il boss di Logistic, Alex (Alexandre Petit, NdI), è stato il primo che mi ha fatto capire realmente alcune cose del music business, riguardo a cosa significa davvero possedere e portare avanti un’etichetta.
Cosa ti ha fatto capire?
La prima lezione è che non puoi essere il miglior giudice delle tue produzioni. Lui ad esempio coglieva in quello che facevamo io ed Ennio cose che manco a noi erano chiare, lì per lì, quando arrivavamo da lui per fargli sentire del materiale. Tipo che gli mandavamo dei demo, pensavamo “Di sicuro gli piacerà questa e poi anche questa”, lui invece ne prendeva un’altra, che poi finiva nelle borse dei Daniel Bell di turno, insomma, dei migliori dj, e tutti a dirci “Grandi! Questa traccia spacca davvero!”. Lui ci ha insegnato davvero bene cosa ci deve stare dietro ad un pezzo, come deve essere costruito per andare al di là delle mode e durare nel tempo. Un aspetto che per me è diventato subito fondamentale, e che è un principio fondante del catalogo Bosconi. Quando si tratta di scegliere un demo, la prima e più importante domanda che mi faccio è “Come resisterà nel tempo?”. Comunque sì, da lui abbiamo imparato veramente tante cose. Aveva un’esperienza che noi non avevamo. Lui aveva portato Telegraph insieme a Cabanne, avevo poi aperto Logistic appoggiandosi molto a John Thomas, poi però ha deciso di fare da solo perché – anche questo insegnamento fondamentale – lui aveva una visione ben precisa e sarebbe stato controproducente volerla imporre agli altri. In questo modo si resta amici: hai delle idee, le spieghi, fai capire che se decidi di fare le cose da solo non è per fare un dispetto, anzi, l’esatto contrario. Le scelte vanno motivate, sempre.
Ti ha insegnato insomma a dire anche “No” alle persone.
Bosconi è una sorta di collettivo, perché mi piace che le idee di tutti siano ascolte e discusse, ma la cosa migliore è che siamo riusciti ad essere una label longeva. La gratificazione più bella è questa. Stare ancora insieme dopo tutti questi anni. A momenti alterni, tutti hanno avuto dei momenti in cui hanno viaggiato per i fatti loro, perché non sempre il proprio percorso musicale si può incrociare col mio, o comunque con l’idea che volevo dare a Bosconi: non c’è nulla di male in questo, anzi. Prendi Herva, è partito facendo cose di un certo tipo, vicine al “sapore” Bosconi, poi è partito verso un viaggio molto più folle, molto più desideroso di rompere veramente in mille pezzi gli schemi prestabiliti.
Vero.
Però se senti la sua traccia nel disco, vedrai che riappare all’improvviso quello che era il suo spirito dei primi anni. Mi sono davvero emozionato, sentendola: c’è sia il “vecchio” Herva che quello “nuovo”. Un incrocio perfetto. Sono felicissimo che accada su una release Bosconi.
Quali sono le release in questo decennio che ti hanno reso più orgoglioso?
Sono molto orgoglioso del Bosconi 04, di 100hz. E’ un disco capitato un po’ per caso, in realtà l’avevo quasi già girato ad Alex di Logistic, mi pareva fosse più vicino al suo suono, non avevo ancora ben capito che, se hai un’etichetta, sei libero di farci uscire sopra quello che vuoi se la musica ti convince. Proprio quella release mi ha aperto la mente, mi ha fatto capire che potevo avvicinarmi a suoni anche più techno. Devo dire che il campanello di allarme fu proprio l’entusiasmo di Alex quando gli proposi il materiale, “Sìììììì, lo faccio uscire io!”, fu lì che mi venne qualche dubbio… (ride, NdI) Alla fine ci fu una doppia uscita, una su Bosconi e una su Logistic. Recentemente mi è capitata in giro una intervista di 100hz che molto carinamente mi ringraziava, dicendo che avevo ripescato il suo suono proprio quando pareva non interessasse a nessuno, ed è stato un momento per lui molto importante. Ma alla fine, se ci penso, sai qual è la release che mi rende più orgogliosa? Questa in uscita adesso, il secondo “Bosconi Stallions”. Anche se non venderà nulla.
Eddai, perché dici che non venderà nulla.
No dai, magari in effetti venderà… Il mercato è strano, sempre più imprevedibile.
Paradossalmente, credo che mai come adesso siate potenzialmente usciti con la cosa giusta al momento giusto, almeno rispetto ai vostri standard abituali. Il tipo eclettismo “morbido” che c’è in questo “Bosconi Stallions” ma in generale in tutta la produzione Bosconi oggi ha vita molto più facile e molta più stima fra gli influencer del settore di quanta poteva averne fino a poco tempo fa… oggi va per la maggiore il Dekmantel molto più del Time Warp, a tirarla giù con l’accetta, cosa un tempo inimmaginabile; e voi di sicuro siete molto più vicini al primo che al secondo.
Speriamo, speriamo. L’unica cosa certa è che, nell’arco di dieci anni, io e tutti gli altri ragazzi legati a Bosconi siamo maturati parecchio. Una cosa che mi fa molto piacere è che sì, è un album che vuole rappresentare una label, ma ciascuno degli act coinvolti riesce ad esprimere chiaramente il proprio stile. E’ appena uscita, ma ci sono già molto affezionato. D’altro canto è un anno e mezzo che ci lavoro…
Anche la veste grafica ha una storia particolare.
E’ successo tutto un po’ per caso. Per festeggiare i nostri primi cinque anni, tirammo fuori appunto una compilation a nome “Bosconi Stallions”. C’era un bel po’ di ironia in questo titolo, naturalmente: lo stallone di Bosconi che fa vedere la propria prestanza, i propri muscoli, e per giunta eravamo tutti italiani… Lì scegliemmo per la cover di fare un lavoro fotografico, fotografando vari box con cavalli dentro. L’anno scorso venne cena a casa nostra, perché molto amico dei miei genitori, Silvano Campeggi, detto Nano, cartellonista dal curriculum pazzesco, pensa alle robe di Hollywood già dagli anni ’50. Infatti il cartellone di “Ben Hur” è roba sua: è lì che si è appassionato al disegnare cavalli. Poi beh, parliamo di colui che ha disegnato il manifesto di “Casablanca”, il primo a ritrarre Marilyn Monroe. Ma ecco, sui cavalli si era preso davvero bene. Tant’è che sono diventati una sua specialità, li infilava un po’ dappertutto quando faceva delle illustrazioni. E insomma, lo vedo a cena, e dopo un po’ prendo coraggio e gli dico se gli andava per caso di disegnarmi un cavallo. Tanto per farti capire: lui gira sempre col lapis nel taschino. Ha iniziato a fare degli schizi. Che poi, evolvendosi, sono diventati la copertina di “Bosconi Stallions vol. 2”. Una soddisfazione enorme. Un artista di questa caratura, una leggenda per la Hollywood degli anni d’oro, tra l’altro novantacinquenne, che ci fa un regalo così.
Ma hai provato a fargli sentire la musica, che era nel disco che doveva illustrare?
No, no. Non ho fatto in tempo. Però devo dire che se i primi schizzi che mi aveva proposto erano più “classici”, quando gli ho spiegato che sarebbe servito qualcosa di più moderno, più essenziale ed “elettrico”, lui ha iniziato subito a sfornare. E’ una macchina! Mi avrà preparato in un attimo una ventina di schizzi diversi…
Tornando però all’italianitudine: Bosconi, quanto è “italiana” come label?
Sinceramente, non te lo saprei dire. Diciamo che sento, più che l’influenza “italiana” in generale, le influenze nostre personali. Il nostro modo di vivere, di prendere le cose. Anche Dukwa ed Herva vivono fuori dalla città, in collina, sono nella vallata a fianco rispetto alla mia. Per dire. Ma, parlando più in generale, al massimo posso dire che ci sono probabilmente nella nostra musica un po’ di influenze UK da fine anni ’90. Non tanto nei suoni quanto nell’attitudine, nella ricerca di qualcosa di emozionale. Non voglio esagerare ed usare il termine “soulful”, perché non è che sta perfettamente sulla nostra musica, ma di sicuro il nostro suono non è quello di una label fredda, minimal. Mettiamo sempre degli elementi di campionamento, mettiamo sempre un minimo di melodia, un po’ di calore… credo sia questo a renderci un minimo, ecco, mediterranei.
Il pubblico italiano, invece, quanto è cambiato in questi dieci anni?
Di certo sono passati i periodi in cui potevi ricreare un certo tipo di energia in piccoli club come potevano essere qua a Firenze l’Ex Mud o il Tabasco. Ora mi pare che un po’ dappertutto, appunto anche nei club, sia diventato un po’ troppo importante il fattore “moda”. Ma va anche detto che quando abbiamo fatto la Bosconi Night al Tenax, dove tra l’altro non avevamo chiamato ospiti stranieri, c’eravamo solo noi italiani, alla fine il locale non era magari pienissimo ma si respirava davvero un’energia da vecchi tempi. C’erano anche amici miei, gente ormai abbastanza adulta, che era venuta a ballare per l’occasione. Oggi il pubblico si muove meno, soprattutto mi pare si muove per “setta”, per “appartenenza”, un fenomeno che solo in Italia trovo sia così marcato, all’estero mi pare lo sia meno. Il motivo, non chiedermelo. Insomma, vedo in giro dei pubblici meno imprevedibili, meno variopinti, non c’è più la mescolanza strana che poteva esserci in posti come il Brancaleone o, per citare un altro posto romano che purtroppo non c’è più ma che mi piaceva moltissimo, l’Animal Social Club. Vabbé, ma metti che io non sono uno che gira tantissimo, sono un finto giovane, ormai c’ho una certa età (ride, NdI)…
In realtà tutti voi Bosconi siete atipici. Non siete i classici dj che macinano date ovunque. Avete delle carriere strane.
Vero. Non so se è colpa nostra o di come si evolve il music business, forse entrambe le cose, di sicuro noi non vogliamo stare a forza in un certo tipo di mondo e in un certo tipo di dinamiche. Si sa come funziona: oggigiorno, se vuoi essere un dj/producer nei giri giusti devi essere anche in posti dove non sempre ti piacerebbe essere ed essere gentile anche con persone con cui non sempre avresti voglia di passare del tempo. Non siamo così. Ma non lo dico con snobberia, te l’assicuro: è solo questione di sincerità. Sincerità pura e semplice. Herva è l’esempio più lampante: ha preso la sua via, una via bizzarra, e segue quella, sta benissimo così, non lo interessa molto il resto. Lui è l’estremo. Io magari sono più morbido: perché mi trovo veramente bene a fare da dj, è la cosa in assoluto che più mi rende felice nella vita e credo, insomma, che non mi riesca poi così male. Quindi mi piace farlo.
Comunque in effetti non era scontato che il Tenax vi chiedesse di fare una Bosconi Night: loro hanno un collaudatissimo ed efficacissimo sabato dove la guest straniera c’è sempre ed è sempre di un certo livello. Poi ok, c’è Fragola, ma quella è una storia particolare, molto diversa da Bosconi…
Per sentire bene la musica ci vuole un grande impianto, e un impianto veramente di qualità a Firenze lo trovi solo al Tenax, non credo di fare un torto a nessuno dicendolo. Aggiungo che comunque il Tenax è il posto dove io ho iniziato a suonare regolarmente, è inevitabile ci sia affezionato e ci sia un legame. Questo significa anche che, quando ci vado a suonare, non mi sento assolutamente un estraneo, uno che viene catapultato in un posto “alieno” rispetto a sé, rispetto alle proprie convinzioni. Ad esempio ormai è una tradizione che, quando viene a suonare Jeff Mills, chiedano a me di aprire la serata: se me lo chiedono, vuol dire che non mi ritengono così fuori posto e io, te l’assicuro, sono sempre me stesso. Ad ogni modo: quando stavolta ci hanno chiesto di fare la Bosconi Night una cosa che sapevo fin da subito è che volevo ci fossero solo artisti italiani. Perché così è più facile dare l’idea di collettivo, far capire che non siamo dipendenti dalla “religione del guest”. Il clubbing alla fine è come il calcio: si esce dalla crisi se si torna a valorizzare i vivai.
Parliamo un po’ di come è stata costruita la tracklist di “Bosconi Stallions vol. 2”… Ordine casuale o ordine attentamente e lungamente studiato?
Lungamente ed attentamente non so, ma studiato di sicuro. Sono tracce diverse di artisti diversi, era importante trovare comunque un filo logico. Alla fine nell’edizione in vinile sono tre dischi, e ciascun disco ha un colore e un suono di riferimento diverso. Il primo è più raw, funky, più house come approccio; il secondo ha un approccio un po’ più elettronico e minimale; il terzo è elettronico ma anche molto più spezzato, irregolare. In quest’ultimo disco ad esempio come Minimono ci cimentiamo in una traccia insolitamente broken per i nostri standard, ma la verità è che sia io che Ennio abbiamo un background che guarda molto all’elettronica cinematica stile Orbital, a Ennio poi addirittura piacevano gli Spiral Tribe, figurati. Poi boh, anche le singole tracce hanno una storia, in qualche caso, che meriterebbe di essere raccontata. Prendi quella di Mass Prod: abbastanza folle, come traccia. Tutto è nato da una serie di session che dovevano sfociare in un nuovo album di Bosconi Sound System, una roba lunga un paio di giorni; ad un certo punto io e Rufus eravamo lì stanchi, svuotati, Martino invece ha preso in mano la 606, ha iniziato a cambiare delle impostazioni al suo modulare, è partito a far cose e voilà, all’improvviso ne è venuta fuori una delle migliori take di quei due giorni. Ovviamente la prima cosa che ha detto è stata “Questa è mia, me la tengo per me” (ride, NdI)… Poi però è stato magnanimo, ce l’ha lasciata per la compilation!
Hai scartato delle tracce, hai dovuto escludere del materiale?
No. Ho dovuto più chiedere in giro che scartare. Diciamo che a tutti ho dato uno spettro entro cui stare, ma in modo molto vago, molto libero. Alla fine ho raccolto e si incastrava tutto bene.
Confermo.
Vuol dire che questa cosa del percorso non solo musicale ma anche umano in comune qualcosa fa…
C’è stato un momento in cui questo percorso ha rischiato di interrompersi?
Proprio interrompersi no, ma di sicuro ciascuno di noi – anche io con Minimono – ha avuto modo nel tempo di prendersi delle pause. Capita a tutti di avere periodi in cui, dal punto di vista produttivo, non si hanno grandi stimoli. In quel caso meglio non insistere. Anzi, ho notato che queste crisi creative a noi venivano molto più facilmente quando avevamo pressioni specifiche da label manager per fare le cose in questo o quest’altro modo. Altra cosa da dire, ci sono state delle fasi in cui il percorso di qualcuno di noi non era quello “giusto” per Bosconi, visto che comunque c’ho sempre tenuto a mantenere un po’ di identità per la label. Quindi giustamente ciascuno, quando era il caso, ha pensato prima di tutto al proprio percorso personale. Però ecco, di Bosconi mi piace pensare che ci sia una identità sonora, come sicuramente c’è una identità – e comunanza – umana. Mi auguro che nella compilation questo si avverta.
Dopo un po’ che stanno assieme troppo a stretto a contatto, facilmente gli artisti litigano.
L’artista è artista. In qualche caso può essere anche folle, in quasi tutti i casi è comunque un essere umano con una personalità e sensibilità spiccate. A dirla tutta, può averci anche aiutato il fatto che ci sia sempre stato abbastanza poco business dietro alle nostre cose come Bosconi, la spinta è stata sempre e solo la passione e l’amicizia. Certo, una componente di business c’è, e lì devi stare attentissimo: gli equilibri fra business ed amicizia sono davvero delicati. Ma ora, se mi guardo indietro, vedere che dopo dieci anni siamo ancora tutti assieme, tutti molto legati, tutti molto amici, è una vittoria enorme, per me, per noi tutti. Anche perché ciascuno ha avuto comunque la possibilità di fare il proprio percorso: pensa a Herva prima su Delsin e poi su Planet Mu, Dukwa su Numbers. Anche Martino / Mass Prod ad un certo punto ha fatto cose enormi, poi si è preso una pausa da tutto e ha ripreso facendo cose molto ma molto più sperimentali.
Eccome. E’ passato dal fare le date Circoloco in giro per il mondo al mollare tutto e recludersi in Conservatorio, a Genova, a fare sperimentazione estrema.
Eh, quando ci si mette Martino è una gran testa! L’ho anche visto tenere un po’ di lezioni, mi piace moltissimo il suo approccio: la sintesi FM additiva, sottrattiva, tutte cose in cui ormai è diventato espertissimo e che io ho recuperato paradossalmente rispolverano un po’ le mie conoscenze di ingegneria. Ma anche gli altri: Rufus è nato più come “digger” e dj puro, ma ora si sta concentrando sulla produzione e sta tirando fuori cose molto, molto interessanti. I Nas1, poi, che per me sono un po’ “i Life’s Track di Bologna”, rivedo lo stesso approccio che hanno Dukwa ed Herva quando lavorano assieme, in loro. Riccio: che è sempre un stato purista, ma il nostro percorso è veramente marciato tanto in sintonia, negli anni. A Guy Called Gerald, una leggenda, che è un tipo bislacco, ogni tanto, ma mi riempie di orgoglio che abbia voluto far parte del progetto, considerando che invece pare essersi quasi completamente fermato come produzioni anche se chiaramente non avrebbe problemi ad uscire ovunque… segno che ha dell’affetto nei nostri confronti. Di 100hz già ti ho detto. Il criterio è stato semplice: il fattore umano, e l’aver fatto almeno uno o due EP su Bosconi. Quest’ultimo criterio è stato importante per spiegare a qualcuno perché non era stato considerato.
C’è chi se n’è lamentato?
Non lo so, di sicuro non direttamente. Voglio però davvero sempre più che Bosconi abbia una identità e che la gente che ne faccia parte ci “creda”: non perché sia venale e voglia usare questo come scusa per non allungare degli anticipi (ride, NdI), ma perché non voglio che la musica e creatività siano merce. Sai, quelle cose che ci sei o non ci sei, che vai a chiedere remix a gente che non hai mai visto…
…”questa etichetta non è un albergo!”
Beh, non vorrei lo fosse! In passato può essere successo che abbia dato degli anticipi, che abbia chiesto remix di un certo tipo, e sicuramente succederà ancora; ma sicuramente desidero che il fattore umano diventi sempre più importante, col passare del tempo.
In tutto questo, ci sarà un release party?
Vedremo! Intanto, di sicuro l’idea è quella di fare un’altra Bosconi Fest, il prossimo 26 maggio, dopo un paio d’anni di pausa. Per quest’anno abbiamo trovato una location incredibile, una fattoria di un mio amico situata in una zona tra Firenze e Pisa con tanto di pascoli e mucche bellissime, delle chianine enormi! Un posto staccato da tutto, una zona incontaminata dove fare musica per ventiquattro ore di fila, da mezzogiorno di sabato 26 a mezzogiorno di domenica 27. Una cosa in piccolo, naturalmente. Qualcosa che nasca come condivisione, come voglia di stare assieme. Chi passerà, di sicuro troverà una situazione molto rilassata e molto piacevole. In una situazione dove c’è comunità di intenti ed attitudini. In fondo, anche Glastonbury è nata così…
(Foto di Chiara Sinatti)