Sono ormai lontani i tempi in cui la techno veniva considerata una forma d’arte elitaria, creata da un nucleo di illuminati visionari e fruita da pochi. La domanda oggi ha acquisito una potenza fortissima, talmente forte in grado da indirizzare direttamente le scelte delle line up e, di conseguenza, in un gioco di reciproca causa ed effetto, anche degli artisti stessi. Deve essere frustrante per chi ha una personalità artistica definita scendere a compromessi con la domanda, dettata da un hype generale che non sempre rispecchia i reali contenuti qualitativi; c’è chi riesce a farlo e chi invece, come Levon Vincent, decide di sfogarsi così:
“Techno has never reminded me so much of heavy metal as todays’ era. Where has the hint of Jazz influence gone? Afro-Cuban rhythms? Still, interesting stuff these days, but can a guy get a 7th chord once and again? Why has the scene shut down all the cultural collage, the melting pot, in favor of just, angst/ angry music? Im bored. ”
Tra gli altri, anche Coccoluto, KiNK e Steve Bug sono intervenuti tra i commenti sotto questo status vincentiano, dando la loro opinione in merito allo sfogo di Levon. Sfogo che nei giorni scorsi, tra schieramenti vari, ha creato non poco scompiglio sul web. Steve Bug ha affermato che sarebbe decisamente necessaria una rinascita della Detroit Techno, non solo per una semplice questione di “ritorno alle origini” e per la felicità dei più nostalgici, ma per qualcosa di molto più profondo: una questione di sentimenti. Aah, i sentimenti! Finalmente qualcuno che ne parla. Sì, esatto, proprio così: finalmente.
Attualmente infatti ci troviamo ad affrontare un momento di saturazione così acuto che sembra che in molti abbiano dimenticato il reale motivo per cui si fa musica: la passione, lo scambio reciproco di emozioni tra artista e ascoltatore. Queste sono le cose che dovrebbero venire prima di tutto, forse ancor prima della buona riuscita tecnica, del disco “underground-super-giusto-che-nessuno-conosce”, e di sicuro dovrebbe venire prima del successo, prima della fama.
Un genere come la techno (che nel 2015 è appunto sulla bocca di tutti) è destinato a dover continuamente gestire un delicato rapporto con l’hype e, di conseguenza, un continuo dibattito (spesso nemmeno troppo costruttivo) incentrato attorno a quello che succede tra gli esponenti a maggior esposizione mediatica e nei migliori club. Questo è quello che accade quando si è rapidamente esposti ad un pubblico molto più vasto: inevitabile. Le conseguenze, non dimentichiamolo, possono essere decisamente poco piacevoli: un incontrollabile abbassamento qualitativo o un numero indefinito di persone disinteressate alla musica ma incredibilmente coinvolte in tutto ciò che c’è intorno, all’aura di successo (di coolness, di hipsteria…), al mero fenomeno di aggregazione di massa – una massa ben poco conscia di ciò che le proprie orecchie stanno ascoltando, più attenta invece ad una fallace rappresentazione di se stessa come “vincente”, “euforica”, “felice”.
“Dopo 30 anni di questo tipo di musica, è davvero difficile trovare una nicchia e venirne fuori con qualcosa di innovativo“, aggiunge Steve Bug: sembra conoscere bene il problema che tutti gli stili di musica devono affrontare, arrivati ad un certo punto. Vale per la techno, vale per tutti: quel momento in cui le tecniche diventano esauste e tutti, produttori, dj e ascoltatori, aspettano impazientemente la prossima “grande novità”. In risposta a questo momento di stasi, è inevitabile spesso rifugiarsi in una rottura dei canoni estetici classici, costitutivi, e magari cercare rifugio nell’estremizzazione. La conseguenza attuale è stata la nascita di un movimento d’avanguardia/retroguardia che nega l’approccio melodico e ricerca la sperimentazione attraverso il riadattamento di suoni heavy metal nella techno, l’incoronazione del rumore, la riesumazione dell’industrial e dell’EBM.
Il manifestarsi di questo “nuovo genere” non desta in me alcun stupore. A prescindere dal gusto personale di ogni individuo, dalle possibili influenze (“giuste” o “sbagliate” che siano), non penso sia un casualità che nel ventunesimo secolo la musica rappresentativa di questa generazione sia così distaccata, fredda e meccanica. Pensateci. Non potrebbe proprio essere altrimenti. Al di là delle situazioni politico-economiche globali (che oggi di primo acchito diremmo non facili, certo, ma non è che nei decenni precedenti, se analizzati con attenzione, ci fossero meno problemi, meno guerre, meno crisi) il punto è che oggi, in questi ultimi anni, si sono sviluppate alcune dinamiche peculiari. Prendiamo il fenomeno del “self branding” sviluppatosi in grande scala sul web (cito Wikipedia: “Capacità di promuovere se stessi, al fine di essere gradito o comunque appetibile nei confronti di una comunità di consociati, con modalità simili a quanto avviene in campo economico, con i prodotti commerciali”): per certi versi altro non è che un ritratto realistico e disarmante della società attuale. In cui si vive di marketing e di marketing ci si ciba. Togliendo linfa vitale ad altri valori. Molto più umani.
La musica diventa specchio di questo disagio collettivo, perché da sempre esiste non solo per creare un’esperienza ma per trasmettere un messaggio. La musica viene fatta da esseri umani per altri esseri umani e non può far altro che raccontare ciò che il mondo intorno trasmette. Basti pensare che negli anni ’80, quelli della grande euforia, dell’edonismo, della crescita economica apparentemente per tutti: tutto suonava molto più spensierato e sensuale. Economicamente si stava bene, il riflusso dell’impegno politico aveva svuotato molte tensioni, il peggio era passato e si riusciva a trasmettere attraverso la musica il proprio benessere interiore ed esteriore. C’era desiderio di scoperta, ci si sentiva più a proprio agio a battere strade nuove.
Paradossalmente gli anni ’80 si dovrebbero far iniziare addirittura nel 1978, l’anno successivo all’esplosione mondiale del punk, con la nascita di centinaia di gruppi che partendo da una situazione di tabula rasa si diedero a nuove superbe ricerche musicali (new wave o post-punk…). Sostanzialmente è stato un decennio di grande innovazione ed ecletticità, con il tentativo di innovare il verbo del rock: sia con la nascita di nuovi generi (dalle declinazioni punk e hardcore all’esplosione della galassia hard/metal in vari sottogeneri), sia con la ricerca di un maggiore legame (e in certi casi di fusione) tra rock e generi tendenzialmente autonomi e quasi ghettizzati (la black music, con il variegato mondo soul, disco e funk; l’affermazione del rap). Oltre a questo, una nuova e rivoluzionaria declinazione della musica elettronica, con il proliferare dei nuovi verbi techno e house che esplosero nella seconda metà degli ‘80, o con l’inaspettata egemonia commerciale del synth-pop. La musica narra l’essenza del popolo. Ma oggi, nel 2015? Forse siamo diventati ricchi di presunzione e ingordi di hype, ma poveri di emozioni e passione.
Perché siamo arrivati a questo punto? Una risposta assoluta probabilmente non esiste, per via anche dell’imprescindibile gusto personale di ognuno, ma possiamo provare a formulare una delle possibili spiegazioni. Nell’epoca in cui i dj hanno (parzialmente) preso il posto delle rockstar, si è venuta a creare una nuova generazione di produttori musicali. Una generazione che (ok, senza fare di tutta l’erba un fascio) conosce poco le radici di ciò che produce e/o suona ma sembra piuttosto conoscere estremamente bene ciò che va oggi, ciò che il proprio settore di appartenenza vuole (in una parola: marketing; anche quando si opera nell’underground). Una generazione cresciuta a pane e 4/4 e che, questo è il sospetto, proprio non ne vuole sapere di sperimentare altro: vuoi per mancanza di curiosità vuoi perché il mercato a cui mirano (e da cui sono presi di mira) non lo richiede.
Il risultato che ne consegue è quanto mai scontato: un riciclo continuo, un’omogeneità di fondo. Poca invenzione, poca creatività e nessuna voglia di uscire dal tracciato. La centrifuga di questa “bolla-techno-arrabbiata” in cui tutti (chi più chi meno) ci troviamo a galleggiare non sembra ancora voler scoppiare; ma la musica è ciclica, è la storia a dirlo chi durerà e per quanto. Il punto piuttosto è un altro, la domanda fondamentale sta piuttosto qui: in tutto questo avanguardismo esasperato, e nell’abisso creato dalla foga di voler emergere a tutti i costi, i protagonisti sono ancora i sentimenti? Dietro tutto questo hype si cela ancora il puro desiderio di voler trasmettere a chi ascolta il proprio io? Anche in questo caso una risposta “corretta” ed univoca per tutto e tutti non esiste, ma l’augurio vitale è che l’integrità artistica rimanga sempre tra le cose più importanti: la consapevolezza cioè di star ascoltando qualcosa di vero, creato da un artista vero, che non è interessato ad altro se non a raccontare veramente se stesso.