Potrebbero avere il mondo in mano e tirarsela parecchio, Jens Moelle ed Ismail Tuefekci. Da Amburgo – che non è certo il centro del mondo, per quanto riguarda il clubbing – al successo planetario: questa la traiettoria dei Digitalism. Oggi che possono permettersi ospiti hip tipo Julian Casablancas degli Strokes (sì, c’è lui in una delle tracce del nuovo “I Love You Dude”) e che perfino paludatissime marche automobilistiche ne infilano la musica nei propri spot, potrebbero diventare dei divetti da jet set danzettaro. Come del resto è capitato o sta capitando a un po’ di loro colleghi di stile francesi (sì, in quel filone musicale c’è chi è simpatico, c’è chi lo è meno – e se la tira oltremodo). A sentire però al telefono Jens, il rischio è pari a zero. La simpatia, la gentilezza e l’umiltà fatta persona.
Allora, come butta? Ci eravamo sentiti la prima volta all’epoca del primo disco, quattro anni fa. Ora: non provare nemmeno a dirmi che per voi non è cambiato niente nel frattempo… All’epoca della nostra prima chiacchierata il vostro successo era solo in parte intuibile. Nel frattempo siete esplosi. Quanto sono stati lunghi, per voi, questi quattro anni?
In realtà molto poco. E, ti deluderò, mi sa che mi tocca dirti che no, per noi le cose non sono cambiate più di tanto: continuiamo a essere i due simpatici sfigati di Amburgo che si sorprendono per ogni singola cosa. Abbiamo girato il mondo, in questi quattro anni. Abbiamo fatto live set e dj set. Questi ultimi abbiamo ben visto di diradarli, nel 2010. Non siamo gente in grado di comporre mentre è in giro fra aeroporti, serate, eccetera. Già di nostro siamo pigri e lenti, in più una delle cose positive del successo è che puoi permetterti di acquistare molta più attrezzatura (quindi più cose da imparare, più cose da sperimentare): se non avessimo dato un brusco taglio ai nostri set in giro per il mondo non ne saremmo venuti più fuori, e gli anni tra un disco e l’altro non sarebbero stati quattro ma quaranta.
Tra l’altro, in un’epoca in cui la (super)produzione dal punto di vista quantitativo sembra una regola per essere al top del mercato siete abbastanza un’eccezione, poco prolifici come siete.
Eh, dai: diciamo che volevamo dare a tutti il tempo di digerire il nostro lavoro d’esordio, di farselo piacere… Che poi, su questo un po’ ci scherzo un po’ no: una delle cose belle di “Idealism” è infatti che non ha avuto successo immediatamente, non è stata una roba tipo Lady Gaga che esce e, sbam!, eccolo subito al numero uno. La crescita della sua popolarità è stata piuttosto lenta ma costante. E non è che sia un album chissà quanto concettuale, che devi star lì sei mesi a spremerti le meningi per capirlo; mi piace invece pensare che avesse delle canzoni in grado di durare nel tempo, di crescere ascolto dopo ascolto, da qui la fortuna di non venire subito a noia. Ecco, se abbiamo una speranza è proprio questa: costruire della musica che non duri lo spazio di un mattino. Essere, perdonami la parola, originali. Questa idea è stata la nostra stella polare anche al momento di lavorare adesso ad “I Love You Dude”: fare le cose a modo nostro. Tipo: se oggi un pezzo per avere successo pare che debba per forza essere costruito su una bassline ultracompressa, beh, a noi non importa. Se secondo noi non ci sta bene, non la mettiamo. Rispetto al nostro esordio poi abbiamo messo ancora più cura nel costruire le canzoni: melodia, armonia… il cuore stavolta è qui molto più che in passato.
Vi è venuto facile e naturale questo cambio di modus operandi?
Per nulla! Per due mesi almeno non c’abbiamo capito un cazzo. Questo perché seguivamo il nostro iter produttivo abituale: prima la parte musicale ritmica compresa, poi e solo poi ci metti la parte vocale sopra. Beh, non andavamo da nessuna parte. Fino a quando non abbiamo preso il coraggio a due mani, abbiamo buttato tutto quanto inciso nel cesso, siamo ripartiti da capo lavorando come una vera band rock: scrivendo le canzoni prima al pianoforte, disegnando lì le linee vocali – arrangiamenti e ritmiche in arrivo solo per ultimi, prima invece attenzione maniacale a capire come gestire melodie, accordi, cambi armonici. Roba che nell’elettronica non si fa spesso.
Del resto c’è questa strana cosa per cui da un lato siete visti come organici, almeno stilisticamente, alla scena nu electro francese, che è una delle scene dominanti da anni a questa parte, dall’altro siete degli outsider: non siete riconducibili né a Berlino, né a Francoforte.
Esatto, proprio questo è il punto! Premesso che a noi l’electro piace parecchio, certo pop e certa new wave anni ’80 pure, quindi fare un certo tipo di musica era ovviamente nelle nostre corde, al tempo stesso ci piaceva anche un sacco essere tedeschi ma fare musica evidentemente non “da tedeschi”. Non c’entriamo nulla con Berlino, non c’entriamo nulla con Francoforte, quando invece l’elettronica germanica pare invece debba per forza appartenere a uno di questi due filoni.
Invece siete di Amburgo, già. Mi sono sempre chiesto come mai Amburgo, che è una delle città più ricche della Germania nonché la capitale di robustissima una fetta dell’industria culturale tedesca (dall’editoria alla produzione e rappresentazione di musical), non abbia mai lasciato particolari segni nella club culture.
Amburgo non è una città da club, non ci trovi posti tipo Cocoon, Watergate, Panoramabar. Zero. Amburgo è una città da bar. Molto meno cool, vero? Però questo è lo spirito. E non è che a noi amburghesi non piaccia divertirci o fare tardi la notte: se passi dalla zona di Reeperbahn te ne accorgi subito, siamo ben festaioli anche noi. Solo che ci piace seguire altre modalità, più casalinghe diciamo. Che dire? Probabilmente ci piace essere anonimi, a noialtri del clubbing amburghese – non ci interessa finire nelle riviste o nei siti specializzati come una Mecca della musica elettronica e della vita notturna. Siamo timidi, chissà. Che poi adesso non vorrei neanche che i Digitalism siano per forza associati ad una supposta “scena amburghese”, perché sarebbe una stupida forzatura.
Però siete associati al successo. Pardon: non “associati” – siete proprio un gruppo di successo, punto.
Vabbé, sarei ridicolo se lo negassi: un minimo di successo lo abbiamo. Però ecco, attenzione: oggi non è più come un tempo, che se imbrocchi un disco di successo puoi vivere di rendita fino alla fine dei tuoi giorni. Oggi in ogni caso sei obbligato a lavorare duro sempre e comunque. Il nostro tipo di successo ci piace per un altro motivo che non ha nulla a che fare coi soldi: andando a suonare veniamo (quasi) sempre ospitati da gente molto in gamba, quel tipo di persone che si dà da fare per rendere la propria città un posto migliore, non so se mi spiego. Ecco, in questo modo abbiamo accesso immediatamente in qualsiasi città ci ritroviamo alle informazioni più interessanti, alle persone più sveglie, ai posti più eccitanti. E’ una grandissima fortuna. Soprattutto per due stupidi nerd come noi che, di nostro, saremmo drammaticamente timidi e ci metteremmo secoli prima di rompere il ghiaccio.
Dai su, non puoi raccontarmi ancora che siete due “stupidi nerd”…
Ahahah, dici di no?
Dico di no. Dai, su, tiratevela un po’… potete farlo, ora!
No, no, no, no! Non vogliamo fare la fine di gente tipo i Kings Of Leon: umili, simpatici e disponibili quando erano un gruppo indie fra tanti, ora invece che è arrivato il successo improvvisamente sono diventati irraggiungibili manco fossero gli U2! Metti mai che il nostro successo cresca fino a vette impreviste: se mai ci vedrai cambiare in questo modo sei autorizzato a riderci in faccia. E a mandarci affanculo.