Durante questo festival mi sono trovato spesso ad essere nervoso senza capirne il motivo. Mi sono sentito eccessivamente critico, anche rispetto all’opinione di colleghi ed amici incontrati sul campo, fino quasi a sentirmi inadeguato a scrivere questo report per paura di trasmettere un’opinione troppo soggettiva e “fuori dal coro”. Fino a che non sono arrivato ad una conclusione: avere la fortuna (o sfortuna, a seconda dei casi) di fare molti festival in un lasso temporale ridotto, spesso porta a distorcere la realtà di una singola festa quando viene messa a paragone con ciò che è appena stato vissuto altrove. Mi spiego meglio: visitare il Dimensions 10 giorni dopo il Creamfields (toccando quasi i due estremi del modo di concepire un festival) è stato molto deviante, fin quasi “nocivo” per la mia capacità di analisi. Non ci si può aspettare in un ambiente che fa dell’underground il suo mantra le stesse facilities e l’ordine logistico di un evento mainstream. Allora ho cominciato a pensare che forse e dico forse questo Dimensions non è stato poi così male. Ok, però mettere un paio di cartelli per segnalare il festival cari organizzatori non sarebbe stato poi così problematico, diciamolo. Girare a vuoto in auto per le pinete croate è carino per un’oretta, ma alla seconda si comincia a perdere la pazienza. Una volta arrivati all’ingresso (dopo una discreta scarpinata tra l’altro) il cartello che reca la scritta FESTIVAL e una freccia, a 50 metri dai controlli, suona quasi come una presa in giro.
Appena varcati gli ingressi, la prima sala con cui si può fare amicizia è il The Clearing, spazio dedicato in gran parte ai live più “ingombranti” ed in particolare alla musica dal vivo. Un impianto importante permette di godersi al meglio la situazione senza essere costretti a stare nella calca delle prime file. Personalmente è un ambiente a cui ho dedicato relativamente poco tempo, per il fatto che risultava essere leggermente distaccato dal resto del festival, perciò farsi 10 minuti di camminata in pendenza sui sassi risultava spesso piuttosto scomodo e talvolta è stato un fattore di rilievo nella mia scelta su cosa andare a sentire durante il festival. Prima di prendere la salita che porta al forte si trova il bivio che conduce alla spiaggia, dove durante il giorno tra un bagno e l’altro (in un mare bellissimo) i due palchi presenti hanno intrattenuto i bagnanti con per altro ottime cose dal punto di vista musicale, il takedown di Mr. Scruff con diversi ospiti (tra cui Floating Points) su tutti. Accanto alla spiaggia è situato un piccolo porticciolo da cui partono le barche delle varie organizzazioni, eventi a cui chiunque almeno una volta dovrebbe prendere parte. Purtroppo noi siamo riusciti nell’impresa di perderci così tante volte per arrivare alla festa che abbiamo perso la nostra, non senza una discreta dose di maledizioni variegate a tutto il creato.
Una volta intrapresa la (abbastanza lunga) salita che porta al cuore della festa, lo scetticismo e i cattivi pensieri hanno lasciato presto spazio alla suggestione che un’ambientazione assolutamente incantevole come il Fort Punta Christo riesce a regalare. Pensate di arrivare in ritardo, stanchi ed incazzati come bisce per esservi persi la festa in barca per la quale siete anche tornati prima dal mare ed avete saltato la cena. La parte serale del festival è iniziata da meno di un’ora, vi sembra di essere gli unici ad essere arrivati così presto e vorreste solo tornare a casa e urlare in cirillico seduti in un angolo buio. Poi entrate nel forte e sentite delle vibrazioni che sembrano teletrasportate dagli anni 80 arrivare al vostro orecchio da destra. Le gambe hanno un sussulto, cercate con lo sguardo la fonte di quel canto di sirene ma ciò che scrutate all’orizzonte non vi regala appagamento. A lunghe falcate arrivate un po’ più in su e il vostro sguardo si posa inevitabilmente verso il basso: dentro al fossato del forte è stato adibito uno spazio che somiglia ad un grande corridoio di pietra con mura alte almeno 10 metri e 3 fronti di casse ordinatamente disposti lungo tutta la lunghezza della sala. Ai piatti il belga San Soda (con il quale avevate già deciso di consolarvi dopo la delusione della barca persa), di fronte a lui almeno 200 persone che stanno andando letteralmente fuori di testa. All’improvviso non vi ricordate nemmeno più il motivo del vostro malumore e vi fiondate dentro il Paradiso terrestre col timore di non riuscire mai più a riemergere da tutto quel ben di Dio. Ma dopo un po’ lo farete comunque, perché c’è parecchio altro da vedere!
Il resto delle sale è tutto racchiuso tra le mura di questa piccola fortezza medioevale ad eccezione di quella chiamata per l’appunto Outside the Fort, di dimensioni e concetto simile al The Clearing. Molte parti sono a cielo aperto con qualche piccola eccezione completamente al chiuso come il The Dungeon, spazio angusto situato dentro i corridoi della struttura, dove però obbiettivamente la puzza di piscio (grazie a tutti per la civiltà) ed il caldo causato dalla calca rendono molto difficoltosa la permanenza. Peccato davvero.
Da un punto di vista strettamente musicale, senza dilungarmi su chi ha fatto bene/male o mi è piaciuto o meno, mi sento di dire questo: mi aspettavo una divisione marcata fra artisti techno e housettoni/funkettoni. Addirittura gli stessi organizzatori avevano creato delle liste in base ai generi quindi tutto portava a pensare a due target musicali ben distinti e, nel bene o nel male, tutti i gusti avrebbero dovuto essere accontentati. Nell’effettivo, quasi tutti gli artisti hanno tirato fuori dal cilindro la loro parte più scura e underground, fino quasi a snaturare il loro suono. Sentire Will Saul caricare a testa bassa con tech house al limite della garage o Patrice Scott lasciare la deep in cambio di ripartenze furibonde e ritmi forsennati può anche far piacere a chi è venuto per la techno, ma io che personalmente attendevo con ansia anche i filoni musicali meno rudi sono rimasto un po’ spaesato in quanto non c’era più la certezza di sentire il vero suono di un artista. Menzione d’onore va fatta per i 3 Chairs, vero fiore all’occhiello della manifestazione, che facendo per quasi 9 ore il loro suono poliedrico senza (quasi) mai snaturarsi, suonavano talmente diversi dal resto della scaletta da apparire paradossalmente quasi “fuori posto” in un contesto simile. Non so se questa sia solo una mia opinione, ma ho notato davvero un tentativo costante di “forzare” quasi a voler accontentare la pista anche a costo di “tradirsi” un po’. Posso capire che un’ambientazione profondamente grezza come un forte medioevale e una popolazione in gran parte anglosassone possano richiamare suoni un po’ più ruvidi, ma se il prezzo da pagare per avere una pista sempre viva è snaturarsi…non so quanto il gioco possa valere la candela.
Quel che è certo è che questo Dimensions Festival si conferma uno dei punti fermi dell’estate, non solo croata ma europea e, seppur qualche miglioramento si renda necessario (su tutti un information point dove effettivamente sappiano qualcosa), credo francamente che un evento del genere possa rimanere una scelta obbligata per chiunque abbia una sana passione più per la musica nuda e cruda che per i fronzoli e le scenografie che spesso prevaricano altri aspetti ben più fondamentali (come, chessò, la qualità dietro la consolle) nel concetto moderno di festival open air. In Europa e non solo.