Non dovremmo mai incontrare i nostri idoli, dicono. Fregandocene altamente di questa regola siamo andati a conoscere uno dei nostri idoli, il dj che più di ogni altro con una normale compilation è riuscito a cambiare la vita a chi vi sta scrivendo queste righe. Con la scusa della prossima uscita, ovvero un album in cui remixa i maggiori successi degli Chic, siamo andati a conoscere quello che non si definisce “maestro” bensì un semplice “selezionatore” o “arrangiatore”. Abbiamo parlato di questo nuovo progetto ma anche di altro ancora, senza dimenticare quel capolavoro che è stato “A night At The Playboy Mansion” e tutto quello che ci è girato attorno.
Posso chiamarti maestro?
Se ti fa piacere, perché no? Però posso chiederti perché maestro?
Penso ad alcuni capolavori come “A Night at the playboy Mansion” o “Disco Forever”…
Non mi sento tanto un maestro, mi vedo più un selezionatore, o un arrangiatore; ma apprezzo il tuo complimento, grazie.
Per me intervistarti è uno dei momenti più “alti” da quando scrivo di musica. Ho sognato questo momento sin dalla prima volta in cui ho sentito “A Night at the playboy Mansion”. Avevi mai immaginato potesse avere un successo così clamoroso quella che, in fin dei conti, era una compilation?
No no, certo che no. Non è stata altro che una fortunata coincidenza. Eravamo a Miami con i ragazzi di Respect Is Burning per un party e i boss della location, molto imbarazzati, ci dissero che il club avrebbe avuto l’onore di collaborare per tutta la settimana con Playboy: ci chiesero se per noi era un problema suonare con i panelli di Playboy dentro il locale. Ricordo che la nostra risposta fu: “Se ci date una t-shirt di Playboy, per noi è ok“. Ci diedero la maglietta e ci presentarono queste due ragazze giovanissime del management di Playboy: non erano ex playmate o cose così, erano solo due bellissime pr di New York. Siamo andati a cena, e durante la cena ci raccontarono che Hugh Hefner aveva appena divorziato ed era pronto a ritornare in pista con un party alla Playboy Mansion. Dicendoci alla fine: “Sai, dovreste venirci a suonare. Ci basta giusto una buona ragione per farvelo fare, nulla più, per cui appena avete un album pronto chiamateci e facciamo il release party alla Mansion“.
E voi cosa avete risposto?
Il problema era che né io né i miei amici avevamo in progetto alcun album, comunque abbiamo risposto: “Facciamo qualcosa di speciale e facciamo questa festa, certo”. Da lì è successo davvero tutto in fretta: siamo tornati a Parigi e abbiamo subito pensato ad una compilation. Lo sai, secondo me se pensi a Playboy pensi alla disco; secondo me gli anni d’oro della Mansion erano i ’70: non ero lì in quel momento ma immagino fossero sexy, felici e con della buona disco music. A quel tempo questo tipo di selezione non era così popolare, ok, c’era Dj Sneak e i Daft Punk stavano per esplodere definitivamente, ma non era come oggi. La disco music non era la musica più popolare per un club, tutt’altro. Però diamine, eravamo da Playboy, potevamo fare quello che ci pareva, no? Ecco come è nato tutto: ho scelto della buona disco music, dell’ottima house music, ho fatto la selezione, l’ho fatta sentire a Mr. Hefner, a lui è piaciuta e via. Così è nata “A Night At The Playboy Mansion”.
E da lì il successo…
Sì, quasi subito, e praticamente a costo zero. I ragazzi della label gongolavano: è incredibile quanto sia piaciuto quel disco e quanto abbia viaggiato grazie a quella compilation, penso a posti come l’Australia o il Giappone. Il resto credo sia storia, ho davvero incontrato molta molta gente innamorata di quel disco.
Non ho intenzione di fare tutta l’intervista su “A Night At”, ma un’altra cosa te la devo proprio chiedere: mi racconti come è nato il break con “Talkin’ All That Jazz”, proprio quando stacca la musica e dice: “Stop!”. Lo trovo meraviglioso.
L’ho messa proprio perché dice “Stop!”. Guarda, io amo davvero fare sorprese mentre sto suonando; ho sempre stoppato la musica per farla ripartire poi con una sorpresa, con qualcosa di particolare. Adoro quel momento di smarrimento tra la gente, quando la musica si ferma e riparte, e sono tutti lì a gridare “Yeah, fool”. Il mio stile ha sempre previsto alti e bassi durante un set: se ascolti gli altri miei remix te ne accorgerai, ad un certo punto la musica si ferma, succede sempre.
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Parliamo del tuo prossimo lavoro: i remix dei pezzi più famosi degli Chic. E’ un pò come riscrivere la Bibbia. Quanto è stato complicato lavorare su pezzi così importanti e così famosi?
Questo è un lavoro che si è sviluppato in due tranche. La prima nel 2010, quando mi hanno chiesto di remixare 4 tracce: parlando con loro mi dissero che desideravano moltissimo mantenere lo spirito originale dei pezzi, non volevano stravolgimenti e mi dissero anche che secondo loro io ero l’unico che poteva fare una cosa del genere, aggiungendo “Prendi quattro canzoni, ci fidiamo di te!“. Lì mi sono trovato abbastanza in difficoltà, ho pensato “Solo quattro? e ora cosa scelgo?“. Però così ho fatto, per un boxset che credo sia uscito solo in Francia. Successivamente, ho continuato a remixare altre cose degli Chic ma solo per me, sai, per suonarli durante i set. Fino a quando con i ragazzi di Defected abbiamo pensato di fare uscire qualcosa di più. Ad ogni set la gente mi avvicinava e mi chiedeva: “Quando escono questi nuovi remix?”. A quel punto abbiamo dovuto cominciare a confrontarci con la major che tiene sotto contratto gli Chic e il loro materiale, major che ha rifiutato un paio di volte di concederci i diritti che ci interessavano. In effetti, se ci pensi, è normale: a loro interessa il successo in termine di vendite non tanto quello in termini di amore del pubblico. Alla fine, insistendo, provando ci siamo riusciti e solo ora realizzo di aver remixato la “Sacra Bibbia”, sì, come l’hai definita giustamente tu. Adesso comincio ad avere paura e a chiedermi: e se non piacciono? Se non suonano bene?
Davvero hai questo dubbio? Io lo vedo come uno step naturale nell’evoluzione della tua carriera, mi sembra molto naturale sentire che hai remixato gli Chic…
Di base amo la musica, quando amo molto molto qualcosa sento il bisogno fisico di remixarlo. Sai quando ascolti un pezzo in un album e cominci a pensare “Oh, vorrei sentire ancora quella parte di sax o ancora quel piano…”.
È difficile secondo te mettere le mani in qualcosa che è già così completo?
Sì, credo lo sia, ma dipende soprattutto da cosa hai in mente. Io seguo molto il mio gusto personale e penso a cosa vorrei sentire: come ti dicevo prima, penso a “quel” piano che potrebbe ripetersi perché sì mi piace molto; e penso che se invece a qualcuno non piace, beh, possono sempre tornare alla versione originale. È chiaro ci deve essere sempre una forma di estremo rispetto della versione da cui scaturisce il remix però, se ci pensi, è come nei film, dove esistono scene tagliate che non sono finite nella versione originale. Credo sia la stessa cosa. Si tratta solo di aggiungere qualcosa ad un elemento che c’è già. In fin dei conti, fortunatamente o sfortunatamente, sono un dj che vuole creare divertimento per la gente in un club. La mia missione è questa.
Mentre lavori pensi sempre alla possibile reazione del pubblico?
Sempre. Spesso faccio anche dei test. Mi basta vedere come reagisce la gente, per capire se un pezzo funziona o se è meglio lasciar perdere. Credo sia un approccio di lavoro diverso, nel senso che in realtà cerco prima di tutto di soddisfare il mio piacere personale, il piacere della gente che ascolta credo sia una conseguenza abbastanza naturale. Considera che molte delle canzoni che poi vengono pubblicate, magari sono anni che girano nei miei set; il fatto che poi escano ufficialmente, su disco, è un po’ una consacrazione, per questi pezzi.
C’è qualche regola non scritta che hai quando decidi se remixare o meno pezzi così famosi?
Solitamente ascolto molto la canzone. Molto. Chiaramente ci sono quelle in sede di scelt iniziale che scarto subito, perché non sono per me; mentre se ne trovo alcune che hanno delle potenzialità, magari un vocal o una melodia, in quel frangente mi chiedo sempre “Cosa posso aggiungere di mio a questo pezzo? Cosa può fare la differenza?” Specialmente adesso è molto più facile per me non farlo, non mettermi per forza a remixare; se lo faccio, è solo perché ci trovo qualcosa di interessante o di eccitante. Ma in realtà non è mai stato un discorso di mero business o di marketing. Talvolta amo l’artista, talvolta voglio provare qualcosa di nuovo.
Le tue produzioni si avvicinano molto la lato più fashion della dance music. Che rapporto hai, ammesso tu ne abbia uno, con il fashion system?
Ad essere onesti, me ne è sempre fregato ben poco del sistema moda. Essere fashion è una cosa che non decidi tu ma che viene sempre decisa da altri: ecco, non sono forme che mi interessano. Mi piacciono cose che visivamente possano risultare interessanti, e mi piacciono le cose fatte bene. Mi piace mettere tutte le energie perché una cosa sia fatta nella maniera migliore possibile. Mi piace vedere che ancora, dopo tutti questi anni, con Defected abbiamo una visione similare della musica… non la stessa, ma molto simile. Ho sempre un’opinione personale, e mi piace circondarmi di persone che hanno la mia stessa visione. Immagina la stessa cosa con i tuoi amici: sicuramente ci sono amici con cui condividi le stesse passioni ed altri che invece le trovano terribili, è un fatto naturale credo.
Cosa ne pensi di questo lato edonista tipico di chi ascoltava disco music? Secondo te c’è ancora?
Inizialmente la disco music non era musica fatta per suonare nei club; arrivare nei club è stata la sua naturale evoluzione. Inizialmente sono stati alcuni gay club che se ne sono appropriati, perché suonava bene per loro. Considera che inizialmente vi erano dei contenuti fortemente religiosi nella disco music: immagina queste persone quando si sono trovate i loro pezzi in quel tipo di club! Successivamente è cambiata la formula, si è evoluta, mi piace l’idea di questa complessità che si è sviluppata col tempo: perché c’erano degli arrangiamenti davvero complessi, a quei tempi, in un tipo di musica messo a disposizione di tutte le persone, senza distinzioni, che potevano quindi avere le reazioni più disparate. Voglio dire, non si trattava assolutamente di musica stupida; ma di certo non andava a toccare le persone più intellettuali. O almeno, non per forza.
Cosa ne pensi di questi nuovi generi tanto di moda ora? In Italia ad esempio il nuovo trend è la trap, un genere che o ami o odi. Te lo chiedo perché a suo modo anche la disco music al tempo fu fortemente criticata, ricordo ad esempio tutti quei dischi distrutti in uno stadio di baseball durante la famosa “Disco sucks”…
Sempre, ciclicamente, nell’offerta musicale è arrivato qualcosa di molto, molto semplice da ascoltare o da ballare. Credo che il punto sia tutto qui: non ci vedo un grandissimo problema. Io credo che la musica debba essere divertente: che sia trap o disco l’importante è che sia divertente e non troppo complicata, personalmente non mi interessa ad esempio produrre disco music solo per i diggers che dicono “Oddio quel pezzo è introvabile, ce l’ho solo io” e poi magari hanno la fidanzata che gli dice “Hai speso ancora tutti i tuoi soldi in quei maledetti vinili?”. Mi piace fare musica alla portata di tutti, sia per il digger cioè che per la sua fidanzata; e la stessa dinamica credo dovrebbe essere applicata a tutta la musica che viene prodotta in giro.
(foto di Jamie Baker)