C’è un cortometraggio di Nanni Moretti, del 1996. Si intitola “Il giorno della prima di Close Up”, cercatelo su YouTube. C’è lui che fa la caricatura di se stesso, in pratica. Va al Nuovo Sacher, il suo cinema, e si assicura che tutto sia a posto per la prima del nuovo film di Abbas Kiarostami, spaccando prevedibilmente il capello in quattro con i dipendenti della sala. Il massimo arriva nella discussione con il ragazzo che, nella libreria, sta sistemando vicini i libri dei “giovani scrittori italiani”. Non va bene, a loro da molto fastidio. “Ma giovani…” dice quello. E Moretti: “Sotto i cinquantacinque anni”. Sarà anche per questo, per come funzionano male nel nostro paese questi parametri, che ci stupiamo così tanto quando qualcuno di veramente giovane fa qualcosa di buono? E quando esattamente uno è veramente giovane, fra l’altro? Dobbiamo meravigliarci del fatto che Guy e Howard Lawrence, ventidue e diciannove anni rispettivamente, abbiano tirato fuori un album del genere? O al contrario: se uno non li fa a vent’anni, i bei dischi, quando cazzo li fa?
Quello dell’età non è l’unico luogo comune da recensore che viene in mente ascoltando “Settle”, dopo mesi passati aspettando “Settle”, mentre eccitazione, hype preventivo e relativo hating preventivo montavano grazie a un singolo da classifica come “Latch”. Che ne dite di “fosse tutta così la musica da classifica”, del più localista “beati gli inglesi che almeno in classifica hanno i Disclosure, noi abbiamo Ramazzotti”, del sempreverde “provateci voi a fare un disco che vada in classifica, se vi pare facile”, del sempre utile “è roba già sentita ma è fatta benissimo, e ha un che di nuovo”? Beh, considerateli tutti veri, ma non fatevi incastrare dal solito discorso del male minore, alle elezioni come in cuffia. Non serve. Perché possiamo stare qui ore a decidere se i Disclosure siano un bluff destinato ad esaurirsi nel giro di qualche stagione o invece qualcosa che passerà alla storia, e a misurare quanto siano derivativi di generi che noialtri abbiamo vissuto prima e più intensamente rispetto a gente che all’epoca aveva dodici anni, o non era manco nata. Ma restano i fatti, e quelli dicono che “Settle” sta in piedi da solo come un signor album, declinazione perfettamente riuscita di stili dance underground e potenzialità pop, collezione di canzoni una più riuscita dell’altra (o quasi), ottime per la pista come per l’ascolto in qualunque situazione. Ascolto che scorre liscio e gratificante, e si ripete. Per chi scrive, meglio di quelli di Katy B, Jamie Woon e Jessie Ware, per dire di ibridi analoghi. Roba orecchiabile e canticchiabile, certo. Roba mainstream. Ma un bel giorno dovremo pure deciderci al riguardo: è merda per partito preso, o è merda perché vi si sente musica di merda? E allora perché quando musica bella e nostra riesce ad arrivarci (o viene creata con l’intento esplicito di arrivarci, lo concediamo), non siamo contenti? O il problema è l’apparente saltare sul carro del revival UK garage/2-step in corso? Magari il risultato fosse sempre di questo livello.
L’inizio, l’intro che diventa “When a Fire Starts to Burn”, è fulminante: il discorso campionato di Eric Thomas, motivatore e autodefinito “predicatore hop hop” statunitense, piazzato su un ponte di jack steso fra Londra e Chicago, ha un effetto dirompente. Cose così non le si improvvisano. Cose così, arpeggi da acid vecchia maniera e swing britannico anni ’90, ricorrono: più apertamente nell’aggressiva “Grab Her!”, più dissimulate ma non meno efficaci nell’altro singolo killer “White Noise” (alla voce Aluna Francis degli AlunaGeorge), nella bassline dell’incalzante “Stimulation”. Altrove, sono invece le vibrazioni bass contemporanee a prevalere: il basso gorgoliante di “Latch”, quello gommoso fra gli svolazzi sognanti di “Voices”, la tensione latente di “You & Me” (con la stella pop Eliza Doolittle del tutto a suo agio), i toni grime dell’eccellente “Confess to Me” (con Jessie Ware), le voci pitchate di “Second Chance”, la seta soul urbana di “January” (con Jamie Woon) e “Help Me Lose My Mind” (con Hannah Reid dei London Grammar, segnarsela/li). Altrove, si parla invece un linguaggio house romantico universale, come in “F for You” o “Defeated No More (con ed McFarlane degli indie-rockers Friendly Fires). Dappertutto domina un’aria di naturalezza e di nessun apparente sforzo rara. Giovani di merda.