Ormai è chiaro: finiremo questa stagione invernale senza andare più nei club. Anche col migliore dei decorsi della situazione CoVid-19, considerando una inevitabile coda lunga di un mese, un mese e mezzo è praticamente certo che per quanto riguarda il clubbing al chiuso se ne riparlerà ad autunno (se tutto va bene). Questo significa che tutte le realtà imprenditoriali coinvolte nel 2020 perderanno almeno metà dei loro guadagni: i proprietari dei club, certo. Ma anche gli artisti (ok, per alcuni è un danno risibile, per altri però proprio no). O i management, le agenzie. I promoter, ovvero chi più si sobbarca il rischio d’impresa. Ma soprattutto creativi, tecnici, baristi, personale di sicurezza – per questi ultimi la rete di sicurezza spesso e volentieri è pari a zero, contavano sulla routine lavorativa per vivere la propria vita, sopravvivere, ed ora tutto va in fumo. Che poi: anche per chi ha da parte risorse, o mura, o licenze da rivendere, ovvero chi sta in cima alla catena dell’organizzazione, il colpo è durissimo: già da anni il mondo della notte non era più il Bengodi dove il guadagno era certo&abbondante, ma una lotta per la sopravvivenza tra fidi in banca, anticipi difficili da anticipare, ritardi nei pagamenti. E quando si sta a filo, un’onda ti può travolgere e far annegare.
..e l’onda del Coronavirus, purtroppo, è bella forte. Molto più forte di un calo di fatturato del 20%, di “…la gente consuma sempre meno al bar”, di “questi dj costano sempre di più” (che sono problemi reali, eh, non noccioline, che già da soli stavano mietendo vittime). Senza girarci tanto attorno: l’intero settore – e speriamo anche che con l’estate si possa riprendere ad operare, a regimi accettabili, vorrebbe anche dire che il peggio è decisamente alle spalle per tutti come emergenza sanitaria – da questi mesi di lockdown uscirà devastato.
Ma non sarà l’unico. Questo è il punto. All’inizio, quando l’emergenza del Coronavirus pareva emergenza sì ma non troppo, si era pensato che il compartimento della cultura e dell’intrattenimento poteva essere un’utile e comoda “vittima sacrificale” da dare in pasto al sistema senza troppi danni: blocchiamo le cose “inutili”, quelle legate alla cultura e alla socializzazione, continuiamo a produrre come nulla fosse e dai, tutto andrà bene. Non è “andato bene” per un cazzo, invece: a dimostrazione di quanto questa visione fosse in realtà miope e strabica. Lo sarebbe stata, miope e strabica, se il contagio del Coronavirus in Italia ed Europa fosse stato marginale, lo è in maniera ancora più evidente ora che il CoVid-19 non ha guardato in faccia a nessuno (…ehi ciao, Boris! Come va il “gregge”?) e ha attaccato tutti i gangli vitali e produttivi della nostra società. Ora sono chiusi i negozi (come sopravvivono proprietari e commessi?), sono chiusi bar e hotel e ristoranti, i grandi agglomerati commerciali se aperti non hanno più clienti, e se la GDO non ha più clienti i grandi produttori di merce e servizi hanno fatturati a picco, e se li hanno a picco devono licenziare, se sei licenziato non hai più una lira e non sarai certo tu a far ripartire l’economia… eccetera eccetera eccetera. Siamo nella merda tutti. E chi ha al momento uno stipendio fisso e un contratto a tempo indeterminato, oppure una rendita, non si senta al sicuro: quello in arrivo potrebbe essere uno tsunami che va anche ad intaccare diritti garantiti. Nessuno può sentirsene al di sopra.
Quindi? Che dobbiamo fare? Iniziare a disperarci? Piangere ognuno per la propria sorte e per quello che perde (o ha già perso, o perderà)? E vedere chi piange più forte?
No. Zero. Se lo Stato Italiano e l’Europa hanno il potere ma soprattutto il dovere di far ripartire le cose (vediamo se saranno in grado) con adeguate politiche monetarie e di supporto all’impresa così come all’emergenza sociale, toglietevi dalla testa l’idea che sarà un contributo statale o sovranazionale a risolvervi tutti i problemi impellenti e a far tornare tutto come era prima.
Specificatamente, tornando al “nostro” mondo, quello del clubbing e delle discoteche (e sulla distinzione tra queste due sfere, torneremo a breve), lasciate perdere la speranza che saranno dei contributi a pioggia a levarvi d’impaccio. Certo, rimandare le scadenze fiscali sarà il minimo; aprire o allungare le linee di credito bancario sarà vitale; ma nulla di tutto questo darà la garanzia che tutto possa tornare come prima, come se nulla fosse successo. Soprattutto, è puerile pensare di avere più diritti degli altri, nel momento in cui un intero sistema economico è entrato in sofferenza forzata. Oddio, è puerile ma qualche volta paga: se c’è una distribuzione disordinata di generi d’aiuto, spesso se la passa meglio chi più piange, più urla e più scavalca la fila. Brutto? Brutto. Vero? Sì purtroppo, verissimo.
Ma sapete che c’è? In tutti questi anni cultura e intrattenimento sono sempre stati ignorati dalle istituzioni, e sono sopravvissuti comunque. Ora la lotta deve diventare farsi prendere sul serio dalle istituzioni: sarebbe bello pensare di riprendere ora, magari con gli interessi, tutto quello che è stato economicamente negato come sostegno in tutti questi anni (o dato solo agli enti lirici et similia), ma non è il momento di sognare. Siamo tutti nella merda, ricordate?
In tutti questi anni cultura e intrattenimento sono sempre stati ignorati dalle istituzioni, e sono sopravvissuti comunque
Che fare, quindi? Al di là dei singoli provvedimenti “tecnici” (sgravi fiscali, legacci amministrativi), su cui comunque sarà doveroso fissarsi a breve e scornarsi con chi di dovere, c’è da ricostruire un’immagine del comparto nel suo complesso. Anzi, prima ancora c’è da sanare una grande e grave frattura: quella fra clubbing e discoteche. L’Italia ha visto una esplosione di discoteche e locali da ballo in decenni ormai passati; c’è chi resiste, c’è chi resiste anche bene, e chi ha resistito sono operatori con una grande resilienza e quindi anche con delle indubbie doti e qualità che sarebbe un peccato non venissero sfruttate e condivise. Al tempo stesso, chi è appartenente a questa “generazione storica”, a lungo o si è fatto spaventare o semplicemente non ha avuto nessuna forma di interesse per ciò che è nato a partire dagli anni ’90, ovvero il clubbing: esperienze che invece di guardare al modello tradizionale e “anni ‘80” delle discoteche hanno proposto dei linguaggi alternativi a livello di musiche, di impostazioni architettoniche delle venue, di modello di divertimento, di comunicazione, di relazione sociale, guardando in primis alle esperienze europee più innovative invece di rinchiudersi in un “eterno presente demichelisiano” dove si immagina che il modello-discoteca sia, in fondo, sempre quello, sempre tavoli, bella gente e champagne, sempre le hit paracule del momento.
Certo: col tempo si sono strutturate anche delle formule miste. Realtà nate dal clubbing per monetizzare hanno finito coll’adottare molte metodologie (tavoli, bella gente e “sciampagna”) della vecchia discoteca: un po’ perché massimizzavano gli investimenti, un po’ perché l’Italia è un paese sclerotizzato dove spesso anche i giovani (o aspiranti eterni giovani) si vestono sì da ventenni ma pensano come i loro genitori e pretendono gli status symbol che piacevano ai loro genitori. Ma al di là di questo, è indubbio che c’è una frattura verticale fra il mondo rappresentato dal SILB (permetteteci la semplificazione, gli addetti ai lavori capiranno) e chi invece è venuto fuori a metà anni ’90 e primi anni 2000 guardando a Londra o Berlino (…chi guarda ad Ibiza, invece, spesso finisce col puntare al modello “misto” di cui si parlava un attimo fa; però col cuore si sente di appartenere comunque al 100% alla generazione “nuova”, ovvero quella del clubbing, non quella di Paradiso, Baia Imperiale e dei professionisti di grido in giacca che sbocciano ed escono mazzette di banconote a nastro che fanno quadrare i conti di tutti, ascoltando musica facilona infiocchettata da un vocalist piacione che gigioneggia e chiama in console Vieri o la Leotta o un tronista per un saluto).
E’ una frattura che è stata, fin dal suo inizio, traumatica. Chi non si è sentito rappresentato dalla “discoteca”, così come era intesa in Italia, ha fatto di tutto per distanziarsene e non volerci avere nulla a che fare. Giusto, per mille motivi. Come dargli torto? Perché con la scusa che era “mondo del divertimento”, molte discoteche hanno messo a zero ricerca, innovazione, coraggio stilistico ed estetico, con l’idea implicita od esplicita che “…tanto è solo divertimento, non sono pugnette culturali”. Chi invece si è sentito di far parte di una “club culture” (ehi, “culture” c’è anche nel nome) magari l’ha fatto anche solo per darsi un tono nel farsi le raglie di chetamina in bagno e rimorchiare la squinzia o lo squinzio, ok, ma comunque questa esigenza di cultura, di innovazione, di sperimentazione a parole o profondamente nei fatti l’ha vissuta e portata avanti. Per tutti costoro, la “discoteca” era (è) il nemico. Il passatismo. L’immobilismo. Il male. Poi magari andavi all’Amnesia ibizenco e, pur vestito di nero in cannottiera con le sneakers, ti comportavi come l’ultimo dei De Michelis minori; ma comunque ti sembrava di far parte di un’altra squadra, di un’altra generazione, di un’altra visione del mondo.
Bene. E’ giunto il momento di ricomporre questa frattura. E’ giunto il momento di mettere in condivisione conoscenze, competenze, esperienze: siamo in crisi, siamo nella merda, l’unico modo per venirne fuori è unire le risorse a disposizione. E superare vecchi steccati. Se pensiamo che sarà lo Stato a risolvere i nostri singoli problemi, siamo fuori strada: non ne sarà capace, non ne avrà le risorse. Certo: ci può e deve aiutare. Ci sono cose specifiche assolutamente da chiedere. Ma prima deve esserci un cambio di passo nell’intero comparto e, appunto, una divisione d’intenti e d’identità da assorbire.
Siamo in crisi, siamo nella merda, l’unico modo per venirne fuori è unire le risorse a disposizione
Cosa può dare la “vecchia guardia” ai nuovi? Può dare la capacità di consorziarsi, può dare ad esempio il SILB (che resta l’interlocutore più credibile, agli occhi delle istituzioni); può dare l’esperienza di esser sopravvissuto per decenni ai marosi peggiori (anche se nessuno grave come il Coronavirus); può dare la maturità dei cinquanta, sessant’anni, una maturità che resta un bene prezioso perché si porta dietro una acuita sensibilità e consapevolezza sulla necessità di “resistere” e del durare nel tempo. E cosa invece possono dare i nuovi alla vecchia guardia? Tanto. Ma devono intanto decidere di condividerlo. E di non tenerselo per sé.
Possono dare la consapevolezza, da tempo negletta nel mondo delle discoteche tradizionali per l’idea facile (e facilona?) che “tanto la gente è di bocca buona”, che è importante essere aggiornati culturalmente e capire cosa succede in Europa e in giro per il mondo; possono dare la forza di sentirsi parte di un network, di un movimento sociale (ehi, Ibiza o il Kappa o i festival europei o Club To Club o altre cose simili spostano numeri veri, seri, grossi, e lo fanno proponendo tutte cose assolutamente non mainstream, quindi non è vero per un cazzo che la gente la sposti sempre e solo con la solita sbobba); possono farti capire che chi non si rinnova muore o comunque se la vive progressivamente sempre più male; possono farti capire che lo “spirito di appartenenza” col proprio pubblico di riferimento non si crea spillandogli più soldi possibile e trattandolo da simpatico caprone al pascolo, ma cercando un discorso ed un alfabeto comune, da pari a pari, dove l’idea è quella di una crescita reciproca, non dello svacco lobotomizzato eletto a valore.
Che poi, pure chi sta fra i cosiddetti “nuovi” non è più un ragazzino. Ha un’età. Ha responsabilità. Nei primi anni del clubbing eravamo tutti dei kamikaze, facevamo cose senza nemmeno sapere bene cosa stessimo facendo (ed erano bellissime, eh), questo perché stavamo attraversando un terreno nuovo, vergine, eccitante, inesplorato. Oggi di nuovo e vergine non c’è più nulla, manco se hai vent’anni ed inizi ora ad organizzare serate semi-legali. C’è invece anche nel cosiddetto “underground” un’architettura di lavoro che è decisamente legata al business e alla responsabilità imprenditoriale. Anche noi “nuovi”, pure se non ce ne siamo accorti o non ce lo vogliamo dire, siamo insomma diventati “discoteche”, siamo diventati “localari” o, se pubblico e non addetti ai lavori, siamo diventati “clienti” e “consumatori” e non più una cricca alla ricerca del nuovo, del proibito, del mistero. Certo, lo stiamo facendo con un alfabeto contemporaneo, ok, ma la realtà è questa.
Perché allora non iniziare ad unire le forze? Perché non tornare a parlarsi di più e meglio (perché in realtà ci si è sempre parlati, almeno un minimo, per quanto male)? Perché non concordare insieme una linea d’azione, anzi no, prima di tutto una linea di presentazione in cui si sottolinea una cosa sacrosanta e che continua ad essere negletta, a furia di portare avanti ancora il modello vecchio delle “discoteche”: che il mondo della notte e del loisir notturno è una serie di cose che in questo momento, in questo momento esatto di crisi e merda per tutti, sarebbero in potenza delle risorse enormi.
Quali? Oh, ecco un elenco, eccolo. Leva microeconomica: spingere le persone a tornare ad investire per il proprio divertimento e per le proprie passioni è una leva formidabile per far ripartire l’economia, ed immettere una visione pro-attiva nei confronti del futuro che porti la gente a non tenere i soldi nel materasso ma ad investirli o re-investirli. Leva logistica: qualificare o riqualificare stabili, e/o portare dei contenitori attrezzati utili per la collettività (nota bene: in questi tempi di crisi, il Social Music Club milanese ha messo a disposizione le sue strutture – il suo enorme tendone e i rinnovati spazi di hospitality – al Comune di Milano e alla Protezione Civile). Leva sociale: uscire a ballare, a vedere un concerto (così come a vedere una mostra o un film) crea coesione sociale, utile come non mai in una fase dove invece c’è il rischio del tutti-contro-tutti visto che la crisi colpirà duro. Leva culturale: far capire che il loisir notturno è anche in discorso culturale che travalica confini e nazioni e genera condivisioni e sinergie è importante per evitare che ci rinchiudiamo, incattiviti, nei nostri confini, rendendo ancora più atrofizzata la nostra situazione anche economica. Leva d’immagine: uno dei capitali d’Italia è storicamente stato quello delle idee e dello stile, e il clubbing – ci sono più indicatori a sottolinearlo – è uno dei primi collettori delle tendenze e risorse emergenti nel campo delle idee e dello stile.
Non ci sentiamo dei poveri, spauriti panda che senza ombrello delle istituzioni e delle sovvenzioni ministeriali non riusciamo a fare un passo
Tutto questo a costo zero. Non siamo un ente lirico che senza mega-sovvenzioni non stiamo in piedi. Non siamo un evento pubblico da fare gratis finanziato al 100% dalle istituzioni in piazza, sennò non si fa. Non ci sentiamo dei poveri, spauriti panda che senza ombrello delle istituzioni non riusciamo a fare un passo (…anzi, negli anni i passi li abbiamo fatti nonostante le istituzioni; ma questo meglio non dirlo, non è questo il punto, o almeno non lo è in questo momento in cui tutti sono nelle pesti, inutile fare la gara ora a chi è più Calimero). Non abbiamo paura. Possiamo fare del bene, possiamo fare bene, possiamo diventare – unendo tutte le leve di cui sopra – un fattore macroeconomico significativo, nel far ripartire le cose. Non è che le istituzioni “devono” ascoltare, il mondo del clubbing e delle discoteche (finalmente unito, e che ha fatto i conti al suo interno con questa divisione storica ricomponendola); il punto è che alle istituzioni questo mondo proprio conviene ascoltarlo. Conviene. E’ un buon affare. Per tutti.
Si tratta di far capire che il loisir notturno non è solo problemi di ordine pubblico, non è solo un ricettacolo di drogati, non è solo un palcoscenico per perditempo, è invece anche una risorsa. I problemi di ordine pubblico ci sono (come in qualsiasi luogo d’aggregazione, anche dei più pacifici); i drogati ci sono (come ci sono allo stadio, in nei bar, nelle case, nelle strade); i perditempo non mancano (ma vogliamo veramente dire che ci sono solo in discoteca o nei club e non nei luoghi di lavoro pubblico o privato, o nei gangli dell’amministrazione locale o nazionale?); ma complessivamente, un mondo dell’intrattenimento e della cultura notturno è una risorsa di non poco conto, a maggior ragione per riuscire a ripartire in condizioni, come le attuali, in cui a prescindere sarà difficilissimo ripartire e per riuscirci bisognerà ingegnarsi non poco, le vecchie ricette rischiano di essere tutte inefficaci.
Stiamo per entrare nell’ignoto. Ma non è il momento di avere disperazione e panico, non certo per robe di clubbing e discoteche
La prima cosa da fare è rendersi conto noi, al nostro interno, di tutto ciò, di tutta questa situazione storica che stiamo attraversando e del ruolo, centrale, che potremmo giocarci. Spesso marciamo in ordine sciolto. Spesso partiamo dal presupposto che tanto si è sempre soli a combattere contro i mulini a vento. Spesso si parte dal presupposto che i vecchi discotecari non capiscono un cazzo e i giovani sono degli snob con la puzza sotto il naso giusto ricchi di famiglia. Spesso poi si è fatto il ragionamento che “…meglio non rompere i coglioni lì in alto, così almeno posso fare un po’ di nero e faccio quadrare i conti”, vero? Solo che ora i conti rischiano di non quadrare più per nessuno. Unirsi. Rimettersi in ordine. Fare gruppo, fare quadrato, nel rispetto delle diversità specifiche ma capendo che si è sulla stessa barca, perché nuotando da soli si affonda. Ok, ma tutto questo per ottenere cosa?
Qua entriamo più nel tecnico. Potremmo entrare su quanto è necessaria la riforma dell’articolo 100 del TULPS (una legge, ricordiamolo, varata in epoca fascista ma ancora oggi effettiva); su quanto le regolamentazioni di sicurezza siano spesso fuori dalla realtà e comunque non allineate con gli standard europei per eccesso di severità; su quanto la tassazione sia iniqua; su quanto le limitazioni d’orario siano cieche o meno. Ma tutte queste cose, se si prende coscienza che è un problema collettivo per tutto il settore e non solamente un modo per “far vedere che ci siamo, che non vogliamo essere dimenticati dallo Stato” per chi è abituato a ricevere piccole mance o pacche sulle spalle dalle istituzioni, ecco, tutte queste cose assumono tutto un altro sapore.
Ci ritroveremo in mezzo alle macerie, quando il lockdown finirà. Quanti club saranno rimasti in piedi? Quanti festival? Quante etichette? Quanti management? Quante agenzie? Gli artisti di maggior successo pensano davvero che potranno mantenere le richieste di cachet che avevano prima? Quanto e in che modo la gente potrà e vorrà ancora andare a divertirsi? Rispondere a tutte queste domande implica un’unica pre-condizione: stiamo per entrare nell’ignoto. Ma non è il momento di avere disperazione e panico, non certo per robe di clubbing e discoteche. E’ il momento di riscoprire collaborazione e solidarietà. Ognuno nel suo. Poi, per la competizione, ci sarà sempre tempo.