Non è certo la prima volta che, nelle fasi di pausa, satelliti si distaccano dall’orbita-Subsonica: di Krakatoa e Motel Connection si è parlato per anni, di Boosta come dj (o presentatore, o scrittore, o pilota d’aereo, o…) pure, Ninja si è fatto un nome nella scena italiana come dj drum’n’bass e ha dato vita al solido progetto live LN Ripley, Max Casacci ha fatto da produttore per vari dischi senza contare la raffinata avventura Deproducers. Quindi ecco, la comparsa sulla scena del progetto-a-due Demonology HiFi, portato avanti dal Casacci e da Ninja, non è nulla di dirompente come notizia, non significa che i Subsonica non esistono più, non è la fine del mondo, e ha anche meno portata del Samuel che vuole lanciarsi nel pop a tutto tondo col suo progetto solista. Però poi vai a sentire “Inner Vox”, l’album partorito dal duo, e drizzi le orecchie: non è una cazzatiella. Non è l’hobby di due musicisti arrivati e contenti che devono far passare il tempo prima di riprendere a lavorare sul moloch-Subsonica facendo, massì, qualcosa di “ggiovane”, minimo sforzo massima resa e grande simpatia, così siam tutti contenti. Effettivamente c’è molto di più. C’è una intensità “vera”, in “Inner Vox”; un coraggio non scontato, una qualità sonora che ti viene solo se lavori duro e studi parecchio. Onestamente? Eravamo scettici. Perché arrivati all’età e al ruolo di Max Casacci e Ninja, spesso la voglia di lavorare duro e studiare parecchio ricominciando da zero si polverizza, diciamolo chiaramente, ed è umano, non c’è nulla di male. Non stavolta però. C’è tanto spessore. Tanta intensità. Tanta qualità e stile. Ce n’è anche in questa chiacchierata, che abbiamo fatto a pochissimi giorni dalla release ufficiale del disco, arrivata il 20 gennaio 2017. Buona lettura; perché è una buona lettura.
Partiamo dalla domanda più semplice e banale, ma visto che si tratta di un progetto al suo esordio vi tocca, tocca pure a voi che avete un’esperienza e un curriculum infinito: come nasce questo progetto?
Ninja: Negli ultimi tempi io e Max abbiamo avuto più volte occasione di condividere una console, trovandoci a fare i dj insieme. Ci siamo subito trovati in totale sintonia su una cosa: il senso del lavorare assieme, se ci si provava davvero a farlo, doveva essere lo sperimentare accostamenti strani, sorprendenti, anche irriverenti, uscendo da qualsiasi forma di binario prestabilito di genere. Abbiamo quindi iniziato a mixare tra loro tracce neurofunk con, che so, “Black Dog” dei Led Zeppelin passando per un sample vocale di un predicatore biblico o qualcosa dei Depeche Mode… tanto per darti un’idea… sempre ovviamente cercando di dare un senso a tutto, con un approccio da dj, questo significa che al tuo set devi comunque dare un minimo di coerenza ed efficacia. L’efficacia però la puoi avere anche battendo strade non scontate, ecco, questo è quello che volevamo dimostrare – e che oggi comunque non ti capita di sentire così spesso.
Che poi mi fa quasi strano, Ninja, considerando che il tuo background da dj arriva da una delle scene più rigorose, pure e monolitiche, quella cioè della drum’n’bass…
Ninja: Verissimo. Ho iniziato come dj prettamente drum’n’bass, giusto. In una scena ben definita, dei canoni piuttosto rigidi. Ma questa specie di “corso di specializzazione” iniziale mi è servito eccome: è stato fondamentale nella mia formazione. Però una volta che ci si ritrovava a fare un progetto a due con Max fin da subito si è manifestata chiara l’intenzione di provare a fare qualcosa di diverso, spezzando qualsiasi binario di genere. Lo step successivo del nostro progetto in comune è stato quando abbiamo deciso che, per arricchire ulteriormente il set, ci sarebbe stato bisogno di “raccordi” specifici che potevamo e dovevamo creare in prima persona: qualcosa che fosse funzionale a tenere alta la tensione in pista, ma con soluzioni melodiche ed armoniche particolari visto che quello che facevamo noi era atipico – non era quindi possibile usare nessun tool di quelli già pre-esistenti nei vari generi da dancefloor. Questa prime “creazioni” del progetto Demonology hanno avuto una gestazione molto lunga: prima le facevamo nascere, poi le facevamo provare il dancefloor, da lì tornavamo a fare tutti gli aggiustamenti del caso che ci venivano suggeriti dai comportamenti della pista, poi eccole di nuovo sul dancefloor, modificate… Ad un certo punto ci siamo resi conto che avevamo accumulato davvero molto materiale: un materiale interessante, particolare, dal DNA molto contaminato. Materiale a cui abbiamo provato a dare un filo comune, espandendolo, migliorandolo, e su cui in molti casi abbiamo voluto anche chiamare degli ospiti per dare ulteriori colori – ospiti in grado di confrontarsi con della musica così “mutante”.
In effetti, mettendomi nei panni degli ospiti dell’album, non avevano un compito semplicissimo: quella di Demonology non è a prima vista una musica di facile lettura o almeno catalogazione.
Ninja: Esatto. Tanto più che praticamente tutti invece di poter creare da zero assieme a noi si sono trovati ad affrontare del materiale pre-esistente, che avevamo cioè già in parte assemblato. Solo Populous è partito dall’inizio assieme a noi. In ogni caso, per tutti il mandato era di lavorare in piena libertà, cercando le più totali naturalezza e spontaneità. Tipo, Cosmo ha avuto l’intuizione di provare a fare una specie di rap, qualcosa che non aveva mai fatto prima ma che aveva voglia di provare a fare, e noi l’abbiamo subito incoraggiato; a Birthh è venuto in mente di fare un canone con sei linee vocali sovrapposte, e nei le abbiamo detto “Fallo!”; e così per tutti gli altri. Nessuna restrizione, massimo incoraggiamento. Il filo conduttore del disco ha preso a prendere forma di fronte ai nostri occhi passo dopo passo, mantenendo questo approccio. Un filo conduttore fatto di tensioni, fatto di dialoghi fra alfabeti e stili diversi, e tra l’altro questa tematica è emersa in modo naturale anche nei testi delle parti vocali, con i vari guest che erano liberi di svolgere il tema nel modo che preferivano, non è stato Max infatti a scrivere i testi. Ad un certo punto, ci siamo accorti che avevamo un album fatto e finito. Questa è stata la genesi di “Inner Vox”.
Non avete iniziare a lavorare con già l’obiettivo chiaro di completare un album, quindi.
Ninja: No.
Ma lavorando e andando avanti vi è mai venuta la paura che steste inseguendo troppe direzioni e, quindi, nessuna? Perché può succedere… questa trappola può scattare.
Max Casacci: No. Non ci è mai venuta questa paura. Io personalmente, come produttore nel progetto Subsonica e non solo in quello, sono abituato a separare le varie fasi di lavoro, non è per me una novità o una cosa strana: ci sono la fase in cui le idee vanno buttate fuori di getto, quella successiva in cui vanno lasciate decantare o al contrario sovrapposte, poi la fase in cui tutto deve essere rielaborato con calma e reso solido, consistente. Per me tutto questo è normale, non è un processo che mi scompone o mi spaventa. Non c’è mai stato nessun tipo di ansia. C’erano solo delle coordinate da seguire, pre-fissate. Una di queste era: no alla cassa dritta.
Coordinata tassativa?
Max Casacci: Abbastanza. Non perché la cassa dritta non ci piacesse, ma volevamo trovare una nostra precisa identità, e mettere un paletto del genere ci aiutava a focalizzarci su qualcosa di particolare, di non convenzionale, tenendo a mente che in ogni caso una omogeneità di fondo doveva esserci pur in questa volontà di spaziare. Come raccontava Ninja prima, confermo che tutti gli ospiti hanno avuto completa libertà. Tutti, tranne uno: Bunna degli Africa Unite. “Io ti do un pezzo da fare”, gli ho detto, “ma tu devi cantare in forma di dub poetry”: cosa che lui non vuole fare mai, anche se gli riesce maledettamente bene (ride, NdI). Il suo è un brano con un impasto sonoro techno ma senza la cassa dritta a fare da architrave – lui c’ha messo sopra un recitato molto bello, teso, quasi monocorde, senza quelle spezie in salsa reggae, che ti portano ad avvicinarti alla forma del toasting, ma cercando invece un effetto più ipnotico, dub poetry appunto, qualcosa alla Linton Kwesi Johnson (…un artista pazzesco, lui declama cose al microfono e tu ti ritrovi a ballare anche se la musica non c’è più, c’è solo lui che parla, da quanto sa trasportarti con la sola voce in una dimensione parallela). Insomma, al contrario di tutti gli altri, Bunna è stato obbligato a fare quello che volevamo noi, lui e solo lui. Ovviamente all’inizio ha provato ad opporsi; ma poi si è fatto appassionare dalla cosa, declinando a modo suo nel testo anche lo spunto che gli avevamo dato, quello della lotta tra dualità, dei dialoghi interiori. Tra l’altro, questo pezzo è in assoluto uno dei meno immediati e meno accessibili di “Inner Vox”: ed è esattamente per questo che l’abbiamo messo proprio in apertura. Il suo compito è creare una sorta di “selezione all’ingresso”. Se ti approcci a questo album di Demonology pensando che sia un divertissement, una cosa facile e leggera, beh, questa traccia ti fa subito capire che le cose stanno in un altro modo. E’ un disco ambizioso, “Inner Vox”, sia dal punto di vista musicale che da quello testuale.
Quella di dj e quella di producer sono due identità in realtà non così facili da armonizzare. Certo, oggi è scontato e quasi inevitabile fare entrambe le cose: anzi, spesso una è forzatamente in funzione dell’altra, se vuoi fare da dj e avere un buon numero di date tendenzialmente è meglio se sei attivo il giusto anche come producer, facendo uscire tracce con buona costanza. Però ecco, a livello concettuale e anche operativo in realtà si tratta di due ruoli profondamente differenti: il dj suona musica di altri, quasi mai la sua, il producer invece deve o dovrebbe mettere un forte tocco autoriale in quello che fa. Demonology come si muove in tutto questo? Che peso hanno avuto gli ascolti di musica altra – quella che è lo strumento di lavoro di un dj, e come si diceva siete ormai dj anche voi – e fino a che punto invece avete voluto essere gelosi di voi stessi e del vostro tocco personale, senza stare lì a mettere in campo citazioni e riferimenti accattivanti di terzi?
Max Casacci: La musica fatta da altri ha avuto un ruolo, assolutamente; ma più ancora che come ispirazione diretta, direi piuttosto come “test di comparazione”. Quello che noi producevamo doveva essere “fisicamente”, perché la musica è prima di tutto un’esperienza fisica, all’altezza delle migliori produzioni in giro oggi – e intendo migliori dal punto di vista della resa sonora, indipendentemente dal fatto che possano piacere o meno. In questo, abbiamo ascoltato molto quello che c’era in giro, tenendone molto da conto. Sì. Tentando di eguagliare i risultati al vertice assoluto, per qualità tecnica. Questa cosa è stato un auto-costringersi ad un grandissimo sforzo, c’ha fatto lavorare tantissimo, c’ha fatto studiare cose che magari di nostro avremmo tralasciato o sottovalutato. Ma studiare tanto, aggiornarci, migliorare era esattamente tra le cose che ci eravamo riproposti, al momento di tuffarci in questa avventura. Anche perché coi Subsonica, per quanto sia un gruppo che fa ballare e usa frequenze basse, un lavoro di un certo tipo non si fa, c’è poco da fare. E’ inevitabile. Demonology e Subsonica sono insomma proprio due sport diversi. Ti posso poi dire che per “Inner Vox” e per la sua qualità del suono sono state messe in campo tutte le attenzioni possibili. Anche per quanto riguarda il mastering: abbiamo fatto prove da diverse parti, anche lì dove di solito va a masterizzare Diplo o dove è stato fatto Snoop Lion, ma solo al terzo o quarto tentativo abbiamo trovato il posto giusto, quello in grado di far risaltare perfettamente il “nostro” suono. Ma dal punto di vista stilistico no, non c’è stata nessuna emulazione, non ci sono stati dei metri di paragone fissi e tenuti particolarmente in considerazione con quello che può “funzionare” nel qui&ora.
Però per dire ho sentito delle citazioni chiare di alcuni lavori di Hudson Mohawke, con o senza Lunice.
Max Casacci: Certo. I fiati iniziali di “Funeral Party”, e l’ossatura poi scomposta in modo abbastanza cervellotico di “False Step” (che però è un tempo dispari, cosa in cui Hud Mo non si è mai lanciato). Lì ci sono riferimenti precisi, vero, e guarda caso sono anche le due primissime tracce a cui come Demonology abbiamo lavorato. Proseguendo col lavoro, però, abbiamo imparato passo dopo passo ad essere sempre più liberi, sempre più tranquilli nell’avventurarci su sentieri poco o mai battuti. Ce lo chiedevi prima, della paura dell’inseguire troppe direzioni, del rischio di disperdersi in mille rivoli, no? Osservazione anche giusta, ma forse pure figlia dell’abitudine mentale a suddividere la musica in generi ben precisi, come se fosse una pratica obbligatoria, quando invece è possibile creare qualcosa che funzioni anche comportandosi con discreta libertà. La libertà noi, nei nostri dj set, ad esempio ce la prendiamo: e ad occhio e croce funziona.
(continua sotto)
Qual è la vostra platea, il vostro pubblico di riferimento, quando vi esibite come dj?
Ninja: Non presentando noi un dj set strettamente di genere, rivolto cioè ad un pubblico specializzato, dove devi stare bene attento a suonare le ultime novità e solo un certo tipo di tracce storiche altrimenti la gente storce il naso, ci ritroviamo ad avere un pubblico particolarmente eterogeneo quando ci esibiamo assieme da dj. E non è male, per niente. E’ sempre una bella sfida provare a coinvolgere un pubblico di questo tipo, magari lontanissimo dalle dinamiche standard della club culture e più legato al rock o al pop, magari anche distratto, come no, e riuscire però a farlo ballare su pezzi che, presi singolarmente, mai sarebbero entrati nei suoi ascolti quotidiani. Mi è capitato più volte tanto per dire di mettere dei poderosi “cartoni” drum’n’bass in situazioni in cui c’erano ragazze tutte impettite in tacco e tailleur, ad ora aperitivo, ma concedendoci noi una grande libertà possiamo variare i tipi di impatto e trovarci così a nostro agio in tutte le situazioni, con la possibilità di suonare di tutto. Non esiste un tipo di pubblico specifico per Demonology.
Non vi sembra che negli ultimi anni il pubblico si sia di nuovo polarizzato, nella sfera dance? Da un lato c’è la commistione totale col pop, vedi EDM ed affini, dall’altro c’è il pubblico da clubbing vero e proprio di matrice techno e house. Non si mischiano, queste due cose. Si guardano anzi pure un po’ male. Lì dove invece negli anni ’90 accadeva il contrario, andava a cadere il grande steccato tra rock ed elettronica, con un improvviso mescolamento di audience dato anche dall’impatto avuto da gruppi come Prodigy, Underworld, Chemical Brothers.
Max Casacci: Da questi anni ’90 a cui fai riferimento abbiamo forse mutuato non l’estetica o l’impasto sonoro, ma l’ambizione di portare la gente ad affrontare una esperienza “fisica” mai provata prima, nei propri ascolti e nelle proprie abitudini. Il tentativo è questo. E ci mettiamo la faccia. Perché se non funziona, vuol dire che siamo noi che non siamo capaci. Niente scuse.
Forse però a ben pensarci è il momento storico giusto, nella club culture odierna più raffinata e “da intenditori” hanno di recente ripreso a funzionare i set eclettici, vedi Jackmaster, vedi il recente successo di The Black Madonna.
Max Casacci: Può essere. Di sicuro, è parte fondamentale della nostra identità l’eclettismo. L’ondata di artisti che ha come capofila Chemical Brothers, Underworld, Orb, Leftfield, Fatboy Slim era un’ondata fatta di gente che, guarda caso, aveva tutta un background che non era solo elettronico. Loro hanno fatto lo stesso percorso che abbiamo voluto fare noi adesso: disimparare, abbandonare le proprie certezze, per arrivare a ricostruire una sensibilità nuova, diversa. In questo modo hanno costruito della musica di cui, vedi un po’, si parla tantissimo ancora oggi. Passata quell’ondata lì, la musica elettronica è tornata un po’ nei propri rivoli originari, vero, finendo in mano ad artisti che hanno un background al 100% elettronico, che sono nati facendo musica coi software e sempre quello hanno fatto, ed è anche per questo che l’esigenza di tirare fuori un album è molto meno sentita oggi, così come è meno sentita la necessità di dare vita a delle “canzoni” – almeno nella club culture più dura e pura. Quindi sì: magari la nostra sembra una sortita anti-storica ma, modificando la prospettiva, ci sembra anche il nostro possa essere un esperimento molto attuale, visto che il modo di fruire la musica dall’avvento dell’iPod in poi ha abbattuto moltissime dighe di genere, l’ascoltatore è diventato molto più onnivoro. Tornando alla domanda che ci facevi prima, e a cui Ninja ti ha già in buona parte risposto: è vero, suoniamo nelle situazioni più disparate, dall’evento streetwear al festival letterario, passando per contesti bizzarri come ad esempio Decadence, tra bondage e fruste delle tipe che ti ballano davanti. Ma ovunque andiamo, ci rendiamo conto che quando entrano in campo un certo tipo di frequenze basse, certi disegni ritmici che anche solo lontanamente i ventenni di oggi possono ricondurre alla trap e alla musica che ascoltano loro, vai tranquillo che in pista ci vanno e si divertono pure un sacco, tanto più che una volta che ci entrano vedrai che non ne escono. Li hai agganciati. E puoi continuare a tenerli lì, anche se all’improvviso metti i Led Zeppelin.
Sentite, Demonology è un exploit estermporaneo o un progetto a lunga scadenza?
Max Casacci: Io lo sento come un progetto a lunga scadenza. Ci piacciono molto le sue modalità creative: non devi entrare in uno studio coordinandoti con altre persone, coi loro calendari, coi loro impegni, niente di tutto questo. Anzi, non devi entrare in uno studio e basta: quasi metà delle tracce di “Inner Vox” è stata composta andando in treno, per i fatti nostri.
Ninja: “Più che “Inner Vox” avremmo dovuto chiamarlo “Frecciarossa”, forse…
Max Casacci: Il punto è che Demonology, col suo lavoro di grande attenzione alle sonorità contemporanee più d’impatto sui dancefloor, è per noi anche un grande lavoro di aggiornamento delle conoscenze nel campo dei software musicali, delle loro potenzialità; anzi, direi proprio un lavoro per noi di aggiornamento linguistico-espressivo tout court, a trecentosessanta gradi. Qualcosa di fondamentale quindi anche per la vita dei Subsonica stessi. Sono quasi dei “compiti a casa” che devi fare, se poi vuoi ritornare con rinnovato entusiasmo e rinnovata efficacia a lavorare su quello che è Subsonica. A questo aggiungi il fatto che Demonology, nella forma attuale, è qualcosa di molto agile: è prima di tutto un dj set, e anche se si evolverà in live – come del resto sta già facendo, vedi le prime due presentazioni a Torino e al Dude Club a Milano – sarà sempre qualcosa in cui puoi arrivare armato solo del tuo zaino mezz’ora prima che inizi il set, senza doversi muovere in anticipo, pianificare tour, coordinare il lavoro di decine di persone, e quindi in nessun modo va a sovrapporsi o a creare necessariamente incompatibilità con la vita di una band.
Ok, vi vedo abbastanza rilassati. Date l’idea di non sentire l’esigenza di non dovere niente a nessuno. Però ecco, a scavare, non è che sentite comunque la necessità di dimostrare di essere bravi anche in questo gioco qua, più a taglio danceflooriano?
Max Casacci: Te lo dico tranquillamente: certi scetticismi li percepisco; li percepisco anche quando faccio le mie cose assieme a Vaghe Stelle, figurati. Perché quello che dovrebbe essere apparentemente un vantaggio, ovvero il tuo storico, il tuo curriculum, la tua esperienza, la tua importanza, eccetera eccetera, in certi contesti è inizialmente uno svantaggio – perché vieni visto come un presuntuoso, “Ecco, ora arriva questo qua e si sente un fenomeno”, “Cos’è che vuole da noi, cosa c’entra con la nostra storia”. La gente avrà sempre cose da dire. Noi però sappiamo che per arrivare a Demonology abbiamo fatto un processo lungo e molto sentito nel disimparare prima per ricostruire da zero poi, con grande attenzione e grande umiltà; e non per fare i fighi o i troppo onesti ma proprio perché ne sentivamo semplicemente l’esigenza. Con questo progetto in certi contesti possiamo essere visti come dei presuntuosi, dei velleitari, ma esattamente per questo motivo abbiamo alzato molto l’asticella dei nostri obiettivi: la nostra idea è di dare vita a qualcosa che dal punto di vista sonoro si misura coi più alti vertici internazionali e che dal punto di vista stilistico non copia e non richiama nulla di particolare. Sai cosa significa, questo? Che il trampolino da cui ci lanciamo non è alto dieci metri, ma cinquanta. Però fin dai tempi dei Subsonica abbiamo imparato ad essere dei tuffatori. E ho detto tuffatori, non truffatori (risate, NdI).
Ninja: Il fatto di andare oltre al tuo storico non è solo e non è tanto l’esigenza di dimostrare qualcosa a qualcuno; è prima di tutto l’esigenza di dimostrare a te stesso che sei ancora in grado di essere in pista. Nel momento in cui ci accontenteremo di rifare solo ed unicamente quello in cui già siamo bravi e già siamo forti, avremo smesso di avere qualcosa di significativo da dire. Ecco perché sperimentare e prendersi dei rischi è un’esigenza: lo è per se stessi, non per dimostrare chissà cosa ad altri vantandosene.
(foto di Emanuele Basile)