DJ Harvey. Una leggenda. Uno che segna veramente la storia del clubbing degli ultimi venticinque anni. Anche in modo strano, nonostante (o grazie a…) peripezie assurde, come quella che l’ha costretto a restare bloccato per anni negli Stati Uniti (se ne fosse uscito, avendo il Visto turistico scaduto per una dimenticanza, vi sarebbe potuto rientrare solo dopo una decina d’anni – e lui in America aveva deciso di passarci molto tempo, e di sposare un’americana, quindi ha ben visto di mettersi l’anima in pace e di aspettare l’ottenimento, lungo e non semplice, di una Green Card, lanciando una residency ad Acapulco, in Messico, diventata mitologica). Uno soprattutto che emana pacioso carisma da ogni gesto, da ogni parola. E che pure quando si tratta di deejaying ti fa capire veramente che senso ha usare l’appellativo Maestro, e quanto per lui sia giustificato: in controllo sempre, anche quando suona dischi bruttini o discutibili, e spesso capisci solo dopo un’ora che quei dischi erano sì discutibili ma nell’economia complessiva del set erano assolutamente perfetti e necessari. Abbiamo passato con lui un intenso weekend fra Pescara (Tipografia) e Diagonal (Forte dei Marmi), grazie all’intercessione di Arturo Capone, il suo “uomo in Italia” (e probabilmente fan numero uno al mondo). Capone è anche colui che ha fatto una cosa molto bella, mettendo insieme per la prima volta in line up Harvey e Daniele Baldelli (col primo che ha sempre nutrito una stima enorme per il secondo, ma non c’aveva mai suonato assieme prima), al Tipografia. In effetti è stata una serata veramente intensa, con entrambi i dj in grande forma. Ma ad essere intenso è in generale Harvey, a tutto tondo, non solo come artista ma come persona: rilassato e solare come i californiani (da californiano acquisito), pungente ed ironico come i nobili di campagna inglesi di un tempo. Eccolo qua, senza filtri, per Soundwall. Dove potrete leggere un sacco di cose ed entrare appieno nella sua filosofia di vita, scoprendo che anche prima di salire in consolle fra qualche giorno al Sonar, lui avrà le farfalle nello stomaco…
Insomma, direi che tu hai sperimentato qualcosa di davvero unico: restare bloccato per anni in uno stato, l’America, per una serie – diciamo così – di kafkiane costrizioni burocratiche, e poi all’improvviso riprendere a girare ai quattro angoli del globo, esattamente come facevi prima del “blocco”. Quant’è cambiato il mondo del clubbing globale, se confronti il prima e l’adesso, l’oggi e il passato di un decennio fa? Tu questo confronto puoi farlo come nessuno.
Ti dirò, io ritengo che le cose siano sempre le stesse. Uguali. Non credo che la natura intima e fondamentale del clubbing sia cambiata in alcun modo. Ma non credo che sia cambiata negli ultimi cento anni, tipo.
Praticamente da sempre, insomma.
Diciamo che di sicuro è dagli anni ’60 che più o meno la storia è sempre la stessa, decisamente sempre la stessa. Ovvero dalla fine della seconda guerra mondiale, dalla nascita della classe sociale specifica dei teenager – ragazzi che si trovano all’improvviso con un potere d’acquisto e decidono subito di spenderlo nell’intrattenimento. Un tempo era il rock’n’roll, oggi l’EDM: è comunque la stessa cosa. I meccanismi sono gli stessi. Se fisicamente magari non potevo essere presente in giro per il mondo, con la moderna tecnologia (internet, telefoni, eccetera) ero sempre e comunque informato su quello accadeva in giro e sì, non mi pare che nulla sia cambiato in modo sostanziale. Va bene, l’avanzamento tecnologico ha portato forse a qualche variazione nelle pratiche e nel modo in cui vengono protate avanti, ma l’idea base, i principi fondamentali sono sempre quelli. Immutati.
Però ecco, tu mi parli di teenager e allora io ti dico: ma i teeneager oggi? Assomigliano a quelli di trenta/trentacinque anni fa, quando il teenager eri tu? Tu ad esempio da teenager eri finito in una punk band, poi ti eri innamorato dell’hip hop… all’epoca “scegliere” un genere musicale era una dichiarazione esistenziale a tutto tondo, oggi mi pare sia tutto più fluido.
Invece penso che oggi ci siano gli stessi meccanismi di allora; solo che io e te siamo troppo vecchi per capirlo. Tutti a ripetere oggi “Ah, i teenager non capiscono, sono troppo superficiali…”, vero? Beh, era lo stesso che diceva mia madre di me. Già, già. Se io fossi un adolescente oggi, me ne fregherei altamente di cosa pensa un adulto di me e del mio mondo… Le mie speranze, i miei sentimenti, le mie abitudini, i miei pensieri nascono in un mondo e in un modo che incorpora in maniera del tutto naturale le tecnologie moderne – una situazione che chi ha più di trent’anni non può capire nemmeno se ci si mette d’impegno. Tuttavia, ora come allora siamo sempre esseri umani: certi pattern ricorrono. Passare dall’adolescenza a qualcosa di più complesso è uno di questi. Quando sei ragazzino pensi di sapere tutto, pensi che il “tuo” mondo sia l’unico vitale, l’unico importante… Poi capisci che la questione è un attimo più complessa. Sai però cosa consiglierei a un sedicenne oggi? Perché sì, un consiglio lo darei. Ed è questo: rompi il tuo computer!, spaccalo in mille pezzi!, spostati da qualche parte del mondo in cui non puoi essere minimamente influenzato da ciò che succede in giro e prova a creare qualcosa di radicalmente nuovo. Qualcosa di così radicalmente nuovo da non essere capito da noi adulti.
Beh, a proposito dell’essere adulti: ti è mai capitato di pensare più o meno recentemente “Ehi, sto diventando troppo vecchio per tutto questo…”?
Mai. Sai perché? I cinquant’anni sono i nuovi diciannove. Sono giovanissimo, io. (risate, NdI)
Parlando sempre di generazioni, che tipo di gente vedi di fronte a te nelle tue serate? Che tipo di pubblico? E, domanda correlata, quando suoni sei uno che osserva attentamente il pubblico e se ne fa influenzare, o sei uno che va invece dritto per la sua strada, perché sai già che hai un tuo percorso da seguire?
Oh, io cerco sempre di considerare per prima cosa che tipo di pubblico ho di fronte, sempre. C’è però un problema: di solito tutto ciò che vedo alzando la testa sono prime file piene di uomini che mi fissano, e poi si mettono a consultare Shazam sullo smartphone grattandosi la barba. Lo sforzo è riuscire a vedere dietro di loro, perché è dalla terza, quarta fila in poi che c’è la gente che si diverte davvero, quelli che ballano – ovvero gli unici che contano veramente per me. Per fortuna ogni tanto c’è pure qualche barbuto che, riposto Shazam, un po’ si diverte… Ad ogni modo sì, io penso sempre prima a chi ho di fronte, non a me stesso: è la gente che decide che musica suono, non io.
Sei un vero dj.
Sono un entertainer: ciò che conta per me è che chi ho di fronte passi una bella serata.
“Ciò che conta per me è che chi ho di fronte passi una bella serata.“
Semplice così.
Già. Non sono uno che educa, predica o cose del genere. Non devo né voglio dimostrare niente a nessuno. Non cerco di essere il “tipo molto speciale” che mette un disco e poi ti fissa sprezzante alzando il sopracciglio facendoti capire “Ehi amico, vedi il disco che sto mettendo? E’ molto importante, un pezzo di storia della musica; ed è molto raro, tu col cazzo che ce l’hai”. Nulla di tutte queste fregnacce. Io sono un intrattenitore: uno che prova a creare una simpatica atmosfera, mettendo dei dischi.
Sai vero che è ironico tutto ciò? Perché tu per gran parte della “intellighenzia” del clubbing sei un vero e proprio mito vivente: per quelli cioè per cui il clubbing è anche cultura e storia, non solo intrattenimento.
Beh, si vede che riesco ad intrattenere bene anche quella gente lì… (risate, NdI) Se loro vengono alle mie serate, evidentemente riesco a dargli qualcosa che loro cercano. Ma a loro dico: “Amici, amiche, guardate che non sto facendo altro che intrattenervi”. Questo faccio.
Mmmmh, non so se mi convinci del tutto, e non so quanto tu mi stia dicendo la verità. Il clubbing può essere molto più che mero intrattenimento, può essere un’esperienza che ti cambia la vita. Come sarà capitato esattamente anche a te.
Dici? Effettivamente alcune mie visite ai club londinesi dei primi anni ’80, o anche le visite a certi santuari newyorkesi a metà dello stesso decennio: erano momenti intensissimi, sì. Ma non andavi a vedere questo o quel dj, non sapevi nemmeno chi suonava, tuttavia avvertivi il fascino di andare in templi come Roxy, Danceteria… Andavo lì, ballavo, mi divertivo, provavo ad abbordare quella bella ragazza là in fondo pista… non mi importava molto chi stesse in consolle, sai? Molto significative anche le esperienze all’Heaven, a Londra, a Charing Cross, era il club per eccellenza negli anni precedenti all’esplosione dell’acid house. Probabilmente quelli per il clubbing erano gli anni oggettivamente peggiori, con una serie di caratteristiche e difetti che hanno portato – proprio loro – all’esplosione dell’acid house, dei rave: erano anni cioè in cui tutto era molto improntato su come ti estivi, c’era tutto il filone della paccottiglia neo-romantica… Ma in qualche modo tutto ciò era eccitante, seducente. Sì, per me in qualche modo lo era. L’acid house ha spazzato via tutto questo, ha aperto il clubbing a tutti: non dovevi avere un particolare stile o un determinato conto in banca per andare ad un rave in un capannone abbandonato… non male. Ecco, vedi, io a ben pensarci ho ricordi speciali legati a qualsiasi periodo storico: ogni momento è potenzialmente magico, per me, ogni momento può lasciarmi un segno profondo.
Degli anni dell’esplosione dell’acid house cosa ricordi, cosa ti porti dietro?
C’era una gran eccitazione nell’aria… la sensazione che qualcosa di radicalmente “nuovo” stesse accadendo. Per me è stato molto bello. Negli anni dell’esplosione del punk ero troppo giovane per essere coinvolto direttamente; quando è stato il turno dell’hip hop, beh, ero pur sempre un ragazzetto londinese beneducato, non un portoricano del Bronx – non ero molto credibile come eroe o vittima del ghetto, quindi pure l’hip hop ho sempre potuto sentirlo “mio” solo fino ad un certo punto, se volevo essere onesto con me stesso. Ma i rave e l’acid house… Ecco, finalmente potevo essere protagonista in tutto e per tutto. Potevo essere non solo un fruitore ma addirittura un attore diretto, un creatore: fosse con la musica, organizzando serate, o col semplice modo di vestire. Sai, la sensazione di poter contribuire in prima persona a far “succedere delle cose” è qualcosa di incredibile. Se poi queste cose sono pure stimolanti… L’acid house era musicalmente un miscuglio strano, era la quello che ascoltavi in vacanza quando andavi nel Mediterraneo mescolato con le suggestioni sonore di una parte degli Stati Uniti (New York, Chicago, Detroit), tutto quanto messo assieme e mescolato in modo bizzarro; e se poi a tutto questo aggiungi anche l’ecstasy, in quella situazione già molto mista socialmente e molto libera da vecchie consuetudini e vecchie leggi d’appartenenza, ciò che ottieni è una cosa dannatamente eccitante.
Non poteva durare. Non così eccitante, almeno. Ad un certo punto ti scende.
Mah, insomma: è durata per trent’anni!
E dura tuttora?
Certo che sì. Ti pare che qualcosa di fondamentale sia cambiato? Siamo sempre lì: gente che va in un posto, dove sa che troverà altra gente, della musica e magari pure dell’ecstasy. Oggi magari in tutto ‘sto caravanserraglio c’è più industria presente, c’è un sistema economico strutturato dietro, ok, ma non è che prima a ben vedere non ci fosse: perché amico mio anche nei party più underground c’era sempre qualcosa che ci faceva i soldi, oh sì – fosse il proprietario del club, il barista, il tipo che vende le magliette con gli smiley, lo spacciatore, il dj… Un tempo magari era un’industria piccola e fai-da-te, oggi è tutto molto più grosso, ma siamo sempre lì. Che poi, pure oggi ovviamente non mancano i party underground. La cosa divertente è che i party underground di ieri oggi spesso e volentieri sono festival con molte migliaia di persone.
E sono diventati, insomma, pop.
Perfetto. Hai sedici anni, ti piace la musica elettronica, e guarda un po’ piace anche a tua madre quella musica lì. Forse anche a tua nonna. E’ pop, assolutamente.
E’ un bene o un male?
E’ un bene. Mettere insieme le generazioni è sempre un bene, no? (ride, NdI) Parlando in generale, ciò che bisogna sottolineare è che la filosofia che sta dietro alla dance è quasi sempre positiva; non si può dire lo stesso dell’hip hop o del rock, parlando per macrogeneri, visto che sono scene che nell’immaginario sono spesso scure, o violente, o tese, o depresse. Il mondo della dance invece che immaginario ha? Parliamone: dovessimo riassumerlo, perché non usare un fungo rosa che danza con un unicorno che abbraccia un gruppo di giovani fanciulle in bikini? Ci potrebbe stare, no? Fila come definizione?
Ci sta, te lo concedo. Fanciulle bikini e funghi rosa, ok. Ma i ceffi che suonano in eventi come l’Ultra, quelli insomma che stanno rendendo tutto un po’ un carrozzone e che sono perfettamente inseriti in un certo tipo di sistema industrial-commerciale, sono nemici della club culture, della vera club culture?
Ma proprio per nulla! La loro è solo un’altra forma di intrattenimento rispetto alla nostra. Dovrei preoccuparmi se Garth Brooks va al numero uno? E per quale motivo? Buon per lui. Ma per fare un esempio più vicino al nostro mondo, prendi un Avicii: va al numero uno? Prende un Grammy? Ottimo, sono contento per lui! E forse sono contento pure per me, perché magari col fatto che anche i più distratti possono incappare nella sua musica magari in qualche famiglia un ragazzino si appassionerà di musica elettronica: ora magari ascolterà Avicii e similari, fra cinque anni però potrebbe venirgli voglia di cercare più vicino alle radici di un certo tipo di musica e di cultura. Prendi mio figlio: qualche anno fa ascoltava un sacco di hip hop che campionava Roy Ayers, oggi ascolta direttamente Roy Ayers. Insomma, sì: gli act più commerciali possono comunque fare da “introduzione”, quindi hanno un potenziale positivo. E poi mi parlavi dell’Ultra: beh, quello è intrattenimento al più alto livello! Grandi show, fuochi d’artificio, laser, navicelle spaziali che atterrano in mezzo alla pista… Tutto questo col deejaying non c’entra un cazzo, ovvio, lì in consolle quasi sicuramente non stanno facendo nulla e il tipo nel mixer fronte palco prima avrà schiacciato play per far partire una base pre-registrata, poi si sarà tutto concentrato a far funzionare bene le luci e tutti gli effetti speciali del set. Che se al dj viene in mente di improvvisare e di suonare davvero, qua va a finire che i fuochi d’artificio esplodono al momento sbagliato, vogliamo mica esporci a questa figuraccia? Però tutto questo è, appunto, una forma d’intrattenimento. Di più: è una buona forma d’intrattenimento. Perché chi va lì, si diverte. Cosa c’è di male nel divertirsi? Nulla. Niente. La gente che tanto odia questo tipo di festival lo fa semplicemente perché frustrata, o insicura.
Negli ultimi anni, c’è qualcosa che musicalmente parlando ti abbia particolarmente sorpreso?
Onestamente, non direi. La maggiore sorpresa è proprio il fatto che nulla sia cambiato realmente. Sono passati trenta, quarant’anni dai Kraftwerk, ma ancora oggi li ascolti e ti sembrano attuali. Ecco: questo per me è scioccante. Dopodiché ovvio che ci sono molti producer lì fuori in giro, molti ragazzi in gamba che fanno qua e là tracce molto belle che io sono molto contento di suonare. Però, ecco…
Oggi ha senso aprire e portare avanti una label?
E’ molto più conveniente aprire e portare avanti una tua etichetta personale piuttosto che affidarsi ad una qualsiasi etichetta indipendente, visto che la suddetta etichetta indipendente non potrà fare nulla per te che non possa fare anche tu da solo – con la differenza che a loro dai dei soldi, a te stesso no. Ecco, questo sì che è cambiato negli ultimi trent’anni: il modo in cui funzionano le cose. Senza contare che un tempo facevi live e dj set per promuovere la vendita dei tuoi dischi, oggi fai dischi per promuovere la vendita delle tue date. Altro grande cambiamento rispetto al passato, nella musica elettronica: la nascita dei grandi festival. Perché ora c’è l’industria, e l’industria ha bisogno di fare soldi. E fa giocare tutti alle sue regole, quando entra in campo. Questo è il motivo perché trovi dappertutto Avicii, nei festival di un certo tipo: perché c’è abbastanza gente pronta a spendere duecento dollari per il solo fatto di poter constatare di persone che lui esiste, è vivo, è lì, in carne ed ossa di fronte a loro. Cosa suoni (o non suoni) è secondario.
Di nuovo: non ti sembra una brutta deriva, questa?
No. Non particolarmente. Se la gente è contenta, e tutti ci guadagnano, mi dici dove sta il problema? Perché sai quale sarebbe il vero problema, no? Te lo dico io: se la gente che va ad eventi tipo l’Ultra alla fine fosse scontenta e volesse indietro i suoi soldi. Accade? No, non mi risulta.
Ok. Ha senso. Ma senti, quali sono i tuoi club preferiti?
Il Pacha ad Ibiza è uno dei miei preferiti: per la storia, per come è organizzato architettonicamente – dalla main room puoi vedere attorno a te praticamente tutto quanto. Ha una specie di, mmmh, “pretenziosità old school” che mi piace assai. Parlando di posti più recenti, amo moltissimo il The Block a Tel Aviv, ottima gente, grande impianto, bella atmosfera. Impossibile poi non citare il Precious Hall a Sapporo, esiste da molto tempo e sulle questioni di suono è serissimo, hanno un impianto tutto customizzato che è leggendario. Tornando all’Europa, ho sempre molto apprezzato il Trouw ad Amsterdam: sai, gli olandesi sanno veramente come divertirsi, sono dei professionisti del divertimento, il clubbing fa parte della loro cultura condivisa. Tuttavia ci tengo a precisare una cosa: io posso dare vita ad una serata splendida in qualsiasi tipo di situazione, qualsiasi sia la qualità dell’impianto. Di mio cerco sempre di sensibilizzare i promoter sull’importanza di un buon impianto, certo, ma per trent’anni ho suonato anche con impianti di merda tirando comunque fuori serate notevoli. Un party con l’atmosfera giusta può essere più forte del peggiore degli impianti.
Sei uno che frequenta molto i colleghi dj?
Non ne faccio una questione di principio, di dover frequentare i miei colleghi, ma sì, molto miei amici sono dj. Sai, dove abito ora, a Venice in California, è un posto molto “diurno”, le cose interessanti succedono di giorno: c’è il sole, vai in spiaggia, magari fai un po’ di surf, mangi del buon cibo da qualche parte, qualche canna… Se in giro c’è un dj per qualche serata che conosco, è il benvenuto ad unirsi in questa mia routine quotidiana.
Lo sai che sei quasi irritante? E’ tutto molto calmo, tranquillo, bello, perfetto con te. (risate, NdI) Accidenti, hai mai avuto dei momenti in cui eri seriamente preso male, seriamente sconfortato, seriamente in difficoltà?
No.
Uff. L’uomo più fortunato del mondo.
Ah, ma io amo tantissimo lamentarmi! Ma sono i lamenti per i problemi più stupidi e risolvibili del mondo: che so, che nel mio volo in aereo non c’è abbastanza spazio per le gambe… oh quanto mi lamento quando succede… (risate, NdI) Sai qual è il mio segreto? Se ho un vero problema, mi comporto con serenità e leggerezza. E funziona. Se ho un problema finto, mi comporto come se fosse uno vero.
E’ una cosa che hai imparato in America?
La più grande differenza culturale tra americani ed inglesi è che l’America celebra il successo, gli inglesi la sconfitta. E qui mi piace il mio essere inglese, il fatto di considerare che sia meglio perdere con stile piuttosto che vincere e basta. Perché se vinci, non hai più niente da ottenere, non puoi più migliorarti; ma se perdi senza esserti svenduto a niente e nessuno, ti senti comunque un vincitore.
Dai, su, che tu nella vita e nella carriera hai decisamente vinto…
Guarda, mi piace vedermi come un eterno emergente. Per qualche motivo non sono mai diventato un artista dalla popolarità enorme, un numero uno: ma non perché non lo volessi o non c’avessi provato… C’ho provato, eccome, a tentare di piacere al maggior numero di persone, ma evidentemente non ha funzionato abbastanza. Pazienza. Ma trovo assurdo che qualcuno non voglia essere popolare il più possibile. Io lo voglio, lo vorrei, ma evidentemente il mio tipo di stile e di musica non va bene per tutti. Pazienza.
“Mi piace vedermi come un eterno emergente.“
Ma c’è qualcosa di cui ti penti, se guardi al tuo passato, alla strada che hai fatto?
Probabilmente, l’aver preso troppe droghe. Cosa che non è un problema in sé, ma è la causa del problema attuale: non poterle prendere oggi. Sai, negli anni ho bevuto tanto, preso tante pillole e polverine. Troppe. Tant’è che un giorno un dottore mi ha detto: “Fermati, o fuori”. E’ stato facile: mi sono fermato. Senza bisogno di alcun programma di riabilitazione. Perché chi è stato avvertito che sta andando incontro alla morte se continua a fumare o bere o eccetera eccetera, vuol dire che tra la vita e la morte sceglie la morte: scelta bizzarra, direi, almeno per me. Non la mia. A bere e drogarmi mi sono divertito moltissimo. Ora non posso farlo più. Non è che mi manchi così tanto, però dai, se mi fossi contenuto un po’ di più negli anni passati oggi forse potrei concedermi ancora qualcosina… Ad ogni modo, la cosa fondamentale è che non ho mai fatto nulla di grave. Non sono mai stato responsabile della morte di nessuno. Non ho fatto piangere troppe ragazze. Ho tentato di essere un buon padre. Cose semplici, ecco, ma quelle fondamentali credo ci siano tutte. Non ho quindi grandi rimpianti e cose di cui pentirmi, non ho grossi scheletri nell’armadio con cui poter essere ricattato.
Però ho letto una tua dichiarazione in cui dici che ancora oggi prima di salire in consolle hai un misto di emozione e paura…
Certo! Prendi stasera: come non potrei averne? Io e Baldelli che suoniamo per la prima volta nello stesso club. Lui prima di me. Sono qua che già mi preoccupo di quali potranno essere i primi dischi, quale il modo per fare une balla transizione dal suo set al mio facendo così una bella figura al suo cospetto… non sono per nulla tranquillo, se penso a stasera. Sì, ho ancora le farfalle nello stomaco, prima di iniziare a suonare. A maggior ragione in una serata come quella di stasera.
A parte stasera qua a Pescara al Tipografia, vi eravate già incontrati, tu e Daniele Baldelli.
Sì. Sembra proprio una persona simpatica. Non l’ho mai sentito dal vivo prima, ho solo ascoltato avidamente le sue storiche cassette, che ho adorato. Lui è un dj leggendario, questo appellativo se lo merita tutto. L’ho incontrato di persona la scorsa volta, è stato molto gentile, abbiamo avuto una conversazione molto piacevole. Sai, è bello suonare fin dagli anni ’90, avere cinquant’anni e potersi emozionare ancora a suonare con qualcuno. Tra l’altro ogni tanto qualcuno mi associa come attitudine proprio a Daniele, quindi il piacere è doppio.
Altri tuoi eroi personali?
Sai qual è la cosa divertente? Molti dei miei eroi, in realtà, non li ho mai sentiti suonare. E’ più la fantasia di quello che possono essere stati, quello che evocano: Ron Hardy, Francis Grasso, Tee Scott. Sono stato invece fortunato abbastanza da conoscere e diventare amico di Larry Levan, Tony Humphries, Frankie Knuckles. Ma per parlare di italiani, ho grandissima stima per personaggi come Ralf, Coccoluto, Gemolotto, TBC, Moz-Art, ovviamente appunto Baldelli: personaggi fondamentali anche loro. Degli eroi.
…così come tu sei un eroe per molti. Che effetto ti fa?
Oh, bellissimo. Ne sono onorato. Ne sono onorato soprattutto se dicono che non solo sono un discreto dj, ma anche che sono una persona a posto. Comunque sì, dai, se qualcuno mi considera un eroe – va bene, lo accetto…