Da freestyler a rapper, da dj a producer, da fan a maestro: la storia di Dj Kamo è quella di una di vita nel rap per il rap. A fare da sfondo l’hip hop genovese, le esperienze fuori dall’Italia e le tante collaborazioni di spessore. La sua carriera è quella di un artista solido ma sempre in evoluzione. Considerato un punto di riferimento dalle nuove generazioni, ha destinato loro una corsia preferenziale all’interno dei suoi progetti. La nuova lettera d’amore che Dj Kamo scrive alla sua Genova è “Dipendenze”: EP che uscirà il 5 aprile in collaborazione con Laba e che abbiamo ascoltato in anteprima. Testimone e protagonista del clubbing ligure Kamo ha dato il meglio di sé, fin dal principio, nell’arte dello scratch. È difficile riassumere quasi 30 anni di musica, passione e competenza in un genere che ha seguito passo dopo passo. Il suo storytelling autentico e intenso racconta al meglio la genesi di questa cultura.“Volevamo che Genova diventasse una capitale del rap. Questo era il nostro sogno!” sintetizza al meglio. Ma se questo è il claim iniziale, qui abbiamo la lunga, densa chiacchierata che ci siamo concessi, piena di spunti importanti.
Una generazione di rapper liguri guarda a te come un maestro: sei consapevole di cosa rappresenti per la nuova generazione? Ricevere questa investitura ha cambiato, in qualche modo, le tue scelte artistiche?
Non ho mai avuto la percezione di essere un maestro per la nuova scuola ligure. Ho fatto musica qua, quando ci abitavo ed ho sempre cercato di coinvolgere la gente. Però “maestro” è una parola troppo grande anche per me, io mi sento ancora uno studente di questa roba. Spesso, anche quando collaboro con i ragazzi, sono più le cose che imparo che quelle che cerco di dare…. Mi piace imparare. Non sono mai stato un grande studente nella vita scolastica, ma del rap mi piace proprio imparare e capire sempre di più! Per una questione di età magari mi definiscono “maestro”… ok, ma è al massimo una questione di esperienza. Trovo che la nuova scuola e i ragazzi che sono qui, quelli arrivati e quelli che arriveranno, abbiano davvero una marcia in più. Con le serate che abbiamo fatto negli anni abbiamo creato un punto di aggregazione per la gente, quello sì: mi ricordo quando facevamo musica in Corso Italia, all’AQA, lì c’è stato un momento in cui erano presenti tutti quelli che ci sono adesso. Se tu mi chiedi se ha cambiato qualcosa questa investitura che c’è adesso, questa esposizione arrivata dall’alto, ti rispondo: “Non tanto”. Mi ha cambiato di più il fatto di avere a che fare con questi ragazzi. Molti della mia generazione sono ancorati a vecchi dettami del rap italiano anni ’90. Molti hanno proprio smesso, e comunque chi è rimasto difficilmente riesce a comprendere questo nuovo movimento. A me piace invece vedere l’evoluzione di questi ragazzi e, di conseguenza, c’è uno scambio molto positivo, sia nelle ultime cose che ho fatto che in quelle che usciranno.
Nel 2013, dopo Ep e Mixtape, è uscito “Changes” il tuo primo disco ufficiale. Trovo che “We Need A Change” sia un brano fortissimo ancora oggi. Che percorso c’è tra questa traccia e “You Are The Change”, outro del disco? Com’è stato lavorare con Bassi Maestro e Tormento?
“Changes” era la concretizzazione di un percorso di cambiamento. Crescevo come dj, come rapper, poi verso il 2010 mi sono un po’ stancato di rappare. In quel momento lì ho cambiato casa, mi sono sposato e mi sono detto “Dove vuoi portare questa roba della musica? Quello che mi piace di più fare è stare in studio, fare i beat e fare più produzioni”. Ho concepito il Mixtape, l’EP e il disco sono stati il passo successivo. “We Need A Change” non era così, in origine. Avevo scoperto questa cantante pazzesca qatariana che stava a Venezia, Malika Jamilah. Aveva fatto un ritornello veramente killer che superava di gran lunga il beat. Era una bella produzione con una cantante che meritava di più, valeva la pena registrarci sopra qualcosa. In quel momento lavoravo parecchio con alcuni musicisti e facevamo tanta musica live. È capitato Bobby Soul, che era il mio vicino di casa, un pilastro della back music a Genova e ci siamo detti “Cazzo becchiamoci e facciamo ‘sto pezzo qua!”. È venuto in studio con i suoi musicisti, allo Zerodieci Studio di Genova Nervi. Hanno risuonato tutto in melodia con la cantante e quando abbiamo terminato questa produzione ho detto “Bobby fa la strofa e anche Torme ci vuole qui sopra!”. È stato molto bello fare quel pezzo. Mi trovavo spesso con Torme, lui stava a Firenze in quel periodo e si è creata veramente una bella sinergia! Tutto l’album ruotava intorno a questo concept: “Puoi cambiare le cose solo se ti apri al cambiamento e per cambiare il mondo devi cominciare da te”. Tutta la gente che ho coinvolto nel disco sono leggende del rap italiano, sono quelli che mi hanno cresciuto. Sono cresciuto coi dischi di Bassi, con quelli di Torme, con l’Area Cronica, con Primo, con Cor Veleno, ero proprio un fan del rap italiano di quegli anni. Poi ho avuto la fortuna, nei primi anni 2000, di girare un sacco, di conoscerli tutti e di avere a che fare con tutti loro a livello live. Avevamo una crew qui a Genova che si chiamava Zena Art Core: un collettivo di rapper sia del centro che del levante e giravamo sempre in squadrone praticamente. Ci chiamavano a fare le aperture di quelli che erano i big, di quelli che oggi sono i big. Mi ricordo con piacere di date che abbiamo fatto con i Club Dogo, con i Cor Veleno, Bassi Maestro e Tormento. Quindi è stato poi naturale chiedere loro un pezzo per il mio disco. È stato un onore, per me, perché è la prima volta che Bassi rappava su un mio beat ed è anche uno dei miei pezzi preferiti! Sono molto contento che tanta gente di quel calibro mi abbia dato fiducia e sia comparsa in questo disco.
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In “Best Dj’s In Town” con Donald D e Dj Double S hai voluto tributare l’arte del djing, di chi c’è stato e chi ti ha ispirato. Che valore aggiunto ha portato al mondo della musica una figura come il dj?
Questo brano nasce come un tributo ad una persona che era mancata da poco, Dj Chicca. Lavoravo con lei a Genova in quel periodo. Lei era sarda. Da quando aveva messo piede in città aveva fatto con le serate una vera e propria rivoluzione a livello musicale. Avevamo creato questa crew che si chiamava, appunto, Best Dj’s In Town ed era uno sfottò per gli altri dj. Non era un titolo autocelebrativo, come la gente poteva pensare, ma solamente un collettivo che aveva questo nome. All’uscita del disco non ho voluto calcare su questo concetto perché non volevo fare promo su una persona che non c’era più. Non ho fatto un pezzo su di lei, ma sulla figura del dj. Il dj è stato rivoluzionario, secondo me, a livello mondiale: perché quello che ha portato nell’industria musicale è attuale ancora oggi. Ovviamente, con il passare del tempo, le cose sono cambiate, però l’idea del break, del loop, del campionamento che si usa in tutta la musica contemporanea arriva dal dj. Viene da Grandmaster Flash, viene dai block party. Io volevo portare questo brano proprio in quel mondo lì, dove l’energia che il dj portava in certe situazioni aveva il potere di cambiare l’umore delle persone che andavano a quei party: smettevano di spararsi e iniziavano a fare rap! In più, a livello tecnico musicale, era qualcosa di mai visto: l’idea di mettere due giradischi, di passare dei frammenti da uno all’altro e creare qualcosa di nuovo che facesse muovere la gente, che facesse dimenticare i drammi della vita quotidiana, è stato veramente rivoluzionario.
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Nell’intervista su YouTube per Aelle (ndr “Alleanza Latina”, primo magazine a parlare di Hip hop in Italia) che hai fatto con Claudio Cabona, racconti che quando andavi ai Govi (ndr Giardini Govi, situati all’inizio di Corso Italia a Genova) a fare freestyle personaggi carismatici come Dema includevano chiunque a partecipare: anche chi non era capace! Lì, tu dici, si è creata una scuola. Che ricordi hai di quel periodo?
È facile lasciarsi andare ai ricordi perché era proprio un’altra epoca! Ho dei bellissimi ricordi! Lì era proprio figo. Mi ricordo che con un mio compagno di classe, Nemo Vaccari, che oggi è uno scrittore conosciuto, avevamo l’obiettivo, dopo lezione, di andare lì a fare freestyle. Erano i nostri compiti andare ai Govi al pomeriggio e spaccare! Dema ti insegnava, sì, però dovevi anche impegnarti. Lo step successivo, se proprio gli piacevi come persona e come rapper, era andare a casa sua, nel suo studio, a registrare. Era proprio bello! Si era creato un giro di persone dove in estate in Corso Italia c’erano i breaker che ballavano e noi che facevamo freestyle. C’era l’intera scena! Sono proprio contento che il rap di Genova adesso sia sotto gli occhi di tutti, che la gente veda Genova come una capitale del rap. Era il nostro sogno! Ed oggi si è in parte avverato.
Sempre nell’intervista che fai con Aelle racconti che, per te, è molto importante il tappeto musicale dei tuoi brani, arrivando a dedicarci dei mesi per settarlo al meglio. Di quali risultati sei più soddisfatto? Cosa è stata per te Aelle?
Aelle per me è stata una finestra su quello che mi interessava davvero: il rap. E l’unico modo per sapere cosa accadeva era comprare AL, perché non c’era letteralmente altro per capire cosa stesse succedendo fuori da Genova. AL è stata una scuola per la mia generazione. Io facevo la posta all’edicola, c’era un edicolante che sapeva che andavo a comprarlo e lo faceva arrivare solo per me. Ho cominciato a comprare i numeri di AL nel ’95. Per me Aelle è una Bibbia e ancora oggi mi capita e mi è capitato di consultarla per interviste che dovevo fare. Infatti, quando ho avuto occasione di lavorare e conoscere Claudio “Sid” Brignole e Paola Zukar, che sono le due persone che hanno creato il magazine, ho parlato loro proprio di questo. Per noi di Genova già il fatto che AL avesse la redazione qua, sapere che i grandi della musica erano su questa rivista, era fighissimo! Invece sul tappeto musicale che mi hai citato… Sì, ovviamente ci tengo! Mi sono dedicato tanto alla produzione in questi anni e voglio che i miei progetti suonino bene, in un certo determinato modo. Adesso faccio la produzione a casa e poi mi appoggio a tanti studi per il mix finale, fra questi spesso al Room Studio. Mi piace far uscire la mia musica: mi piace il fatto che riesco a trovare il tempo di farla e che la gente si fidi di me e voglia farla con me. Quando chiamavo qualcuno per collaborare, si fidava a darmi la strofa ed è stato bello non avere filler. Non ho mai avuto la percezione cioè che fossero strofe scritte sul momento. Uno dei miei pezzi preferiti è “Non mi cambiano” dove, anche se non è la traccia più ascoltata fra quelle che ho fatto, si è creata fra di noi una bella magia.
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“Cambiamento” è una parola che ricorre spesso nella tua vita. Nel tuo percorso artistico non c’è solo l’Italia. Cosa hai trovato nel mercato francofono con cui hai collaborato? Com’è stato lavorare con KT Gorique?
Non era nei piani finire in Svizzera come in effetti mi è successo, e non era nei piani starci così tanto. L’idea, con mia moglie, era di starci solo un anno. Come differenza di mercato, l’ho trovata come la Genova del 2004: perché era tutto ancora da costruire. Quindi mi sono sentito un po’ catapultato indietro. La cosa bella infatti è che io questa condizione l’avevo già vissuta e mi sono detto “Facciamo le stesse cose, funzioneranno anche qua!”. E hanno funzionato. La scena lì c’era già, io mi sono solo aggregato e ho avuto la fortuna di conoscere subito KT Gorique. Ho proprio googleato “Rapper di Sion” e mi è uscita fuori lei, campionessa del mondo di freestyle nel 2012. “Porca troia, devo conoscerla!”: l’ho conosciuta, le ho parlato e le ho passato qualche base. Poi sono andato a vederla ad un concerto due giorni dopo e sul palco ha spoilerato una traccia sopra un mio beat! Tra l’altro proprio quel beat ero passato a mixarlo da Bassi Maestro. Da lì, io e KT Gorique siamo diventati amici, abbiamo iniziato a lavorare assieme, abbiamo prodotto un disco e sono andato in tournée con lei per parecchie date. Poi, quando ho aperto il mio studio a Sion, lei mi ha dato una mano, veniva a registrare e abbiamo fatto il suo secondo EP ed un altro Mixtape. Adesso ci sentiamo ancora spesso e resta, per me, un talento senza fine. Ora sta volando alta e se lo merita tutto. Ha partecipato recentemente alla serie su Netflix “Nuova Scena”, l’edizione francese. Sono stato veramente fortunato a conoscerla, e le auguro il meglio.
Ondata anni ’90, poi crisi del rap e ripresa: paragonando le fasi che ha vissuto Genova ad un’onda del mare, cosa l’ha aiutata ad espandersi e arrivare così lontano? Cosa c’è nello svuotatasche di Dj Kamo quando non vede più il mare di Genova?
Cosa ha aiutato Genova? Un cambio di mentalità: sia da parte dei rapper che da parte degli ascoltatori. Noi facevamo rap prevalentemente per la scena. In quegli anni tu facevi rap perché volevi l’apprezzamento di Bassi Maestro, perché volevi finire su AL; non stavi facendo rap per la gente, come invece dovrebbe essere. Quello che è successo in Italia dai Dogo in poi è stato che i ragazzi potevano rispecchiarsi. Non i rapper, eh, i ragazzi normali! I miei compagni di classe, la gente del parchetto… Aumentando, così, il pubblico e gli ascoltatori. Il rapper alla fine deve essere così. All’epoca non era scontato però. Chi faceva due lire era visto malissimo. Chi firmava un contratto era visto malissimo. Uno dei ricordi che troverò sempre nel mio svuotatasche per la mia carriera è legato al collettivo Zena Art Core. Esistevano grosse organizzazioni di Genova che non ci volevano far suonare. Mi ricordo una sera che c’era un grosso festival a cui non eravamo stati invitati: sul palco c’era gente con cui avevo lavorato e mi hanno chiamato sul palco a fare il dj e io salii con la maglietta di Zena Art Core. Beh, le persone impazzirono. Il pubblico ci aveva riconosciuto.
Gli anni ’90 sono stati anche gli anni del turntablism. Tra le arti dell’hip hop una di quelle meno valorizzate è quella dello scratch. Come ha fatto Dj Kamo a fare sua questa arte? Cosa ha reso i tuoi scratch inconfondibili?
Il turntablism è veramente un’arte superiore. Per fare un paragone sportivo, il turntablism è l’arte marziale più difficile a cui si possa pensare. Mi ricordo che di scratch ero già patito, avevo i dischi a casa, avevo i piatti e facevo già il dj a 11 anni in cameretta. Quando poi vidi Prezioso in tv al compleanno di Jovanotti, uscii pazzo perché non pensavo si potessero fare quelle robe con i giradischi. Idem quando vidi a Torino Dj Tayone con Double S: rimasi scioccato. Non mi sono mai definito un turntablist perché non mi sono mai allenato a sufficienza. Mi è sempre piaciuto mettere i dischi per far divertire la gente e mi è sempre piaciuto scratchare: quello sì! Per esempio però non sono in grado di farti un doppio cut complesso o un beat juggling. I turntablist da gara si allenano dalle 6 alle 8 ore al giorno e, come ti dicevo prima, è proprio un livello pro di atletismo. Mi piace che il mio scratch sia musicale, che si integri bene nei miei pezzi, e mi piace dare loro un senso. Adoro quando la gente mi chiede di scratchare nei loro brani: perché mi ascolto il testo, mi vado a cercare le reference, mi vado cercare una frase che ci stia bene e che crei il ritornello, tutto questo mi piace tantissimo perchè sono cresciuto con DJ Premiere e lui aveva uno scratch non ipertecnico, ma molto musicale, molto a fuoco. Non so se i miei sono inconfondibili, ma sicuramente vengono dall’ascolto e dall’allenamento – non di 8 ore al giorno, eh – che ho fatto negli anni.
(foto di Carlo Ceccarelli, continua sotto)
Genova è famosa per il mugugno continuo di chi ci abita, e anche il mugugno (ndr in origine voce onomatopeica che indica il brontolio sommesso, entrata in uso attraverso il linguaggio dei marinai) potrebbe essere visto come una sorta di rap primordiale, perché trasforma i picchi di rabbia in vere e proprie barre. Concordi con questa considerazione? Come hanno fatto Albe Ok e Dala a trasmettere negli anni l’essenza di questa credibilità?
Il mugugno c’è a Genova e l’ho sempre detestato, perché trovo che lamentarsi serva a poco. Mi da un po’ fastidio perché anch’io spesso mi lamento, ok, però se una cosa non mi piace cerco di cambiarla. Ovviamente è difficile. Se ti lamenti di un problema, lo rendi reale. E fin qui va bene. Se trovi però il modo di affrontare il problema e trovi il modo di cambiare la situazione, allora lo superi. Come è accaduto per il rap qui a Genova: è cambiato. Albe Ok dal mio punto di vista è una delle migliori penne di Genova e, molto spesso, non è stato giustamente apprezzato. Questo mi dispiace, perché Albe ha dato tanto per la nuova scuola: ha collaborato con tutti, è stato in tutti i palchi, davvero tutti! Ma non ha avuto il riconoscimento che meritava per il valore che ha. Trovo che le barre scritte da Albe siano qualcosa di superiore anche al livello italiano: se io penso a un “the most underrated” in Italia: Albe Ok, assolutamente! Dala, invece, è riuscito a catalizzare. Ha fatto un qualcosa di gigantesco. È un talento cristallino, super nominato, super tributato e super rispettato da tutti i rapper che sono arrivati dopo; pur essendo un rapper puro, con le barre fighissime, è riuscito e riesce a fare uno storytelling che coinvolge chiunque. Quando uscì “Kubla Khan” ero estasiato. Io so che la gente è ancora con lui, e quando vorrà tornare ci sarà sempre una porta aperta. Tutti lo aspettano, però a me importa che lui sia sereno con le sue scelte.
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Hai definito Albe Ok come figura focale e spartiacque per Genova perché affermi che, dopo di lui, generazioni come Wild Bandana e Drilliguria hanno scoperto che era figo rappare. Come lo hai conosciuto e com’è lavorare con lui?
Era il 2002 quando lo conobbi. Lo ascoltai e ai tempi era davvero quadratissimo come rapper, mi piaceva tantissimo! Mi ricordo che molte sere uscivamo, faceva le grafiche per Zena Art Core, faceva i volantini, gli street team, e uscì fuori che voleva fare un demo. Io avevo lo studio a casa e lo facemmo assieme. Uscì nel 2004 e si intitolava “Ok”. Ci trovammo talmente bene a fare quel demo che decidemmo di lavorare come coppia. Che nome trovammo? Albe&DjKamo. Abbiamo poi lavorato ad un sacco di progetti. È uno dei miei migliori amici e dico sempre che è la mia parte razionale. Cura la parte grafica di ogni cosa che faccio e, in ogni cosa che ho fatto, c’è sempre un po’ di Albe Ok.
A Savona, sulla casa del poeta Gabriello Chiabrera, troviamo scolpito “Nihil est ab omni parte beatum”, che tradurrei come “Non esiste medaglia senza rovescio”, o meglio “Non esiste vittoria senza nemici”. Quali sono, per te, quelli del rap?
Chi fa il rap male.
Sono perfettamente d’accordo. A proposito di nemici… Il rap non nasce a Sanremo, ma ci è finito. Credi che portare sul palco dell’Ariston il rapper senza rap aiuti veramente questa cultura a crescere?
Secondo me, no. Infatti la cosa che mi dispiace è che non ho ancora visto fare del rap a Sanremo, se non quest’anno alla serata delle cover, vinta da Geolier. Ora è sdoganato, ora puoi farlo. Vediamo chi altri ci proverà. Trovo che su quel palco, magicamente, i rapper pensano che il rap debba ancora “comprarsi” la gente. Forse perché l’Ariston spaventa, forse perché le case discografiche vogliono un certo tipo di suono… Però io in questo momento non troverei strano un rapper che rappa a Sanremo, ecco. Invece, è tutto un po’ edulcorato. Ora è il momento in cui i rapper potrebbero osare… e dovrebbero.
Nell’intervista in cui parli dell’uscita di “One More Shot”, eri soddisfatto del tuo lavoro perché dici che avevi inserito tutte le varie sfaccettature di rap che ti piacciono e che sei capace di fare. Che rap ascolta Dj Kamo?
Bella domanda. Mi ricordo il periodo di “One More Shot” come un periodo un po’ fumoso. Era post-pandemia, non ero perfettamente in bolla quegli anni, quindi ho fatto quel disco come àncora di salvezza e so che potevo farlo molto meglio. Ricordo bene anche quell’intervista, il giorno in cui l’ho fatta, cosa era successo prima e cosa era successo dopo. Quando la rivedo, mi dispiace: perché avrei potuto dare risposte meno stereotipate. Ora sto facendo dischi in modo diverso anche grazie, come dicevamo nella prima domanda, al confronto che ho con i ragazzi e i produttori nuovi: Zazza, Zero Vicious, Joe Viegas e Ch3f Beats su tutti. La cosa che li contraddistingue è che collaborano, questo fa veramente la differenza. Per quanto riguarda i miei ascolti, ascolto un po’ tutto. Ascolto le nuove uscite, e ho dei dischi di riferimento che mi riascolto sempre. Quando nello shuffle di Spotify mi capita “A Long Hot Summer” di Masta Ace, uscito nel 2004, penso sempre “Che figata!”. Ovviamente ascolto anche cose nuove, ma quelle vibes lì mi piacciono un sacco! Mi piace molto poi Griselda e J. Cole.
In un mondo che litiga, hai voluto far dialogare i rapper: “Ge Unit” ne è la prova. Com’ è nata la saga di “Ge Unit”?
Quando ho fatto gli “Shot” mi sono detto che sarebbe stato figo fare una posse tutta genovese. Sono cresciuto con le posse, mi sono sempre piaciute. A Genova poi abbiamo avuto esempi giganti, come quella che aveva fatto Albe Ok con Tedua: “Genova vs Everybody”. Come altri esempi di posse cut ti cito “Quelli che trovi qui” di Demo e le posse cuts dei Mad Boys. Quindi ho proposto una cosa simile ai ragazzi che ci sono adesso, toccando un po’ tutte le generazioni. Mi ricordo che proposi ad un sacco di gente di partecipare: Albe doveva esserci, Gorka doveva esserci, Pensie doveva esserci. Il video lo abbiamo fatto con School Project, Simone Mariano, uno dei miei migliori amici e sono felicissimo della carriera che sta facendo. Diede l’anima per fare quel video nel miglior modo possibile e sono proprio contento di come sia uscito. Poi invece, per “Ge Unit Pt.2”, mi sono totalmente affidato a Zazza perché gli ho detto “Proponimi della gente che secondo te è forte e poi la valutiamo assieme”. Abbiamo coordinato le cose, l’abbiamo chiusa, ed è uscita. L’aspetto più gratificante è che si è creata una bellissima sinergia tra tutti i rapper che hanno lavorato a questa saga.
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L’ultimo live in cui hai suonato a Genova, sono stati i Giardini Luzzati, protagonisti anche de “Il Provinciale”, docuserie andata in onda su Rai 3 sabato 24 febbraio. Che significato ha questo luogo per gli artisti di Genova? Com’è stato il mondo del clubbing nella tua città?
I Giardini Luzzati sono nati quando mi ero già trasferito. I Luzzati sono un progetto gigante che si è creato negli ultimi anni e ho avuto la fortuna di suonarci qualche volta. È un bel progetto che hanno fatto per il quartiere. Poi i club a Genova hanno una storia gigantesca: sia a livello di rap, sia a livello di musica commerciale. Per quanto riguarda il rap, mi ricordo che andavo al Fitzcarraldo come cliente nel ’98-’99. Successivamente, ho avuto la fortuna di suonarci. Da lì è partita la mia carriera come dj da club e alla fine ci siamo trovati con Zena Art Core a suonare in situazioni dove dovevi far ballare, quindi ho dovuto imparare a far ballare la gente. Ho visto che mi riusciva bene, e ho visto che la gente ci stava. Ricordo che un periodo, qui a Genova, facevo quattro serate a settimana: avevamo creato un bel movimento e i locali incominciavano a chiamarci. All’inizio facevamo i sabati al Vanilla con dj Vick, facevo le serate al Luna Rossa di Alessandria con Fabrizio Risso dove gli eventi erano organizzati da Zanna, il manager di Emis Killa. Poi ancora serate al Cala Loca di Cogoleto, fino ad arrivare nel 2011 all’AQA, in Corso Italia. Il locale era colmo di gente e da lì in poi, tutti i venerdì, era bellissimo suonarci! Ad un certo punto ricordo che vidi la necessità di chiamare a lavorare con me il dj della Blazer Crew e si creò un punto di aggregazione Hip hop fortissimo: alle serate venivano Tedua, Izi, Dala, c’erano proprio tutti! Purtroppo gli anni passano e nel 2019 chiudemmo le serate. Il locale, purtroppo, è stato dato alle fiamme ed è rimasto un relitto bruciato. Appena successe scrissi sui social che la storia dell’AQA era stata talmente rap, talmente mitologica, che non poteva non finire così – non poteva che finire tra le fiamme! Ti ringrazio per avermi fatto venire in mente quegli anni, perché ho ricordi davvero belli di quel periodo.
Oggi stiamo assistendo a molte reunion di gruppi storici. Cosa ne pensi? Che bilancio fai della carriera in gruppo e della carriera da solista?
A me piace il concetto di reunion perché sono un nostalgico, quindi tutte le cose che riguardano il passato mi piacciono. Ovviamente devono essere cose di valore: non devono solamente scimmiottare un periodo passato. I Club Dogo, per esempio, hanno colpito nel segno perché sono loro, adesso, in questo momento! Quelli che criticano la reunion dei Club Dogo cosa si aspettavano che facessero? Hanno fatto i pezzi dei Club Dogo. Non mi aspetto che Guè si metta a fare il filosofo. Ascolto Guè perché voglio ascoltare quella roba lì, come la fa lui. Se li critichi adesso, allora li dovevi criticare anche nel 2003. Forse “Mi Fist” e “Penna Capitale” erano leggermente più rivoluzionari? Quello magari sì, però sono sempre stati zarri e lo sono ancora oggi.
Il tuo nuovo Ep, “Dipendenze”, che uscirà il 5 aprile è in collaborazione con Laba. Ha un titolo ed una copertina di forte impatto. Qual è la genesi di questo progetto?
Su “Ge Unit” avevo scoperto molti artisti che mi piacevano un sacco: Laba era uno di questi. L’anno scorso ci siamo scritti, e gli girai il beat della traccia “Dipendenze”. Mi ricordo che avevo il provino in macchina e mio figlio mi chiedeva di metterlo dalle 10 alle 15 volte al giorno! Gli piaceva tantissimo. Così mandai a Laba altri beat ed è nato poi l’EP. La copertina l’ho affidata ad Albe Ok e il concept mi piace molto: tutti i brani toccano come argomento le dipendenze, una questione molto attuale. C’è la dipendenza da sostanze, quella dai social network, quella dal denaro, quella dal successo, e mi è piaciuto questo: che ogni pezzo tocchi questi argomenti. Quindi, per me, chiamarlo “Dipendenze” era un messaggio molto forte. Albe poi si è inventato questa copertina dove il simbolo è un cuore che raffigura la purezza e che vola pericolosamente vicino al filo spinato: non sai se lo tocca, però il pericolo c’è e bisogna stare molto attenti. Il concept è rappresentato da un bambino che lascia andare questo palloncino a forma di cuore. Cuore che, anche diventando adulti, resta fragile ed esposto alle dipendenze. Vorrei lasciare qualcosa di tangibile per aiutare le persone a cui tocca questo viaggio.
“Dipendenze” abbiamo avuto il piacere di poterlo ascoltare in anteprima. L’EP, oltre alla collaborazione con Zero Vicious, contiene due citazioni di spessore: Marracash in “Sindrome Depressiva da Social Network” e Lil Wayne in “Uproar”. Perché queste scelte?
A me piace molto, come ti raccontavo prima, immedesimarmi nel testo e trovare una reference che possa integrarsi bene sia a livello di concetto, sia a livello di sound. Molte volte vado a memoria con i pezzi che ho ascoltato. Oggi poi con Genius è molto più semplice trovare le parole chiave: un tempo dovevi trovarti il vinile, mentre adesso il processo è più veloce. La reference di Marra era veramente la barra perfetta. Lui ha fatto quel pezzo, appunto, sulle dipendenze dai social network. Ho intitolato il brano “D&L” (drugs & love) e mi è venuto spontaneo usare quella barra di Marracash. Un’altra citazione è di Machine Gun Kelly con “Baby This Love Kills” in “Rehab”. La citazione di “Uproar”, invece, l’ho fatta perché, banalmente, la voce di Lil Wayne suonava da Dio. Il senso della sua citazione è che, crescendo veloci, si possono fare molte cose sbagliate: inizi a fumare, inizi ad atteggiarti da duro, ma serve in realtà molto tempo per crescere veramente!
Alle tue spalle ci sono quasi 30 anni di musica. Perché Dj Kamo è ancora Dj Kamo? Cosa c’è nella tua agenda per il 2024?
Non so perché Dj Kamo sia ancora Dj Kamo… Forse è il desiderio di non crescere mai, e il rap mi fa sempre essere giovane. Forse è questo il motivo per cui ancora adesso ho voglia di fare musica: anche la sola possibilità di mettermi a casa e fare un beat mi tiene vivomi entusiasma! Poi il fatto che qualcuno mi ascolti, a qualcuno piaccia e qualcuno voglia anche approfondire, mi fa star bene. Nella mia agenda, invece, si stanno aprendo nuove frontiere sulla produzione: quindi sono parecchio in studio. Sono in continua evoluzione perché non si finisce mai di imparare. Ho in cantiere altri 4 EP e… poi c’è una big news per il 2024, che però non posso ancora anticipare. Una big news che porterà un sacco di “Changes”!