Abbiamo incontrato Khalab nel suo studio romano scoprendo, oltre che un musicista assolutamente ispirato, una persona con la quale affrontare, con sincerità e schiettezza, molti temi legati all’oggi musicale. L’intenzione era quella di approfondire i temi e la visione dietro al suo ultimo disco edito per la Wonderwheel Recordings, “Khalab & Baba”, e abbiamo ottenuto molto di più, trovando un’interlocutore interessato a raccontare e raccontarsi, far ascoltare i suoni che lo hanno ispirato per rendere intellegibile il suo personale mondo produttivo, fatto di viaggi mistici e di ricerca sul suono. Tra radici e futuro, l’Africa e l’ignoto.
E’ recentissima la pubblicazione del secondo singolo tratto dall’album Khalab & Baba, “Bognya”, che contiene anche due remix a firma di Clap! Clap! e LV. C’è il tuo suono e quello di Baba Sissoko, il lavoro sul beat di Clap! Clap! e la visione di un duo di produttori che ha registrato per Hyperdub e Brownswood Recordings.
Hai ragione, dentro a questa seconda uscita c’è tutto quello che in questo momento mi piace di più. E’ il singolo che forse rappresenta meglio l’intero discorso che è dietro il suono di Khalab & Baba. Poi c’è l’apporto di Cristiano, che è un genio, e anche in questa occasione ha realizzato un remix che funziona benissimo e anche gli LV, che hanno iniziato molto prima di me e Clap! Clap! a fare questo lavoro, loro si rapportano con poeti della cultura afroamericana, hanno una consapevolezza molto forte che poi si riflette nelle loro produzioni, li adoro per questo. Inoltre loro non cercano mai la soluzione più d’effetto ma sono degli autentici intellettuali nel loro lavoro.
Il primo estratto è “Tata”, nominata come la migliore traccia dell’anno dell’undicesima edizione della prestigiosa rassegna Worldwide Awards a cura di Gilles Peterson. Raccontaci com’è andata.
Ai Worldwide Awards sono stati premiati due musicisti, io e Baba Sissoko, che hanno fatto un disco bello. Non voglio assolutamente sminuire la cosa, però mi piace pensare che questa vittoria sia il frutto di un percorso che viene da lontano. Potrei dire che è il naturale risultato del far bene le cose. Sai, non mi pongo mai un obbiettivo quando faccio musica. Mi chiudo nel mio studio ed inizia una sorta di processo di meditazione dal quale vengono fuori i brani, uno dietro l’altro, come se fosse un viaggio mistico. I suoni sono il riflesso della mia condizione.
E’ per questo che hai deciso di far parlare solo la tua musica, mantenendo un certo riserbo sulla tua vera identità. E’ una scelta nobile considerato che nell’ambiente musicale sei molto conosciuto. Credo anche che l’utilizzo dello pseudonimo serva a svincolare il suono dalla persona fisica, come se la musica diventasse esplorazione totale. E’ così?
Lo pseudonimo Khalab è nato praticamente dieci anni fa, lo utilizzavo quando avevo una attività parallela come dj durante le serate di Afrodisia che si tenevano al Rialto (laboratorio creativo a due passi da Trastevere, nda). Non volevo mischiare troppo le carte in tavola e, occupandomi anche a quel tempo di molte cose tra radio, attività di promoter e consulente musicale, non volevo fare tutto con il mio nome vero. Khalab era una cosa esplicitamente privata, intima, con la quale esprimermi evitando sovraesposizioni di sorta. Poi, tre anni fa, in un periodo di forte stress, decisi di staccare un attimo la spina isolandomi in studio per dedicarmi esclusivamente alla musica, lasciai tutte le incombenze in mano ai miei collaboratori. Non avevo intenzione di produrre un disco, ma volevo semplicemente tirare fuori tutto quello che sentivo dentro.
Ed ecco quindi il ritorno di Khalab.
Si, lo avevo risvegliato. Dopo aver registrato moltissimo materiale, almeno una ventina di tracce, mi contattò la Black Acre, che aveva apprezzato un mio pezzo su SoundCloud. Invitò me e Clap! Clap!, che tenevano d’occhio già da un po’, a spedirgli del materiale. Visto che Cristiano, che è un amico, è molto più prolifico di me, oltre ad avere una visione in musica straordinaria, ci concentrammo prima sulla sua uscita, l’album Tayi Bebba, che ha dentro un mio featuring sul brano “Sahkii’s Elevation”. Poi, sono d’accordo con te sul fatto che il moniker serve per andare oltre qualunque connotazione territoriale. Questo mi sembra importante sopratutto al tempo di oggi, in cui la musica è davvero globalizzata, ma non nel senso che tutti fanno la stessa cosa, ma per il fatto che tutti utilizziamo gli stessi strumenti. E’ lo strumento che è globalizzato, in tutto il mondo possono essere utilizzate le stesse macchine e gli stessi software per produrre musica, cosa inimmaginabile ad esempio nel folk, dove l’armonia è in stretta relazione con gli strumenti caratteristici legati ad una tradizione ben precisa ed a luoghi definiti.
Nel disco c’è senza dubbio l’Africa, il suo ritmo e la sua spiritualità, ma c’è anche la contemporaneità in musica. L’etichetta “afrofuturismo” la senti davvero tua? Te lo chiedo perché reputo le definizioni sempre limitanti, come dare un connotato geografico a qualcosa che confini precisi non può averne.
Capisco quello dici, ma credo che il problema stia sopratutto nel fatto che il termine afrofuturismo sia, mai come oggi, abusato. Io mi ci ritrovo in questa definizione perché il mio lavoro è da sempre interconnesso con l’Africa, che frequento e studio da almeno vent’anni. Mi rapporto con essa non da appassionato ma da ricercatore. Dalla musica africana sono passato a quella afroamericana e poi alla musica elettronica, quindi dentro a questo percorso ci sono anche i suoni di Sun Ra, Herbie Hancock e John Coltrane, per dire. Questo viaggio, tra radici e futuro è tradotto bene dal termine afrofuturismo, ma la sua accezione, nel mio caso, è concettuale prima ancora che musicale.
Se la metti in questi termini diventa tutto più chiaro, come guardare indietro, al suono ancestrale da dove tutto è iniziato, per esprimersi qui e ora, con quello che hai a disposizione. Dicci qualcosa di più sul concetto che si cela dietro all’album. Come mai in copertina, tra disco e singoli, c’è sempre la stessa figura misteriosa?
La figura che vedi in copertina è tutto ciò che per me rappresenta Khalab, vale a dire un alieno nero che è venuto a farmi visita durante il mio viaggio immaginifico in studio di registrazione, parlandomi con la lingua musicale dell’Africa. E’ venuto a dimostrarmi che nel futuro più prossimo il paradigma sonoro sarà nuovamente quello africano, dal quale tutto è iniziato. Credo davvero che l’Africa vivrà la sua rivincita culturale, storica e sociale attraverso la propria creatività artistica, sopratutto quella musicale.
Sei in ottima compagnia e su simili coordinate “extraterritoriali” ci sono Clap! Clap! e Populous con i quali hai collaborato più volte, ma anche una schiera di giovanissimi produttori più che promettenti, penso a Go Dugong, Montoya e Capibara.
Sarò sincero, mentre si potrebbe parlare di qualcosa che va oltre la semplice collaborazione tra me, Clap! Clap! e Populous, è ancora presto pensare di creare un ponte anche con gli altri nomi che hai fatto. Ma non è una questione di bravura, Go Dugong e Capibara, per esempio, sono ragazzi in gamba che sento quotidianamente, che mi piace supportare e che ho sempre promosso attraverso il mio lavoro quando non sono Khalab. Ma ad oggi il loro modus operandi è ancora strettamente legato all’underground musicale, soprattutto se paragonato con quello di Cristiano, che ha un’esposizione mediatica incredibile, che gira il mondo come headliner e che è inserito nel catalogo publishing della Warp.
Torniamo alla tua musica, sento che la componente di improvvisazione sicuramente conta di più di quella razionale, non sei uno di quelli che passa ore ed ore a rifinire i singoli suoni.
Non sono assolutamente un malato del suono, in questo mi sento davvero come un africano che si esprime a seconda delle proprie necessità. Nel Congo, per esempio, ci sono degli strumenti fantastici che vengono suonati con il pollice, infatti vengono genericamente chiamati “piano a pollice” ed esistono in tutta la musica africana. Sono di piccole dimensioni in modo da essere maneggiati con una mano sola (ne prende uno dal suo studio e comincia a suonarlo, ndr). Questo è uno degli elementi principali del mio suono, sia come Dj Khalab che come Khalab & Baba. Un suono stupendo che viene fuori accarezzando i tasti laminati con il pollice. Immagina tribù intere a suonare questo strumento. Poi, con l’urbanizzazione che avanza, questo suono prodotto nelle città assume toni diversi, perché per farsi udire bisogna calcare sullo strumento in modo diverso, creando delle distorsioni (l’effetto distorsione che sta producendo ora Khalab è totalmente diverso dal suono precedente, per certi versi simile al glitch ndr). Se non c’è la necessità oggettiva non nasce niente e quindi per me il suono è questo, non mi interessa stare ore ed ore per cercare la giusta compressione di un basso, mi interessa ricreare un paesaggio sonoro che mi possa ispirare. Mi interessa più l’estetica che l’aspetto tecnico.
E quindi il tuo processo creativo parte proprio da queste suggestioni autoindotte.
Esatto, come detto cerco di costruire un paesaggio sonoro e pian piano ci entro dentro e mi lascio condizionare. Ci sono una serie di strumenti che mi aiutano a creare questo mood, sono di origine sciamanica e quindi in origine servivano proprio a questo (recupera altri strumenti nel suo studio e me li mostra ndr). Queste per esempio sono unghie di capra essiccate con le quali faccio gli shake, e poi insieme ad battere di legni di vario tipo inizia il sottofondo del mio processo creativo. Magari poi aggiungo la voce oppure la batteria, eccetera. Non so se questa cosa che ti dico è controproducente dal punto di vista del marketing, ma nel mio caso è così che funziona, non ho mai l’idea geniale da tradurre in musica, è piuttosto un lento processo di meditazione che fa uscire fuori i suoni.
Mi hai ricordato una cosa che mi disse Roy Ayers in una recente intervista. Per lui il processo creativo è tutta una questione di istinto, cit. “Quando creo musica accade qualcosa di inspiegabile. Alcuni lo chiamano momento creativo oppure dicono che si formi una sorta di atmosfera particolare. Per me è un po’ entrambe le cose, si suona un accordo o ci si concentra su un elemento anziché un altro, ed all’improvviso emerge il tuo io creativo, che segui fino in fondo, è incredibile quando questo accade, poi riascolti ciò che hai prodotto e dici wow!”
E’ esattamente la stessa cosa che ti ho detto io. Anche per me non potrebbe funzionare altrimenti. E ti dico di più, quando ho riascoltato la prima volta il disco con Baba, ho capito che era accaduta una cosa incredibile, probabilmente irripetibile.
Qual è la cosa più importante che ti ha dato la collaborazione con Baba Sissoko? Magari c’è un aspetto della sua musica che vuoi condividere con noi.
Una cosa bellissima che ho imparato da Baba è l’andare sul palco senza nemmeno scambiare una parola prima. Io sentivo la responsabilità di esibirmi con lui al meglio, quindi provavo a chiedergli qualcosa, di accordarci sul mood della serata, cose così, e lui invece nulla, e poi nascevano delle cose incredibili. Con lui ho capito davvero cosa vuol dire suonare con un musicista e non limitarsi a fare le basi sulle quali poi un’altra persona improvvisa. Con il suo atteggiamento mi ha spinto ad essere più aperto possibile, anche dal punto di vista del set up. Una volta mi ha anche costretto a suonare le percussioni dal vivo… io le so usare da produttore, quindi sostanzialmente male, eppure tutto è andato per il meglio.
Una domanda provocatoria, la tua musica tra dieci anni varrà ancora quanto oggi?
Secondo me il mito della musica che deve durare per forza nel tempo è morto, com’è morto il rock stesso. Non è più il tempo del disco che viene comprato da una persona che poi lo ascolta per sei mesi o un anno di fila, fino all’uscita di quello successivo dello stesso gruppo. Questo tipo di atteggiamento è sbagliato ed ha creato la generazione di nostalgici che ritengono i Beatles e i Rolling Stones le formazioni più importanti di sempre e che non ascoltano altro che la musica di quando avevano 15 anni. Credo che si debba ascoltare un disco come si fruisce di un’opera d’arte, con la giusta laicità, fino a quando se ne ha voglia e poi basta, senza mitizzare niente e nessuno.
Dj Khalab in cinque brani. Quali sceglieresti?
Dal disco Khalab & Baba scelgo “Bognya” e “Nana”, che sono due pezzi che parlano molto bene di me e Baba. Dall’ep per Black Acre, Eunoto, scelgo “Substance” che rappresenta più di ogni altra traccia il viaggio all’interno nel mio studio di produzione del quale ti ho parlato prima, ben rappresentato anche dal video realizzato. Naturalmente scelgo anche “Sahkii’s Elevation”, la mia prima collaborazione con Clap! Clap! dove c’è il coattume sfacciato di Cristiano e dall’altra parte la mia necessità di tenere ferma la connessione con il suono autentico dell’Africa. Per finire, dal mio Beat Tape scelgo “Fever Dancer” e “Before She Pass Away” che mi rappresentano moltissimo, sopratutto dal punto di vista concettuale. L’intero mixtape è ispirato alle microstrutture sociali africane, che purtroppo stanno scomparendo. Contiene il suono campionato di quelle tribù e nient’altro. E’ un disco molto crudo, è la verità, senza sovrapproduzioni.
Hai già in mente qualcosa per il prossimo futuro?
Ti dirò un paio di cose che ancora non sa nessuno. Il lavoro che sta dentro al mixtape mi ha portato a ricevere un bellissimo riconoscimento da parte dei curatori del “Royal Museum for Central Africa” di Bruxelles, che per il suo tema è uno dei più importanti in Europa. Mi permetteranno di avere accesso a tutto il catalogo di field-recordings frutto del lavoro di registrazione di moltissimi musicologi europei negli anni ’50, ’60 e ’70. Sono tutte registrazioni in vinile fatte nell’Africa subsahariana e mi hanno dato l’autorizzazione a campionare ciò che voglio per produrre un nuovo disco. Sarà il nuovo album di Khalab. L’altra anticipazione esclusiva riguarda me e Clap! Clap!, stiamo lavorando ad un disco di inediti, si chiamerà “Khalap Khalap” e dentro ci saranno delle collaborazioni importantissime con molti musicisti africani che stimo molto. Abbiamo già una decina di pezzi pronti, quindi l’attesa è quasi finita!