Lo stanno ripetendo in tanti, ce lo stanno ripetendo in tanti: il mondo, dopo questa pandemia, cambierà – nulla sarà più come prima. Mah. Sicuro sicuro? Non ne siamo così convinti. E’ ancora impossibile fare delle previsioni, in realtà: nel pieno del contagio e dell’ansia, nel mezzo di una situazione critica, tutti siamo pronti a dire “Basta, se supero questa da domani in poi cambio vita, smetto di far cazzate, non accetto più quello che non va”; ma nulla di più facile che poi, quando si inizia a rivedere la luce in fondo al tunnel e quando proprio dal tunnel si sta uscendo, ci si limita a tirare un sospiro di sollievo – “Wow, me la sono sfangata” – e dei buoni propositi esalati nei peggio momenti si fa un coriandolo, come non ci fossero mai stati, giusto un lontano, pallido ricordo di tempi difficili su cui non tornare più sopra.
Però per quanto riguarda il clubbing la situazione è un po’ diversa. Questo perché c’era già una crisi in atto, uno stato di difficoltà per tutto il settore; con virtuose eccezioni ovviamente, come in qualsiasi settore, ma con anche la caratteristica che pure molte eccezioni virtuose erano comunque tirate parecchio, come equilibrio economico, quindi figuriamoci. “Non fate l’onda, non fate l’onda”: ve lo ricordate, come modo di dire? Era quello che urlava l’uomo già immerso nel letame fino al collo. E l’onda, sotto forma di CoVid-19 è arrivata, forte come nessuna onda in passato. Forte per il mondo intero e per tutti i comparti produttivi, ancora più forte per il mondo dell’intrattenimento e degli eventi: visto che è stato il primo a chiudere, sarà l’ultimo a riaprire. E tutti gli eventuali palliativi on line saranno, appunto, solo dai magri, rachitici palliativi.
Ora. Abbiamo già fatto un lungo punto della situazione una decina di giorni fa, lo potete leggere qui, ed ha avuto grandissima circolazione: segno che c’è voglia di discutere, di ragionare, di immaginare scenari di ripartenza. Da tutto quell’articolo, già molto lungo di suo, è rimasto però volontariamente fuori un argomento che volevamo affrontare a parte. Un argomento abbastanza cruciale. Un argomento anche pericoloso, perché si presta a derive “populiste” di cui, francamente, in questo momento sarebbe davvero meglio fare a meno. Perché ora si tratta di ricostruire, appena sarà possibile, e bisognerà farlo con l’aiuto e la collaborazione di tutti, non sbraitando ed agitando i forconi e cercando capri espiatori. Quelle cose le facciamo fare agli ingenui. O ai leader politici senza coscienza e senza morale, buoni solo a dragare consenso a breve termine per se stessi, bravi loro.
L’argomento è: i guadagni dei dj/artisti. E come corollario: il comportamento di management ed agenzie – ovvero le strutture che ruotano attorno ai dj/artisti, e che esistono (anche) per moltiplicare i guadagni dei dj stessi. “Nulla sarà più come prima”, per quanto riguarda il clubbing, in molti casi trascolora in “E’ finita la pacchia maledetti dj dai guadagni assurdi, avete smesso di succhiarci il sangue, voi e le vostre agenzie e i vostri management parassiti e i loro giochetti al rialzo”, tutto questo detto con più di un ghigno di soddisfazione. Come a dire: c’avete sfruttato finora, guadagnando l’impossibile mentre noi eravamo sempre più nella merda, ora vedrete la stangata che vi arriva, stronzi. Giusto? Vi torna il riassunto?
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Ora, c’è un dato di fatto. Il costo per data di un dj di fascia alta è, nell’ultimo decennio, aumentato oltre ogni indice globale d’inflazione e, probabilmente, oltre ogni ragionevolezza apparente. E’ letteralmente esploso. Parliamo di “fascia alta” e non solo di “top dj”, eh: perché tanto per dare delle cifre di riferimento, un dj headliner da festival dieci anni poteva costare cinquantamila euro al massimo e ora invece arriva a costare fino a dieci volte tanto, ma anche la fascia medio-alta ha subito degli spostamenti incredibili, e non coerenti col tasso globale d’inflazione: un tempo – sempre parliamo di dieci, quindici anni fa – la fascia medio alta era compresa a spanne tra i duemilacinquecento euro e i cinquemila, oggi invece tra i diecimila e i trenta, quarantamila. Un aumento esponenziale. Pure i dj a meno prezzo e più di nicchia, almeno alcuni di essi, sono passati dal non superare quasi mai la soglia psicologica dei mille euro fino a chiedere, in scioltezza, il triplo se non il quadruplo.
Tutto questo è successo per un solo motivo: le agenzie, i management. Strutture messe lì con un compito preciso: massimizzare i guadagni, moltiplicarli. Lo fanno per i loro clienti – gli artisti, i dj – e lo fanno pure per se stessi, perché più aumentano il giro d’affari più si mantengono, più riescono a pagare stipendi, più rendono felici chi lavora per loro oltre che il proprio conto in banca. Gli artisti dal canto loro sono contentissimi di questo proliferare di agenzie e management a cui affidarsi: possono smarcarsi completamente dalla “volgare” trattazione sui soldi, dal difficile compito di dire “sì” a qualcuno e “no” ad altri; o dall’umiliante pratica di dover cercare di scalare le classifiche del prestigio a colpi di richieste in prima persona a promoter e media; soprattutto, non solo delegano queste cose ad altri, ma le affidano a chi è bravo – almeno sulla carta – ad ottenere sempre di più per loro, sempre di più, sempre di più, sempre di più.
Il magico equilibrio dell’economia capitalista. Che ha proprio nella sua ratio il criterio della crescita continua come architrave di tutto. Non bisogna però per forza conoscere (e apprezzare) Marx per sapere che anche l’economia capitalista non è una linea retta: procede anch’essa per scossoni, vive anch’essa delle crisi, talora in modo generalizzato, talora in modo più intenso in specifici settori. Ogni tanto, arriva il momento di profondi aggiustamenti e riallineamenti. All’inizio, aggiustamenti e riallineamenti anche parecchio dolorosi.
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C’è però una cosa da sottolineare. Se pensate che la soluzione di tutto sia infamare artisti, agenzie e management per i loro guadagni, e se date a loro la colpa dei mali del mondo (e del clubbing), avete la profondità d’analisi di un pollo. Ad esempio, finite col dimenticare che proprio la crescita del ruolo e dell’importanza dell’artista, e lo svilupparsi attorno ad essi di strutture “secondarie” come agenzie e management, hanno fatto sì che il mondo dell’industria dell’intrattenimento “notturno” (chiamiamolo così) con gli anni ’90 sia riuscito a rinnovarsi profondamente, a far emergere nuove realtà, nuove pratiche, nuove idee, nuove connessioni mondiali, nuove fortissime economie e professionalità. Non ci fosse stato tutto questo, saremmo ancora alla discoteca anni ’80, al dj resident scarso che mette solo le hit, allo sciampagnino, al divertimentificio da strapaese a cui francamente non vogliamo assolutamente tornare indietro (e per ciò che è rimasto, di quel mondo lì, nessun problema: i gusti son gusti, per carità, a molti piace ancora. Ma è un dato di fatto che è un modello perdente, morente, residuale… chi non si innova, muore. Anche questa è una legge dell’economia in cui viviamo).
Diciamo insomma grazie a chi e a ciò che ha reso “importante” l’artista. Diciamo grazie a chi e a ciò che ha messo l’artista in console il centro della serata (o di un festival), invece di delegare questo ruolo solo alla “bella gente”, ai drink iper-costosi, alle ragazze immagine, alle puttanate da animazione da villaggio turistico. Diciamo fortissimamente grazie. E questo grazie va agli artisti che ora sono forti sul mercato, alle loro agenzie che ne hanno massimizzato il valore, ai loro management che ne hanno costruito con professionalità e cura del dettaglio la carriera. Il fatto che molti artisti e moltissime agenzie e management ad essi collegati ora siano avidi ed irrefrenabili creatori di costi supplementari non deve far dimenticare il ruolo fondamentale che hanno avuto nello sprovincializzare e modernizzare il mondo dell’intrattenimento notturno in Italia e, in realtà, nel mondo. Troppo facile ora agitare i forconi e basta. Bisogna avere davanti un quadro complessivo, e meditato: sennò vi meritate il dj che suona solo le hit evergreen o che è in console solo perché è il cugino del proprietario (o perché fa pure il PR e quindi porta un fracco di gente in serata). Sono state le agenzie e i management a spezzare questo circolo vizioso; e a farlo sono stati pure gli artisti bravi o anche solo bravini che sono diventati, finalmente, “importanti”. “Importanti” per quello che fanno, per quello che suonano, per l’aura che li circonda, per il rapporto diretto che hanno col pubblico e per la loro capacità di gestirlo, senza farsi ricattare dal localaro e da dinamiche da strapaese.
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A questo ruolo positivo e “di rottura” è però progressivamente succeduto, come per certi versi fisiologico, un progressivo deteriorarsi di alcune dinamiche. Nel prendere sempre più potere, le agenzie e i management hanno finito coll’averne troppo: “pilotare” la programmazione dei locali o le pubblicazioni dei media, influenzare i gusti dell’audience a seconda di criteri di propria convenienza economica ed operativa, cose così. Soprattutto, iniziare a guardare solo ed esclusivamente al proprio interesse: pazienza se un locale o un festival fallisce, ce ne sono altri tre in fila pronto a prendere il suo posto, il mio unico compito è guardare ai miei interessi (che poi sono quelli degli artisti che rappresento), quindi cazzo-me-ne se qualcuno ci lascia le penne, è la vita, è l’economia, è il naturale darwinismo del mercato, sopravvivono i migliori… No?
No.
…no, perché ora la festa è finita e all’orizzonte c’è uno scenario che ha l’aria di ripresentarsi – se e quando si ripresenterà, tra l’altro – molto, molto mutato. Questo anche perché proprio l’ecosistema di artisti importanti, agenzie e management nell’ultimo decennio si è abbastanza disinteressato della “salute” economica dell’ambiente in cui opera ed agisce, pensando che se c’era salute per sé allora più o meno ce n’era per tutti, massì. Le richieste sempre più voraci in termini di cachet e di orientamento artistico hanno impoverito economicamente (ed anche a livello di idee!) il “core” del clubbing italiano ed europeo. Anche i club migliori, quelli con gli artisti più importanti (anzi, forse soprattutto loro…), hanno iniziato a vivere una vita sospesi su una lastra di ghiaccio a primavera: perché per fare parte della “Top League” (dei club, dei festival) sei stato aizzato a partecipare ad una continua “corsa al rialzo” che ha reso davvero esigui, sottilissimi i margini. Agenzie e management in fondo hanno fatto il loro lavoro: sono andati a cercare soldi e guadagni lì dove li vedevano, a qualsiasi costo, senza porsi troppo il problema della salute e della tranquillità di chi li ospita, supporta e paga. Il problema è che in questa maniera sono diventati una cellula tumorale dell’ecosistema dell’intrattenimento. Nell’illusione capitalista da supply-side economics, stile “…se cresco io prima o poi crescono tutti e siamo tutti contenti”, si è andato progressivamente ad indebolire il sistema immunitario dell’organismo che ospita la cellula in questione: a furia di obbligare i promoter a margini sempre più risicati e ad operazioni sempre più rischiose, i promoter sono diventati debolissimi. “Non fate l’onda”, appunto. E ora l’onda c’è. Pesante. Pesantissima.
Ma qui bisogna parlare anche del pubblico. Di noi. I promoter infatti non vanno ad inseguire i top dj strapagati solo per dimostrare di avercelo più lungo, o perché sono schiavi del carisma (e delle prebende sottobanco) di agenzie e management: la verità sta anche nel fatto che siamo noi pubblico ad esserci impigriti, ad aver perso il gusto della scoperta, a fare insomma più attenzione al “tasso di hype” di quello che ascoltiamo o dei posti che frequentiamo invece che a quello che ci potrebbe divertire realmente (magari a poco prezzo, magari lontano dagli occhi delle mode e dei riflettori). La “corsa al massacro” in cui si sono infilati i promoter e che è promossa ed aizzata da agenzie a management per i loro comodi (e i sorrisi a trentadue denti degli artisti che rappresentano) nasce anche dall’impulso dell’anello finale della catena dell’ecosistema, cioè noi. Abbiamo poco da incazzarci se ormai l’artista X prende millordici fantastiliardi a dj set, o il producer Y fattura al mese l’equivalente di una azienda di media dimensioni; abbiamo poco da dire che è “scandaloso” che un dj prenda due, cinque, dieci, venti, cinquanta, duecento, cinquecentomila euro per un’ora e mezzo di lavoro: perché se questo accade – e sta accadendo – è solo perché noi siamo lì in fila pronti a comprare il biglietto, e più un evento è “gonfiato” (nei costi, nelle strutture, nelle spettacolarità, nel battage mediatico) più evidentemente siamo pronti a sostenerlo ad ogni costo. Provate a dir di no. Lamentarsi poi dell’immoralità dei guadagni di un artista o di quanto sono bastarde le agenzie, beh, è lacrime di coccodrillo. Sono maledettissime lacrime di coccodrillo. Perché questo sistema così sbagliato, questo sistema fondamentalmente tumorale, lo stiamo alimentando noi per primi. Noi pubblico. Col nostro comportamento, con le nostre scelte.
Ecco, fatta l’analisi. Ma le “belle analisi” servono più a far bella figura a chi le fa, che a cambiare realmente le cose. Ci vogliono le proposte. E allora, proviamo a buttarle giù.
Prima di tutto: agenzie e management e dj devono rendersi conto che nell’ultimo decennio sono stati in una posizione di grande vantaggio, soprattutto questi ultimi. Senza rischiare nemmeno un centesimo di tasca loro (o quasi), hanno infatti visto aumentare la fetta di torta a loro disposizione in maniera esponenziale. E’ vero: anche la torta è diventata più grossa. E’ vero: se la torta è diventata più grossa, in primis è merito loro. Ma resta il fatto che nell’ecosistema del divertimento “da club” sono quelli che più e meglio hanno prosperato. Ora che c’è una crisi reale in atto, non più mistificabile con “Non è colpa nostra se c’è chi non è in grado di stare il mercato o fa il più passo più lungo della gamba”, devono dimostrare responsabilità ed iniziare ad abbattere i loro costi e le loro richieste. Se tu sul mercato valevi cinquecentomila euro, è arrivato il momento di chiederne duecentocinquanta; se sul mercato valevi cinquanta, ora devi chiedere venticinque; se valevi venti, ora devi chiedere dieci; se valevi cinque, ora devi chiedere tre. E se per caso valevi cinquanta ma sei nella condizione di chiederne per un po’ di tempo tre, senza in questo modo far perdere il lavoro a nessuno nelle strutture che ti aiutano, beh, faresti meglio a chiederne tre. Perché quello che per te è una rinuncia sopportabile, per altri (non solo i promoter: a cascata anche i comuni lavoratori, baristi, sicurezza, tecnici…) potrebbe essere ossigeno per sopravvivere. Renditene conto. Sii responsabile. E generoso, se puoi.
…ma anche tu, pubblico, devi diventare responsabile. Basta inseguire sempre e solo i soliti nomi, i “brand internazionali” del clubbing. Dai attenzione anche ai “local heroes” e ai talenti più freschi ed inediti, perché in origine il clubbing era avventura&scoperta, non rassicurazione e messa cantata. Fai attenzione a chi si focalizza tanto sulla musica e poco sulle cose accessorie (gli investimenti sui social, il lottare per fare parte di una agenzia “potente”). Privilegia i promoter che ti trattano bene: quelli che stanno investendo sulla qualità della tua esperienza, non che ti ammassano come carro bestiame in pista e che ti lasciano appeso lì al sogno di poter passare cinque minuti in console o nel backstage. Privilegia i promoter che ti trattano come un pubblico intelligente: ovvero quelli che ti propongono un “discorso” artistico non convenzionale ed originale, e non la solita pappa pronta coi soliti nomi. Privilegiali perché stanno rischiando di più, e stanno cercando di spezzare un circolo vizioso che all’inizio è stato vitale ma poi ha iniziato col diventare, appunto, cancerogeno.
Stai attento tuttavia a non sfociare nel luddismo populista da “gilet gialli”, caro pubblico (e lo diciamo in primis a noi stessi). Tutto questo discorso non significa infatti che ora i grandi nomi, i grandi festival, le grandi agenzie, i grandi management sono da prendere a pietrate: dovresti invece rispettarli per tutto il lavoro fatto negli anni (e anche adesso, supportarli quando fanno qualcosa che ti piace); si tratta piuttosto di riordinare e riequilibrare un po’ le dinamiche dell’ecosistema, e questo è per il bene di tutti. Tutti. Nessuno escluso.
Infine, due righe per i promoter. Due, ma doverose. Se c’è stata una corsa al massacro, è (anche) perché voi avete voluto parteciparvi. Il fatto di essersi “fatti da soli“, tra il disinteresse o la diretta ostilità delle istituzioni, ricavandovi una fetta di mercato e delle professionalità dove prima non c’erano, dando lavoro a svariate persone, non vi autorizza ad impegnarvi sempre nella corsa a chi ha il membro più lungo. Né vi esenta dal fare un percorso di autoanalisi che porti ad individuare perché il clubbing sia sempre stato ignorato o ostacolato dalle istituzioni, perché in qualche caso la vostra azienda può stare in piedi solo se opera con una parte di “nero”, fino a che punto quello che state facendo è anche percorso culturale e sociale – come vi fa comodo dire, in qualche occasione – e fino a che punto vi siete invece fatti guidare invece da una logica di mera massimizzazione del profitto, né più né meno dei dj, agenzie e management più avidi (ma loro l’hanno fatto meglio).
Se questo accadrà, il grande choc da Coronavirus – che tante vittima farà nel prossimo futuro nel “nostro” mondo oltre che in quello normale, non chiudiamo gli occhi e non dipingiamo il mondo solo ad unicorni rosa – sarà almeno servito a qualcosa di benefico, oltre ad aver fatto danni dolorosissimi.
Insomma, dj, agenzie e management: è finita la festa.
Ma non è detto che proprio ora non si possano mettere le basi per organizzarne una ancora migliore – più sana ed equilibrata – in un futuro che potrebbe essere molto vicino. Voi, noi, tutti insieme. Tutti chiamati a mettere in campo consapevolezza, responsabilità, conoscenza, solidarietà reciproche. Si può fare? Sì?