Musicista. Giornalista. Produttore. Dj. Cos’altro poi…sì, maestro di vita. Forse non bastano queste poche parole per descrivere una delle figure più interessanti del palcoscenico musicale Italiano, quantomeno non bastano per descrivere la vera essenza di questo personaggio, protagonista indiscusso. Va da se che di musica si debba parlare, ma vi giuro che con lui parlerei volentieri di qualunque cosa: cresciuto tra i paesini umbri, la sua schiettezza ed esuberanza lo portavano addirittura ad abbandonare libri, quaderni e, qualche volta, gli amici di sempre, magari durante un’attività in compagnia, per andare a seguire le vicende di “Ciao Ralph, Ciao Sam” ed i programmi radiofonici sulla musica Rock. Amici e passioni legate a filo doppio. Questo è DJ Ralf. Genuino, sincero e vero, maestro di vita appunto. In questa intervista, ci parla di musica, della cultura musicale, vissute direttamente sulla sua pelle: ce le descrive passo passo, come solo una guida od un padre di famiglia. Ci ha presi per mano e ci ha accompagnati in un viaggio alla riscoperta del panorama musicale di oggigiorno, con un costante rimando al passato: sottolinea ciò che va e ciò che non va della musica e dei locali dello stivale, perchè solo passando per inferno e purgatorio si arriva al paradiso. L’ottimismo, comunque, rimane sempre una sua costante, che emerge solare in piccoli e semplici gesti: dalle sue iniziative musicali fatta di amici, dall’aver fiducia nelle giovani leve, produttori e musicisti del futuro, e dal credere ed entusiasmarsi, pure, per un sito come Soundwall.
Come prima cosa, ci incuriosisce il nome che ti sei dato: DJ Ralf. A cosa dobbiamo questo soprannome? C’è qualche aneddoto dietro questa scelta?
Non è un nome d’arte e non me lo sono dato io. È un soprannome che mi porto dietro dalla prima, seconda media e c’è una piccola diatriba tra i miei amici d’infanzia riquardo chi me lo attribuì. Nasce da un cartone animato: Sam Sheepdog e Ralph Wolf, in cui il cane, Sam, riempiva costantemente di botte il lupo Ralph che cercava in tutti i modi di rubargli le pecore. Diciamo che ognuno faceva, semplicemente, il suo onesto mestiere. All’ora di pausa, però, tornavano gli amici di sempre e mangiavano insieme salutandosi con il leitmotiv del cortoon: ”Ciao Ralph, Ciao Sam”. A me faceva impazzire quel cartone e non ne perdevo una puntata. Qualsiasi cosa stessi facendo, all’ora stabilita me ne andavo dicendo… Vado che c’è “Ciao Ralph”. Da lì il soprannome che poi venne italianizzato in Ralf.
Come e quali sono stati i tuoi primi passi verso il mondo della musica?
Sono cresciuto in un paesino umbro dove specie a quei tempi, non c’era così tanto da fare se non andare in giro per la campagna ed inventarsi mondi fantastici. Verso i nove, dieci anni, capìì che quello in cui mi trovavo meglio era la musica e tutto ciò che la riguardava. Cominciai con l’appassionarmi ai 45 giri che trovavo in casa, appartenenti a mia zia che era, ai tempi, una giovane ”beatnik” o passando delle ore dentro il forgone di un ragazzo che portava la biancheria a mia nonna, incredibilmente munito di un sofisticatissimo mangiadischi da auto! Più tardi, con i primi sudatissimi risparmi, cominciai a comperare gli LP. Ricordo che il primo in assoluto fu un bootleg di Jimi Hendrix intitolato: “I’m a man”. Da allora la musica divenne una vera ossessione per me. Era fuga, libertà, sogno, gioia e tristezza. Era veramente tutto. Leggevo tutto il leggibile e le mie giornate si basavano praticamente sull’attesa di quei due, tre programmi specializzati di rock che mandava in onda la radio Rai e quelli che riuscivo a captare sulle frequenze in Onde Medie, di Radio Luxemboorg. Fu in questi programmi che scoprìì, mano a mano, quello che sarebbe diventato, il mio mondo… Verso i quattordici anni cominciai a suonare la chitarra, ma anche il basso, il pianoforte di mio zio e l’armonium della chiesa. In pratica mettevo mano a tutto ciò che emetteva un qualsiasi suono. Allora come oggi,la mia vita è fatta di musica ed alla musica devo tutto ciò che sono e tutto ciò che ho.
Hai iniziato agli albori degli anni ’90: di musica ne hai sentita tanta, vivendo personalmente a delle vere e proprie rivoluzioni (vedi quella dell’house). Cosa noti diverso e cosa ti manca del sound dei primi anni di attività?
Se devo essere sincero di diverso trovo ben poco. L’essenza di questo rito collettivo che si chiama danza rimane la stessa. Immutata da secoli, insita negli esseri umani, come mangiare, camminare… respirare. Certo cambiano la velocità dei bpm, gli strumenti usati per generare i suoni ed i ritmi ma in realtà io non mi sento molto diverso di un suonatore di tronchi svuotati di qualche migliaia di anni fa. Il ruolo rimane identico.
Andando nello specifico della musica di ora, vi dirò, mai è stata così vicina al sound degli anni ottanta. Molti produttori attuali, tra i migliori secondo me, basano il loro suono sull’uso di macchine di quel periodo; Roland 707, Juno, Yamaha Dx7 per nominarne solo alcune. L’house music, insieme all’Hip Hop, è la più grande rivoluzione musicale del secolo passato dopo il Rock and Roll. Cambiano i dettagli ma il nocciolo rimane invariato. Se ascolto le cassette dei miei primi anni di attività, specie quelli legati alla nascita dell’House music, trovo davvero poca differenza, in definitiva, con quello che faccio ora. Lo spirito è esattamente lo stesso. La musica cambia e si evolve ma ciò che fa la differenza è lo stile di un determinato dj nel proporla. Se si perde questa quota di personalità, si diventa nient’altro che tanti noiosi juke box umani.
Nel 1987 decidi di affrontare un viaggio oltre oceano: NYC diventa la tua meta. Quali erano le differenze tra la cultura musicale Newyorkese e quella nostrana?
La club culture moderna, la ”Discoteca”, così come la conosciamo, è nata per lo più negli Stati Uniti. In quel momento, poi, in cui stava nascendo questo fenomeno che noi chiamavamo house e che loro non si preoccupavano di chiamare in alcun modo che non fosse il solito, e cioè, ”Dance music”, tutto era nuovo, tutto incredibilmente eccitante. In quella città ti sentivi letteralmente al centro dell’universo. Andavi a ballare e davanti ai tuoi occhi, a girare i dischi c’erano i tuoi miti. Ad un passo da te; parlo di gente come Larry Levan, Timmy Regisford, Dave De Pino, Frankie Knuckles, Tony Humpheries e molti altri ancora. Ci potevi parlare, potevi chiedere loro di suonare il tuo pezzo preferito e loro te lo suonavano. Non è una battuta. Giuro che io mi sono avvicinato al tavolone che fungeva da consolle, nella location originale del Sound Factory, ho chiesto “Break for Love” di Raze a Junior Vasquez e lui, dopo dieci minuti lo ha suonato.
Io andavo a comperare I dischi principalmente in due negozi: Vinyl Mania a Carmine Street, nel West Village e Rock and Soul, vicino a Penn Station. Nel primo mi serviva Manny Lehman o Charlie Grappone e nel secondo Walter Gibbons!
La prima volta, ad Halloween dell’87, che entrai all’Irvin Plaza, indovinate chi annunciò Lerry Levan?! …Chaka Khan! E non stava lavorando. Era in pista a ballare come tutti noi. Come si doveva sentire un ragazzo di Perugia se non esattamente in paradiso?! A differenza che qui da noi lì sembrava essere tutto così naturale. Da noi era tutto un apparire tutto un gran concentrarsi sull’immagine, sullo stupore. Lì, invece, era tutto essenziale. A ballare si andava con i pantaloni della tuta, una canottiera e le sneakers o, le ragazze, con un paio di fuseax e poco altro. Bisognava essere comodi e non si doveva dimostrare nient altro che la voglia di muoversi al ritmo della musica più sexy del pianeta. I corpi emanavano vibrazioni, si esprimevano, creavano vera emozione. Era proprio uno spettacolo totale, di cui teu ti sentivi parte integrante.
Sempre a proposito della cultura musicale, oggi, secondo te, l’Italia ha ancora tanto da imparare o ha colmato il gap con gli altri paesi?
Dobbiamo investire di più soprattutto sui sound systems. La musica rimane il centro di questa storia e sulla qualità del suono bisogna concentrare tutta la nostra attenzione. Subito dopo sulle luci. Pensate come se servissero per uno spettacolo teatrale e gestite da persone creative. Da professionisti. E’ deprimente trovarsi a suonare con degli impianti che suonano meno di quello che ho in macchina e vedere quelle quattro luci del cazzo che, automaticamente, si accendono e si spengono. Purtroppo questo succede ancora troppo spesso da noi. Più che in altri paesi. Naturalmente anche da noi esiste l’eccellenza e ci sono locali meravigliosi in cui vedo, da parte di un numero sempre maggiore di promoters, uno sforzo crescente per colmare questo gap. Per il resto penso che la cultura musicale e lo stile di noi italiani non siano secondi a nessuno.
Dopo tanti anni di attività, tiri fuori dal cilindro sempre proposte nuove ed accattivanti, specie per le nuove leve: la serata “Bellaciao” ne è un esempio. Cosa ti ha scaturito quest’idea?
Soprattutto la necessità di tornare alle radici di questa storia. Sentivo il bisogno di liberarmi di certi stereotipi; pr, direttori artistici (quasi sempre sedicenti e basta), guest stars, liste omaggio, c/o, riduzioni, rientri, ragazze imagine(???) ecc…ecc… Tutte robe che, man mano, ci hanno allontanato dallo spirito originario di questo fenomeno sociale che è la club culture, almeno da quella che interessa a me. Per questa ragione ho creato una serata in cui l’ingresso si paga poco, gli inviti si danno agli amici ed a mano, uno per uno, i drinks sono di buona qualità e costano come al bar. Lo stesso dj sempre e cioè io, insieme ad un certo numero di giovani che si avvicendano e ad alcuni amici, che mi piacciono particolarmente e che vengono a suonare per il piacere di esserci e di divertirsi. Niente nomi nei manifesti e nei flyers, niente pr, niente selectors. Qualche snack buono e bello ad una certa ora ed un impianto che cerca di essere costantemente il meglio possible. Niente di più, niente di meno. In definitiva, un’esperienza esaltante.
“LATERRA RECORDINGS”, la tua etichetta, diventa il mezzo pricipale di analisi delle novità del periodo. Come vedi, oggi, il palcoscenico musicale italiano? Pensi che un musicista abbia più possibilità all’estero (come in Germania) piuttosto che in Italia?
Premetto che l’etichetta è ferma per il momento. Devo trovare la quadra di alcuni fattori importanti come la promozione, la distribuzione e la visibilità internazionale. Detto questo trovo che l’Italia sia una vara fucina di talenti e di creatività, solo che spesso, come succede in altri campi come la ricerca in campo scientifico, per esempio, questi talenti per esprimersi compiutamente ed avere le meritate soddisfazioni devono trasferirsi all’estero o per lo meno essere promossi e gestiti da menagement stranieri. Questo perchè da noi manca una vera cultura manageriale, nell’ambito della dance culture. Mancano le strutture e manca la promozione mediatica. Al riguardo mi sento di fare i miei più sinceri complimenti a voi di Soundwall che, insieme a pochi altri, state cercando di colmare questo gap.
Per anni hai tenuto una tua rubrica chiamata “Touch and Go” per la rivista Discoid. Possiamo quindi dire che oltre ad essere musicista sei anche giornalista. Forte della tua esperienza, che consigli ti senti di dare, a tal proposito, a Soundwall?
Ve l’ho appena detto. Secondo me state lavorando molto bene. Vi seguo costantemente e vi leggo. Mi piacerebbe trovare, magari, degli editoriali scritti da dj, promoters, produttori, video artisti, distributori ecc. Insomma da professionisti del nostro settore. Approfondimenti che possano stimolare la discussione e la conseguente crescita culturale di chi è interessato alla musica e non solo da ballo, intendo. Magari, qualcuno ve lo scrivo pure io, se vi va.