Stiamo alla cronaca: un’uscita per Dj-Kicks, che è sempre un grande onore; un Essential Mix per la BBC; nuove release (i remix per Tricky e The Juan Maclean, la nuova collaborazione con Fink). Tanta roba, no? Ma non è solo questo. Il punto è che in questo momento Dj Tennis è in una fase cruciale della sua carriera: non solo e non tanto perché è un dj sempre più richiesto (e su scala globale, non solo europea: tanto che ora vive a Miami), ma anche perché per la sua Life and Death è un momento di grandi cambiamenti e ripartenze, dopo la separazione coi Tale Of Us, che dell’etichetta erano diventati presto soci a pieno titolo, dopo le prime release. Cambiamenti e ripartenze che rischiano di assumere declinazioni molto interessanti e non scontate: questa lunga chiacchierata ce la siamo fatta ad Amstedam, due giorni dopo il party della label durante i giorni dell’ADE: un party sold out, ma soprattutto molto ma molto interessante musicalmente. Lontano dal “suono Life and Death” (e qui parliamo in abbondanza di cosa questo significhi o non significhi), lontano dalle routine tech-house degli ultimi anni ma anche dai “dekmantelismi” che vanno oggi per la maggiore tra i clubber più raffinati. Già una volta la Life and Death ha cambiato le regole del gioco nel panorama della musica da club, introducendo un romanticismo scuro dopo anni e anni di minimalite a-melodica: succederà di nuovo? Nel frattempo, con Manfredi Romano ci siamo concessi questa lunga, lunghissima conversazione dove sono stati toccati molti punti, con momenti di alta sincerità. Una intervista davvero da leggere con attenzione, punto per punto. Ideale continuazione di quanto ci dicemmo cinque anni fa – ma Manfredi allora era ancora più il capo di Daze, una delle più importanti agenzie italiane, che un dj di alto livello. Ora le prospettive sono cambiate. Ma lo sguardo è sempre affilato.
Allora. Correggimi se sbaglio: mi sembra che si sta decisamente volendo ridisegnare l’identità di Life and Death. Una specie di nuova fase.
No, non ti sbagli. E ti dirò di più: quello che stiamo facendo adesso, avremmo dovuto farlo ancora prima.
Mmmh. Questo è interessante.
Sì. Questo cambiamento, secondo me necessario, è arrivato in ritardo perché prima a decidere le sorti di Life and Death eravamo in tre. Tre persone con visioni ad un certo punto diverse. Io sono sempre stato fautore dell’esigenza di un cambiamento costante, veloce, mentre soprattutto Matteo (Matteo Milleri, metà dei Tale Of Us, NdI) ad un certo punto voleva concentrarsi su un suono ben preciso: che poi era il suono suo. Voleva cioè che l’etichetta si consolidasse attorno a riferimenti ben precisi, legati al nome principale nel catalogo della label: appunto, Tale Of Us. La label doveva essere un mezzo a supporto loro, o comunque doveva avere una identità che riconduceva a loro, invece di essere un insieme variegato di stili, attitudini e sensibilità. Questa differenza di obiettivi ad un certo punto ha creato una vera e propria stasi: certo, i risultati continuavano ad essere ottimi, ma a livello di volontà e di entusiasmo condiviso c’era qualcosa che non andava più. Io non avevo mai voluto che Life and Death fosse caratterizzata da un unico suono. Volevo che fosse una realtà in continua evoluzione. Ad un certo punto è stato esattamente il contrario. Non era mai stata la mia intenzione, questa.
Però guarda, in effetti dal mio punto di vista una delle caratteristiche di Life and Death è stata fin da subito quella di avere una identità ben precisa e molto riconoscibile…
Pensa alle prima dieci release. Che poi occupano un periodo di tempo abbastanza ampio: mai fatto più di quattro, cinque uscite all’anno, abbiamo sempre trovato fondamentale far “respirare” i singoli dischi. Ad ogni modo: pensa a cos’era “Disco Gnome” a nome Thugfucker, robe felice, funky…
…in effetti è una release che ormai si cita poco.
Ma poi: c’erano WhoMadeWho, che erano di sensibilità indie; dOP, più sul funky; io con Fink in “Make It Good” non saprei nemmeno come definirmi, mah, diciamo un po’ indie un po’ dub. Gli inizi sono stati così. Poi, da un certo momento in avanti, Life and Death è stata identificata con un suono ben preciso, chiamiamolo epic techno, anzi, epic deep house, tanto per dover mettere una definizione, anche se non saprei bene come chiamarla… I bassi profondi, un certo tipo di accordi. Sì: in effetti è un tipo di suono che Life and Death per prima ha messo in circolazione, ma è sempre stata la caratteristica solo di uno o due artisti nel catalogo della label (Tale Of Us, ovviamente, poi direi anche Mind Against). Ecco: io lì ho visto il pericolo. Perché negli anni, ho visto tante ascese e discese negli inferi. Le label che hanno deciso di fare di un unico suono la loro bandiera, anche perché le masse andavano tutte entusiaste incontro a quel suono, sono quelle che poi però più sono finite nei guai. Pensa ad Ed Banger, è un esempio perfetto: quanto è durata, quattro anni?
Già. Poi all’improvviso è diventata una label schifata da tutti.
Esatto. Ed è un peccato, io ancora oggi vado a sentirmi certe cose di Kavinsky o di Mehdi e le trovo notevoli, mi piacciono moltissimo, però ad un certo punto un po’ di tempo fa semplicemente non ne potevi più. Ne potrei citare tante altre, di label che hanno fatto quello che secondo me è l’errore di fissarsi troppo su un unico suono: m_nus, per dire. Scegli un suono, lo tieni come bandiera; per un po’ di tempo stai in altissimo, poi però arriva una brusca parabola discendente. Quali sono le label che invece sì, avranno avuto momenti migliori e momenti peggiori, ma mai una vera e proprio parabola discendente irreversibile? Risposta: quelle che hanno mantenuto un certo tipo di diversità all’interno della loro identità artistica. Penso alla Warp, penso alla R&S, in parte anche alla Ninja Tune – per quanto loro hanno rischiato, c’è stato un momento in cui erano identificati con un unico tipo di suono, quel misto di hip hop, trip hop e breakbeat, ma quando hanno capito il pericolo ne sono usciti alla grande. Ma prendi la Warp: hanno un catalogo che va da Vincent Gallo ad Aphex Twin passando per Maximo Park e Lorenzo Senni.
E insomma, tu, Carmine e Matteo vi siete seduti attorno ad un tavolo e vi siete detti “Ok, abbiamo due visioni diverse, separiamoci”.
Non è stata solo questione di visioni diverse. I fattori sono stati molteplici. Solo che non sta qua a spiegarteli, soprattutto perché ognuno com’è giusto che sia ha il suo punto di vista: non vorrei quindi che si creassero polemiche inutili. Però sì, Tale Of Us volevano una label che supportasse prima di tutto il nome più forte della label stessa, io invece ho sempre voluto una realtà capace di far convivere sonorità diverse. Credo lo si possa capire dal tipo di label night che ho sempre cercato di mettere su per Life and Death: c’ho fatto suonare Harvey, c’ho anche fatto suonare i Plaid, per farti capire quanto ampio potesse essere lo spettro… I Tale Of Us avevano e hanno una visione diversa: sono forti, stanno avendo un successo enorme, ad un certo punto hanno voluto andare alla conquista di Ibiza e per farlo sentivano l’esigenza di avere dietro una label che li supportasse al cento per cento, mettendosi al loro servizio, “ritagliandosi” attorno a loro. Ci sta.
Mah, sai, Afterlife all’Off Sónar l’anno scorso ha messo in line up addirittura un Floating Points, forse pure loro hanno cambiato leggermente tiro…
E’ che non è Floating Points la scelta giusta per diversificare il proprio suono. Secondo me, naturalmente. Perché lui è qualcosa di davvero troppo distante. E’ fuori contesto. Il pubblico che segue Tale Of Us, non sa come prenderlo un Floating Points. Se avessi dovuto scegliere un nome che aumentasse lo spettro sonoro della serata avrei scelto per dire un Pantha Du Prince, che pur essendo diverso da loro condivide un certo portato emozionale e ritmico. Floating Points, invece? Che arriva e si fa i set coi 45 giri soul? E che anche quando fa live ha un tipo di approccio completamente diverso rispetto a Tale Of Us?
Tornando sulla Life and Death attuale: onestamente, hai avuto comunque dei momenti di preoccupazione? Ok, magari nella tua testa avevi un progetto ben chiaro in mente su come (ri)prendere in mano ora le redini della faccenda, ma visto da fuori sembra quasi che ci sia una ripartenza da zero in atto. Cosa che non è mai facile.
E’ una ripartenza da zero per forza di cose. Non ci sono due degli artisti che per tanti anni sono stati un pilastro del catalogo della label, mettendo in campo un suono particolarmente riconoscibile: è insomma inevitabile che, senza di loro, si tratti di una ripartenza… Una volta arrivati a questa situazione, devo dire che è stato più istintivo che conscio il fatto di ripartire senza cercare di ripercorre quelle orme lì, quelle tracciate da loro, evitandole. Mi sono concentrato per tornare ad onorare lo statement originale di Life and Death – quello della diversificazione.
Beh, a livello di percezione esterna non era percepito così, ciò che poteva essere lo statement di Life and Death…
Nel primissimo nostro comunicato stampa, anni fa, quello in cui si presentava la label, c’era scritto proprio che Life and Death non è un unico suono, ma una combinazione di cose diverse che hanno fatto cortocircuito fra di loro.
Senti, in tutta onestà: questa è la cosa che dicono di sé nove label su dieci.
Eh, è vero.
Quindi capisci che più di tanto non vi avevo preso sul serio, in questo. E mi sa non solo io.
Però, come ti dicevo, penso che soprattutto all’inizio abbiamo davvero tenuto fede a questo principio. Life and Death è nata nel 2010… la prima release è del 20 novembre 2010. E’ nata dopo un’esperienza lunga e intensa a fare il direttore artistico del Cocoricò: un ruolo che mi ha permesso di vedere un po’ tutti come suonavano. E ti dirò, ciò che ho notato è che in quel momento in giro c’era davvero poco di interessante. Specialmente nell’ambito che potremmo definire “berlinese”. Era tutto noioso, ripetitivo, prevedibile, loop su loop, poche emozioni, nulla che ti facesse viaggiare col pensiero. Lì mi sono ritrovato a pensare “Ma cazzo, ci sono invece artisti in giro che fanno cose davvero deep, emozionali, seducenti, pur riuscendo ad avere un buon impianto ritmico e delle ottime skill da produttori, solo che se li filano davvero in pochi”. Tra questi, c’erano appunto i Tale Of Us. Penso tra l’altro di poter dire che, come Life and Death, abbiamo veramente portato una sferzata di energie e freschezza nella scena italiana; perché fino ad allora la scena italiana, dal punto di vista internazionale, si riduceva a pochi nomi, tra l’altro un po’ sempre i soliti: Marco Carola, Ilario Alicante, ma anche un Mauro Picotto… Tutta gente in ogni caso che non era minimamente supportata dal pubblico italiano all’estero, in quel momento. E’ con l’arrivo di Tale Of Us che, internazionalmente, un quadro troppo a lungo stagnante si è all’improvviso sbloccato, liberando un sacco di energie e consentendo poi a molte persone di farsi notare più facilmente.
Ad ogni modo, tu ti aspettavi che fin dall’inizio ci fosse così tanta attenzione attorno a Life and Death? Per dire, siete diventati quasi subito label del mese su Resident Advisor, mica capita a tutte le nuove label sul mercato, dai.
Un’attenzione così grande non me l’aspettavo. Ma qualcosa però mi aspettavo, quello sì, non sto a dirti il contrario. Perché tutta l’operazione Life and Death è stata fin dall’inizio ragionata abbastanza bene: in tutto quello che faccio nella mia vita, non sono mai stato abituato a procedere completamente a caso, senza un piano ben ponderato e strutturato. Mi ci metto solo se ho l’impressione che una cosa sia stata pensata e progettata e bene (il che non significa che sia bravo, quella è un’altra cosa; di sicuro però non sono uno che si butta a caso). Contenuti musicali, in Life and Death, ce n’erano; contatti ne ho sempre avuti, visto che erano anni che facevo il promoter e, insomma, non era proprio l’ultimo capitato sulla scena. Come a dire: se io mi metto a fare le magliette, e so di poterle far indossare a dei dj perché sono miei amici e poi li posso fotografare e far girare le foto, chiaro che qualche maglietta la vendo. Poi guarda, non sono certo l’unico a lavorare con questa attenzione, lo fanno in tantissimi altri, anche etichette italiane; io ho avuto la fortuna di essere al posto nel momento giusto. Una fortuna aiutata dal fatto che avevo contatti un po’ da tutte le parti. I dischi che facevamo uscire hanno iniziato ad essere suonati in giro, sempre più, hanno iniziato a finire su YouTube, certe cose sono andate virali… e il tutto è decollato. Però onestamente: non pensavo che andasse tutto così bene. E’ stato oltre le aspettative.
Questa nuova fase di Life and Death potrà contare sulla stessa attenzione da parte della scena?
Io sono convinto che la gente non sia stupida, e si stia rendendo conto di alcune cose. Allora: prima di tutto, non ho mai smesso di far uscire delle release di qualità. Non sono andato nel panico, preferendo aggrapparmi a teorici “colpi sicuri”. Ho fatto uscire cose come Lucy e Dj Sotofett: non certamente dei dischi “da massa”. Volevo fosse chiaro che comunque Life and Death aveva come primo punto di riferimento la qualità, sempre e comunque. Poi l’hype, beh, quello va e viene: so che è così, quindi non me ne preoccupo, non ne faccio una malattia. Vale per i dj, vale per i producer, vale per i cantanti, vale per i colori, vale per i vestiti, vale per la macchine, vale per tutto. Anzi: soprattutto negli ultimi tempi mi pare che ci siano stati molti ritorni di dj e producer validi che parevano definitivamente caduti nell’oblio ma che invece, se hanno mantenuto la qualità in quello che facevano, ora sono tornati sulla cresta dell’onda. E’ un periodo così. Che poi, pensa a come le cose vanno a cicli: un tempo l’unico modo per essere sempre al top era produrre, produrre tantissimo, non smettere di far uscire release, se eri un dj e basta non ti filava nessuno… Oggi, invece? Oggi, grazie a promoter competenti e festival con un certo tipo di impostazione (vedi Dekmantel), che poi tutti si sono messi ad imitare, sono in auge persone che sono essenzialmente dj e assolutamente non dei produttori. Ma guarda, già un Dixon: sì, qualcosa ha fatto uscire, ma non è certo un produttore, come prima cosa (che poi mi fa sorridere il pensare che io Dixon, lavorando come agenzia con Daze, l’ho bookato nella stagione 2010/11 a 1000 euro…). Però oggi è richiestissimo. Ma anche Seth Troxler è prima di tutto un dj, solo secondariamente un produttore. Per non parlare di Job Jobse…
…Jackmaster…
Jackmaster, esatto. O Ben UFO. Ma pure The Black Madonna: sì, ha fatto uscire un paio di cose, ma essenzialmente lei è una dj. Ecco: fino a cinque anni fa questo era non solo impossibile, era proprio inconcepibile – secondo le regole del mercato di allora. Vedi come cambiano le cose? Ma tornando a noi, tornando a Life and Death: quando c’è stata la divisione, quello che ho voluto fare è stato mantenere la qualità e continuare ad avere anche un ritmo giusto di uscite, non eccessivo, per non saturare il mercato. Vedendo che le cose erano un po’ cambiate, nella label, ci sono stati molti delusi, vero; ma ci sono state anche molte persone che per la prima volta si sono avvicinate a noi, restando contente e magari addirittura sorprese.
Quali sono le direttrici sonore principali di questo nuovo corso? Inizio col dirtene una io: ora sento molto più sapore disco, un tempo invece quasi assente.
Sì, dici bene. Considera che io fin da quando ho iniziato a fare il dj, a acquistare dischi quindi non solo per l’ascolto ma anche pensando alla loro capacità di far ballare, sono sempre stato un appassionato di disco. Italodisco, soprattutto. Ho una collezione molto consistente. Il mio viaggio personale nella musica elettronica è iniziato in altro modo, è iniziato con la roba della Warp, lì il dancefloor non c’entra. Oddio, volendo gli Autechre li puoi anche ballare, ma devi mettertici veramente d’impegno (risate, NdI) La mia formazione musicale nel campo dell’elettronica è andata avanti attraverso due fronti: da un lato io sono uno che arrivava da punk rock, post punk, post rock, mai stato originariamente appassionato di techno, e infatti all’inizio mi sono avvicinato ad Autechre perché per me erano il lato punk dell’elettronica, loro, o anche i Pan Sonic, comunque le cose più sperimentali della Warp. Dall’altro, però, c’era questa passione per l’italodisco. Rafforzata anche dal fatto che ero a stretto contatto con persone che un certo tipo di disco ce l’avevano nel sangue: penso a Marco Passarani, Jolly Music. Quindi ecco, questa cosa in me c’è già da un sacco di tempo. Poi sì, ad un certo punto mi ero anche stufato, un po’ allontanato, però ad un certo punto la disco è ritornata in giro e lo ha fatto non solo come revival ma con forze nuove, fresche, in grado di reinterpretarla con rispetto ma in chiave moderna. Gente capace comunque di avere una mente aperta a trecentosessanta gradi. Penso a Marvin and Guy, penso a Joakim, ora miei compagni di viaggio: sono molto disco in quello che fanno, però con un sapore particolare. Molto “trancey”.
Infatti, a stare in giro per i vari stage del party Life and Death ad Amsterdam, nei giorni dell’ADE, avvertivo molto questo sapore disco ma era ammantato di una patina quasi psych, psichedelica insomma… Un accostamente che di mio non avrei fatto facilmente, quella tra disco e psichedelia.
In realtà c’è sempre stata.
Disco e psichedelia?
Non è un accostamento inedito, secondo me. C’è qualcosa di psichedelico in tutti gli elementi della black music, se ci pensi; e l’italodisco è black music, è disco fatta con dei synth scrausissimi invece che con l’orchestra…
…perché si sa, gli italiani sono bravi ad arrangiarsi, a tentare di ottenere il massimo possibile col minimo sforzo.
Esatto!
Poi l’italodisco è diventata proprio un’arte a sé.
A me gli elementi psichedelici piacciono, gli elementi “trancey”: quel che bisogna chiarire è che per essere “trancey” non devi per forza suonare trance propriamente detta. Anzi. Marvin and Guy secondo me hanno tantissimi elementi psichedelici e “trancey”; Red Axes pure, anzi, loro si richiamano proprio esplicitamente alla psichedelia storica, a certo garage rock, possono farlo direttamente con dei campionamenti ma possono anche farlo pure solo per il loro modo di usare synth e software. Ma prendi pure i Margot, che sono la prossima release di Life and Death: anche loro in quello che fanno infilano spessissimo una componente disco e/o psichedelica, e loro sono in giro da un sacco di anni, dodici, tredici, individualmente facevano cose addirittura da prima. Spessissimo in quello che fanno ci sono state commistioni fra techno e disco “cosmica”, techno e psichedelia alla Border Community… Quindi ecco, direi che ora mi sto ritrovando in un elemento che è molto importante nella mia storia, a livello di gusti e di ascolti. Un po’ un ritorno a casa. Sia chiaro: non è una cosa pianificata a tavolino, è successo tutto in modo naturale e non pianificato.
Senti: è così facile fare il dj? Mi spiego: io ho visto i tuoi inizi da dj e, insomma, non eri proprio granché bravo, per usare un eufemismo…
Per nulla!
Sì ecco, non te lo dico per provocarti, lo sai.
Certo, figurati.
Ora invece, passato nemmeno troppo tempo, giusto qualche anno, sei uno dei pochi dj al mondo diciamo di matrice tech-house che personalmente trovo interessanti, particolari, in grado di mettere in campo un sacco di soluzioni non scontate sia nella scelta dei dischi che nella tecnica nel mescolarli assieme.
Sai qual è il punto? Io originariamente ho sempre fatto il dj per pura passione, non per lavoro. A lungo tempo non ho minimamente pensato che potessi diventare un dj professionista. Mai nella vita, proprio. Era un passatempo. Mi capitava sì di suonare al Plastic a Milano, o a Palermo da amici, in qualche bar, in qualche festa privata – ma era giusto per divertirmi, erano contesti appunto particolari. Non avevo minimamente voglia di mettermi a coltivare né chissà quale tecnica da dj, né chissà quale carriera da dj. Sapevo mettere i dischi più o meno a tempo, con una tecnica abbastanza legnosa e mediocre. Però ecco, avevo tanti, tantissimi vinili (non esistevano manco i cd, quando ho iniziato ad acquistare musica); e a furia di suonare episodicamente, qualcosa alla fine avevo iniziato ad impararla. Ma lo ripeto: mai avrei pensato che sarebbe diventata la mia occupazione principale. E mai mi ero ritrovato nella condizione che lo fosse, fino a poco tempo fa. Sai questo cosa significa? Significa che non ho mai avuto necessità di cercare la “formula facile”, quella affidabile ed efficace senza troppi rischi, per portare a termine bene una serata come dj. Perché non dovevo portarne a termine: se mi mettevo dietro la console, era solo per divertimento. Senza nessuna responsabilità. Facevo quello che mi piaceva. E se fai quello che ti piace e inizi ad avere un minimo di riconoscimenti… Le cose si sono fatte un po’ più serie coi primi giri di Life and Death: ad un certo punto, tanto per avere la scusa per stare tutti assieme, ho iniziato a venire anche io alle serate dei dj della mia label, chiedendo di fare il warm up, il set d’apertura. Sai, è importante per una label la dimensione live, il fatto di poter girare nei club, di essere in grado di proporre una label night di una certa consistenza. Penso ad etichette ottime come Permanent Vacation, che però non hanno una componente “party” in quello che offrono: credo che questo li limiti molto, anche perché in questo modo non si crea un senso di appartenenza “fisico” alla label. Pensi alla Permanent Vacation e ti vengono in mente belle release, ma non ti viene da associare qualche artista specifico a loro – e questo è un peccato. E’, dal punto di vista del marketing, un errore. Bisogna essere capaci di tenere bene su una notte in un club. Aiuta moltissimo a rendersi riconoscibili. Quindi ecco, mi piaceva l’idea che Life and Death potesse girare come realtà ben precisa nei club, e quindi ad un certo punto per poter stare in giro con gli altri ho iniziato a fare il dj pure io. Poi, con la pratica, e avendo tante persone di talento attorno nel fare il dj, ho finito con l’imparare anche io.
Non hai solo “imparato”. Hai delle raffinatezze a livello di accostamenti e mixaggio che oggi non si sentono spessissimo.
Credo che questo derivi, molto semplicemente, dalla conoscenza che si ha della musica. Quando tu la conosci bene, quando cioè non guardi solo a determinati filoni e sottogeneri ma la approcci a trecentosessanta gradi, ti viene naturale avere uno spettro molto ampio davanti su cui voler operare, spingendoti quindi a fare accostamenti non scontati. Io posso pensare ad un pezzo dei Gaznevada e assieme uno degli LCD Soundsystem: per me rientrano in un filone unico, riesco ad accomunarli con grande naturalezza. E mi succede lo stesso con tracce indie, rock, funk, magari anche con la cumbia: ci sono singoli pezzi di questi generi che mi appaiono perfettamente accomunabili a qualcosa di, che so, Errorsmith. Quando hai una conoscenza un minimo estesa ed approfondita della musica non ti viene proprio da ragionare solo per compartimenti stagni. Poi guarda, ci sono diversi modi di gestire un dj set: c’è il modo alla James Murphy, che fai quarantacinque minuti un po’ così poi all’improvviso piazzi il disco bomba che fa impazzire tutti; c’è l’approccio alla Loco Dice, alla Davide Squillace, dove vai sempre a palla sulla componente ritmica, senza componenti melodiche che ti “distraggano”, ti portino a pensare, no, cerchi di andare dritto alla componente “fisica”; oppure c’è la scelta di creare un’assuefazione ad un ritmo, ad un groove, mantenendolo tutto il tempo ma cambiandoci sopra genere – e questo è quello che faccio io. Io scelgo un groove, lo tengo costante per tutto il set, ma metto in campo una decina di generi diversi. Che è simile a quanto fa Laurent Garnier, come approccio. Garnier me resta il più bravo di tutti, ancora oggi. Ti fa passare dall’hip hop alla disco alla techno alla trance all’ambient nello stesso set, facendolo con una naturalezza incredibile e restando sempre molto dinamico. Resta il mio punto di riferimento assoluto.
Punto di riferimento non scontato, per uno come te che viene associato alla scena tech-house più essenziale, minimale.
A me la minimal techno non è mai piaciuta. Sì, alcune cose erano senz’altro ok, che ne so, penso ad alcune release di Marc Houle. Ma la minimal techno “vera” per me è quella di Thomas Brinkmann. O pure dei Pan Sonic. O anche lo stesso Jeff Mills, per me è minimal techno.
Senti, come vedi l’Italia oggi? Non ci abiti più, ora stai a Miami, ma comunque col nostro paese interagisci ancora molto.
Lasciando perdere il discorso su quanto siamo in crisi, su quanto la gente abbia pochi soldi da spendere, io vedo che comunque in questo momento c’è davvero poca energia, poca propositività. Sono poche le iniziative che hanno un senso, si contano sulle dita di una mano. Se vogliamo invece parlare a livello artistico, secondo me è un momento molto positivo: peccato però che questa cosa sia poco riconosciuta proprio dall’Italia, dalla scena italiana. Almeno per adesso. Per capirci: artisti come Marco Shuttle o Lorenzo Senni meriterebbero di essere molto più popolari, invece sono più considerati all’estero.
Ma anche Lucy, per fare un altro esempio, e mettendo in campo un nome che citavamo prima.
Sì, anche lui. Lui ad un certo punto era stato anche messo nel roster di Daze, ma credimi, era veramente difficile trovare delle date; e questo nonostante la techno sia ancora un genere leader nella scena club italiana, però non è la techno di Lucy, è qualcosa di più facile, anche più tamarro volendo dirla tutta. Se provi a proporre qualcosa di meno immediato e più raffinato, è durissima. In Italia secondo me è come se ci fosse un perdurante stato di choc, di stasi. Solo alcuni promoter più piccoli provano a fare qualcosa di innovativo ed interessante, ma proprio perché piccoli hanno la vita doppiamente difficile in uno stato dove tutto ciò che è club culture viene penalizzato, perché visto ancora come un problema di ordine pubblico, di droga. Questo mentre a Berlino danno senza problemi licenze per essere aperti ventiquattro ore su ventiquattro e ad Amsterdam instituiscono la figura del Night Mayor. Discorso questo fatto mille volte, ma vedo che non se ne sta ancora uscendo. E’ rimasto pochissimo: Dissonanze non c’è più, roBOt ha dovuto subire un brusco ridimensionamento, resta Club To Club, resta Movement, poi ci sono realtà comunque più piccole, meno significative come numeri, per quanto meritorie. Elita, a Milano, si è trasformato in qualcosa che non capisco più: e infatti non ne faccio più parte. Ad un certo punto non ho compreso bene quale direzione si volesse prendere, e quindi automaticamente non potevo essere più utile alla causa, contribuire alla crescita del progetto – quindi me ne sono andato. Quello che noto comunque è che nei principali eventi di musica elettronica a livello di dimensioni, l’asse è ancora molto spostata sul deejaying invece che sul live. Una volta andavamo a Dissonanze e quello che subivamo felicemente era un “bagno” di live: Lidell, ma anche Oval… giusto per fare due esempi… ma potrei farne duecento. Oggi invece vedere un vero live set, in certi contesti, è una rara eccezione.
Forse la situazione in Italia è un po’ depressa, visto che parlavi giustamente di poca energia e propositività, perché per troppi anni c’è stata invece troppa euforia.
Assolutamente. Per troppo tempo abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, sotto tutti i punti di vista.
C’era l’impressione, nel clubbing, che bastava buttarsi e le cose ti sarebbero andate bene automaticamente, in primis dal punto di vista economico.
Certo. Anche perché nessuno o quasi pagava le tasse. Era praticamente tutto in nero. Ora questa cosa è finita, e la differenza si vede.
C’è comunque ancora margine per essere un po’ ottimisti verso il futuro?
C’è. Ma al momento faccio fatica ad intravederne i contorni. Il margine nasce e si solidifica nel momento in cui la fascia di pubblico giovane, quella per intenderci fra i diciotto e i ventun’anni, inizia a sentire l’esigenza di sentire qualcosa di diverso. Vediamo quanto questa esigenza tornerà ad esserci. Perché ora la generazione dei ventenni mi sembra molto statica a livello musicale, molto poco esploratrice, e se ha qualche soldo da spendere invece di andare in un club italiano preferisce andare al Time Warp.
Domanda finale: qual è il disco uscito in questi anni che ti sarebbe piaciuto aver firmato per Life and Death?
Caspita, che domandone. Ci devo pensare. Perché sono tantissimi i dischi che mi sono piaciuti molto, che mi hanno stupito, che mi hanno coinvolto tantissimo dal punto di vista emotivo, ma è difficile dire “Il mio sogno sarebbe stato farlo uscire su Life and Death”.
Per dire, un po’ di tempo fa avrei detto Red Axes, ma ora hai risolto questo problema, sono finiti anche loro nel roster della label.
Red Axes sono diventati qualcosa a cui sono molto legato perché sintetizzano molte cose che hanno fatto parte dei miei ascolto storici. La prima volta che li sentii, quattro anni fa se non sbaglio, mi conquistarono subito. Pensavo fossero francesi, figurati… Un altro artista che mi piace molto è isrealiano anche lui: Autarkic. In generale, credo che Israele in questo momento si stia mettendo fortissimamente sulla mappa. Poi, mmmmh… ecco sì, mi sarebbe piaciuto aver prodotto l’ultimo album dei Bicep. E mi piacerebbe aver fatto John Maus, che è un disco che ascolto di continuo. Sai poi chi mi piace molto? Bjarki.
Ci sta. Nel suo, ha personalità. Certo però che dovrebbe cambiare un po’, per entrare coerentemente in Life and Death…
Sì, vero. Ma torniamo al punto: Life and Death non vuole essere omogenea, stilisticamente. Fra le prossime uscite ci sono Margot, c’è Pional che è un po’ più indie come piglio, ci sarà Luke Jenner che da cantante dei Rapture è diventato invece sorprendentemente bravo come producer, c’è Moscoman bravissimo e con l’attitudine giusta pure lui. Poi sto lavorando a delle cose con Fort Romeau. E con Autarkic, che citavo poco fa.
Non sono nomi scontati, non da “colpo sicuro” sul mercato.
Vedo un grande potenziale in tutti loro. Secondo me Red Axes diventeranno stelle di prima grandezza, Marvin and Guy cresceranno molto, Margot hanno bisogno di un buon management per avere la visibilità giusta – ora sto infatti provando a dargli una mano io, vediamo – anche se per qualche motivo non sono mai riusciti a sfondare, pur essendo bravissimi produttori che hanno fatto cose bellissime. Autarkic diventerà molto grosso pure lui, credo, pur essendo uno con uno spirito veramente punk, pur operando nell’elettronica. Ma invece, sai chi avrei voluto in Life and Death?
Vai.
Lory D. Ho una passione pazzesca per quell’uomo. E’ una delle prime cose prettamente techno che ho ascoltato, quindi ci sono legato anche per motivi di biografia personale. Sono molto legato a quel suono, anche se apparentemente distante da tutte le cose in cui mi sono ritrovato in mezzo negli anni. Però sono sempre stato un suo grande fan: delle sue cose vecchie, ovvio, ma anche di tutto il materiale recente fatto uscire su Numbers.
Foto di Tim Sandik