Allora. Anche lasciando da parte tutte le estremizzazioni da politically correct, nel mondo dell’industria musicale abbiamo un problema oggettivo: ci sono troppe poche donne. Poche musiciste, poche discografiche, poche manager. Potete girarla come volete, ma questo è un dato di fatto. Ed una stortura insensata a cui bisogna rimediare. Non c’è infatti nessun motivo per cui una donna sia un peggior ingegnere del suono o peggior strumentista o peggior A&R o peggior dj di un uomo, a meno di non pensarla come quel mezzo deficiente di Konstantin della Giegling (ricordate?).
E’ che, molto semplicemente, anche nella musica dobbiamo ancora scrollarci di dosso secoli e secoli di (pre)giudizi, per cui l’uomo lavora e la donna è a casa a spignattare, stirare e passare lo straccio. Una visione del mondo che, ci auguriamo, non faccia scientemente parte più di nessuno di voi (…anche perché di solito appartiene a coloro che chiuderebbero tutti i club, blinderebbero ogni città, silenzierebbero ogni divertimento notturno, condannerebbero ogni diversità: che cazzo ci starebbe a fare questa gente, nel clubbing?). Però ecco, è una visione del mondo che ha ancora molti addentellati e molti strascichi, spesso involontari, impliciti, subconsci anche fra di “noi”. La donna è ancora semi-assente in moltissimi lavori, a livello di immaginario collettivo: col risultato che sono poi le donne stesse a non essere spinte ad intraprendere certe carriere, ad avere paura nel farlo. Comprensibile, tra l’altro: perché poi, una volta che lo fanno, devono faticare il doppio per emergere e far brillare le loro qualità, dato che devono affrontare lo scetticismo dei colleghi maschi e dell’ambiente lavorativo in generale. E dei soliti soloni per cui “Ah, chissà lei a chi l’ha data per arrivare a fare quello che fa”.
“Ah, chissà lei a chi l’ha data per arrivare a fare quello che fa…”: sicuri sia la domanda giusta?
Senza mettere la sabbia sotto il tappeto: ancora adesso ci sono ancora molte ragazze che sono in determinate posizioni perché “l’hanno data a…”. Chi lo nega. Ma sapete che c’è? Questo, proprio questo sarebbe un motivo in più per spezzare questo circolo vizioso idiota. Continuando a dirlo in automatico, infatti, non fai che perpetuare la persistenza “socio-lavorativa” di questa dinamica, la sua persistenza e il fatto che sia, in qualche modo, “normale”, accettabile. Bisogna piuttosto abituarsi a chiedersi, come prima cosa, “Ma è brava?” e non “A chi l’ha data?”. Se siete onesti con voi stessi (ed anche oneste, perché è pure un pregiudizio femminile), questo accade ancora troppo poco. Se invece ci abituassimo a giudicare le donne al lavoro solo su quanto sono brave o no, e ‘sti gran cazzi di cosa fanno nel privato (come avviene per lo più con gli uomini), si toglierebbe il terreno sotto i piedi anche alle più spregiudicate e ciniche, quelle che usano il proprio fascino come merce di scambio ed avanzamento promozionale per nascondere i loro limiti professionali. Non sono le donne che devono smettere di andare a letto con chi pare loro: è questa merce di scambio “relazionale” che, nel lavoro, deve diventare irrilevante. La chiave è questa.
Sia come sia, uno dei modi migliori per superare finalmente questa situazione ormai sempre più inaccettabile nell’industria musicale è dare visibilità alle già tante figure femminili (e includiamoci anche le altre minoranze di genere, discriminate anch’esse) presenti e presenti gran bene, iniziando finalmente a modificare l’immaginario collettivo, compensando in senso opposto pregiudizi lunghi decenni, secoli. Di donne che lavorano nella musica, anche in ruoli di solito “maschili”, ce ne sono già tante, e lavorano pure a modo. Con una preparazione professionale al di sopra di ogni sospetto. Da qualche anno tantissime di esse si sono consorziate su base internazionale nel progetto shesaid.so muovendo iniziative di qualità che servono, prima di tutto, a far vedere che la figura femminile nel business c’è eccome e, altrettanto importante, servono pure a creare un network che renda questo esempio ancora più strutturato, visibile, efficace, impattante.
C’è poi tutta un’attività “interna” (e non solo) di condivisione di contatti, conoscenze, esperienze, e anche questo può essere un buon modo per aiutare chi magari ha paura di non essere “adatto” e di non essere ben visto in un determinato contesto professionale con determinate mansioni. In tal senso è molto interessante quanto messo su da shesaid.so in collaborazione YouTube Music: un “Programma di mentoring” valido per Francia ed Italia dove, per ciascun paese, si selezionano 12 mentor e 12 mentee (in pratica, le professioniste e coloro che muovono i primi passi nell’industria) e le si fanno interagire, con training mensili e un costante contatto ed interscambio. Tempo fino al 7 giugno per aderire&partecipare.
Vi pare una cosa di poco conto? No. Non lo è. La forza dell’esempio e la condivisione di informazioni sono due energie fortissime per cambiare le cose, e cambiarle in meglio. Perché ogni volta che si parla di “condivisione”, fidatevi, gli effetti sono benefici. Una cosa che si dimentica troppo spesso in una economia che ama talora troppo essere competitiva ma in modo cieco, distruttivo; perché la competizione non è un male di per sé, tutt’altro, lo è la competizione stupida e cieca, quella che mira di più a delegittimare e sgambettare l’avversario che a migliorare se stessi. La competizione tossica.
Non vediamo l’ora che arrivi un mondo in cui non ci sia bisogno di shesaid.so, in cui né donne né qualsiasi orientamento sessuale siano discriminati, e in cui ogni discorso di “quote rosa” e di “rappresentanza di genere” sia visto come ridicolo, ottuso ed assurdo. Purtroppo, questo mondo non c’è ancora. No, non c’è ancora, non raccontiamocela. Ma mettiamoci di buzzo buono per farlo arrivare, però: ogni iniziativa in tal senso è la benvenuta, a partire da questo “Programma di mentoring”. Complimenti a veri a shesaid.so per tutto quello che fa, così come vogliamo ricordare il grande lavoro svolto da Female Pressure (vedi anche Facts 2020). Avanti così. Senza distinzione di genere.