Corrispondenze. Quelle che Baudelaire coglieva tra le energie cosmiche sprigionate nella natura, quelle che Gianluca Petrella oggi intreccia attraverso una musica e un’espressione artistica che cerca di essere sempre più trasversale non solo attraverso gli stilemi di genere, ma anche interdisciplinare nel senso che ci è stato mostrato – solo per citare l’esempio più rappresentativo e fulgido – dall’Art Ensemble of Chicago. “Correspondence” è il titolo dell’ultimo disco di Petrella e di Pasquale Mirra e battezza anche il progetto speciale che prende vita sul palco di Umbria Jazz il 13 luglio, per una delle rare ma preziose occasioni in cui il festival si fa mecenate della creatività.
«La ‘corrispondenza’ del titolo è quella tra i due musicisti, Pasquale e io, intesa anche come relazione in cui uno conclude quello a cui l’altro non riesce ad arrivare», racconta Petrella nel pomeriggio, mentre è alle prese con gli ultimi aggiustamenti del concerto serale. «È un disco pensato a quattro mani: non avrebbe potuto esserci titolo più azzeccato. Ognuno ha la propria idea circa lo sviluppo della musica, che non è mai totale per me. Per me, per arrivare ad avvicinarsi al totale, è bello e appagante collaborare con altre persone e mettere tutto nelle loro mani. È qualcosa che abitualmente amo fare, anche per migliorare le mie conoscenze e le mie capacità: quando hai un interlocutore ti relazioni e cogli il meglio della persona. È sempre un vantaggio».
Formazione al gran completo per il concerto di Umbria Jazz, con Riccardo Onori alla chitarra, Blake Franchetto al basso, Simone Padovani alle percussioni, Kalifa Kone con una distesa di strumenti tra talking drums, n’goni, calabash, Reda Zine alle prese con guembri, chitarra, percussioni e interventi vocali e DEM ai live visual. «Riproduciamo le sonorità che si trovano nel disco», spiega Petrella. «Abbiamo avuto la possibilità di allargare la performance a tutti gli ospiti e ai personaggi nuovi che sono passati. Quindi è a tutti gli effetti un’altra band. E spero che replicheremo in altre date. Quando una band nasce non è bello farla morire subito, sarà complicato portarla in giro ma le possibilità ci sono». «Qual è la difficoltà? Non è più come venti o trent’anni fa, quando potevamo garantire il necessario a tutti. Il mondo è cambiato e sono cambiate le cose che puoi offrire alle persone, a partire dalle disponibilità economiche che comprensibilmente incidono molto nella vita di un gruppo numeroso. Sarà complicato, ma a volte se fai un buon lavoro ti viene riconosciuto e la tua musica viene richiesta».
Un understatement che poco si addice alla fierezza con cui conduce tutte le sue creature musicali, quello di Petrella: perché la sua dimensione artistica è molto più di un “buon lavoro”. A partire dall’approccio al trombone. Perché fa parte di quella ristretta cerchia di musicisti capaci di dischiudere un mondo e raccontare una vita intera nel suono del proprio strumento. Un potere magico e insieme una radicalità esistenziale prima ancora che artistica, che personalmente ho potuto ascoltare in pochi, pochissimi: nel violino di Laurie Anderson, nel pianoforte di Brad Mehldau, nel contrabbasso di Charlie Haden. Insieme a un’assoluta padronanza tecnica, questa qualità espressiva straordinaria permette a Petrella di alternare sul palco momenti di perfetta solitudine a lunghe odissee sonore in cui lascia che sia l’ensemble a diventare protagonista, mentre lui dirige con una prossemica che ricorda a tratti l’amatissimo Miles “elettrico”, a tratti un attore d’altri tempi. Una “arkestra” in cui apparentemente Petrella suona poco, ma dove in realtà suona tutto.
Sono le percussioni, nel loro afflato più melodico, ad avere un ruolo preponderante in “Correspondence”, dove anche il vibrafono di un inesorabile Pasquale Mirra recupera la sua qualità ritmica. Sulla struttura che Mirra perfettamente articola si innalzano escalation percussive piene e stratificate, che pervadono l’aria densa del teatro come pulviscolo stellare. Mi sporgo dal palchetto cercando di non far cadere il mio taccuino rosso in testa a qualcuno in platea, mi giro, in piedi come me c’è Dj Ralf. Perché come fai a stare seduto, quando la musica ti attira con questa tensione irresistibile?
Abbandonando la grana siderale dei brani più lisergici, “Correspondence” si tramuta in un animale del deserto, rivestito di un suono saturo e bruno, dal sapore quasi oppiaceo. In questo secondo, lungo movimento denso e omogeneo, Petrella si concede una parentesi di isolamento che non può definirsi un assolo: è invece un mantra circolare e infinito, in cui riconciliare presente, passato e futuro. Questi istanti eterni di completo sacrificio sullo strumento scivolano verso l’ultima parte della performance, in cui la musica dell’ensemble recupera colori che diventano quasi sfavillanti, giocando con l’afrobeat e con tribalismi tutt’altro che prevedibili. Fino a un bis liberatorio, che scompone e ricompone “Brown Rice” di Don Cherry in una trama riconoscibilissima eppure inedita, e in cui il pubblico sembra non esistere più, trasfigurato da questo rituale collettivo che stravolge e reinventa le convenzioni espressive, performative, umane.
Foto di Karen Righi