Sono passate circa 48 ore da quando sono tornato nell’ordinarietà. La scrivania è piena di appunti infangati e stropicciati, line-up scarabocchiate e flyer che ormai sembrano cartapesta. Ancora non mi sono definitivamente ambientato, ancora non so bene ciò che sto per dirvi. Il Dour non è un festival che occupa solo 4 giorni di uno o più anni della tua vita, decisamente no. Il Dour è sempre iniziato circa un mese prima rispetto l’apertura dei cancelli e finito sempre più o meno una settimana dopo la loro chiusura. Non sto parlando solamente dei necessari periodi attraverso i quali ci si abitua agli improvvisi e drastici cambiamenti di realtà – perché, per dirne una, passare dai 40 gradi di Roma al freddo e ai 25 centimetri di fango del Dour è una bella botta – vi sto parlando anche dei tarli che nascono nella testa, dei pensieri e ragionamenti che non finiscono mai di distrarti. Questo perché il Dour è uno di quei festival che costituiscono una vetrina, un balcone con splendida vista sull’evolversi di buona parte del panorama musicale, e non solo, europeo. Per l’appunto, circa un mese prima del festival ho iniziato a stilare la “Dour packing list” e ad analizzare meticolosamente le line-up dei 4 giorni ascoltando dozzine di album, leggendo biografie e interviste, seguendo pagine Facebook e chiedendo pareri ad amici e colleghi. Una tale quantità e varietà di informazioni su una così varia offerta musicale che, quando arriva il momento della pratica, ci vuole un pò prima di acclimatarsi e ad attivarsi per bene. Dopo un’infame sveglia alle 3 di notte, una fuga verso l’aeroporto di Fiumicino, gli infiniti tappeti mobili di Charleroi, i due treni fra Bruxelles, le cittadine fatte di classici tetti nord-europei e le campagne belghe arriviamo finalmente a Saint-Ghislain. Con in spalla zaini da boy scout, ci facciamo un giro per il paese cercando il primo supermercato dove rifornirci per i 4 giorni di festival. Il cambiamento è radicale: 6 ore prima eravamo nel caos, ora in una cittadina silenziosa, semi deserta, piena di fiori e speaker che diffondo musica jazz per le vie centrali. Ogni tanto incrociamo qualcuno che, come noi, sembra un errore della realtà, un mulo che con fare non troppo elegante trasporta zaini, tende e buste della spesa piene di pane, biscotti, affettati e vodka. Dopo l’ultimo pullman e i primi segnali “pericolo: possibile delirio di fango”, arriviamo ai cancelli. Siamo finalmente al Dour: il sole c’è, l’organizzazione è da subito efficientissima, gente e tende sono ovunque e un pò più in là, fra gli alberi, finalmente le punte viola e gialle dei marquee.
Purtroppo, però, il tempo è stato amico solo per le prime ore, dopo le quali si è abbattuto su di noi il delirio. La pioggia e il fango già dalla prima sera rendevano difficili e faticosi gli spostamenti fra i vari palchi e dal secondo giorno la situazione ha raggiunto livelli allucinanti. E’ stato bello, nonostante tutto, vedere come quell’infinito fiume di persone non si fermava davanti a nulla, si muoveva implacabile per i marquee fra sorrisi, musica e scivoloni a pieno viso nel fango. La melma ci poteva rallentare, ma mai fermare. Anche se le condizioni meteorologiche sono state ben più avverse rispetto all’anno passato, allo stesso tempo hanno reso magici alcuni momenti, primo fra tutti l’esibizione di Bon Iver che ha dato vita ai 60 minuti più belli del festival. Piedi letteralmente bloccati in un oceano di fango, cielo plumbeo, tramonto e sul palco The Las Arena un gruppo di veri musicisti, capaci di creare qualcosa di appassionante e appassionato. Magia pura. Non vi racconterò puntualmente di ogni singola performance o momento del festival, 150 artisti sono troppi e quei 4 giorni sembrano una settimana a pensarci ora. Non lo farò anche perché il nostro Dour non è stato semplicemente un infinito puzzle di artisti, esibizioni, scoperte e momenti folli, è stato invece qualcosa di più unitario, di più grande e imponente. Come dicevo, un balcone sul panorama musicale europeo. Questo è l’aspetto che più ci piace del Dour, il fatto che non è un festival di elettronica e che ti permette di tornare a casa con una cassa di nuova musica dai generi più disparati. Anche quest’anno siamo rientrati con un bel pò di nuove cose da ascoltare, anche se, inaspettatamente, stiamo parlando principalmente di rap, funky, world music e sincretismi vari. Poca elettronica pura insomma, ma moltissima musica “da band” per così dire.
Qua, però, arrivano le note dolenti; il nostro caro balcone ci ha permesso di fotografare una scena musicale a dir poco sconcertante, un diffuso pressappochismo musicale da far ribrezzo. Anche questo voglio raccontarvi del Dour, voglio raccontarvi di qualcosa che ha a che fare solo marginalmente con il festival in sé, qualcosa che va a incrinare solo in piccola misura il nostro giudizio positivo, vista l’ampissima offerta musicale, la perfetta organizzazione e la grande esperienza che ogni anno questi quattro giorni ci regalano (quasi in senso stretto, perché 115 euro per 4 giorni di festival con campeggio incluso è una miseria). Ovviamente non sarebbe giusto fare di tutta l’erba un fascio: i The Peas Project sono stati letteralmente grandiosi, una carica, un’irruenza unica… la forza del Soul! Lo stage “De Red Bull Elektropedia Balzaal”, nel complesso, ha portato avanti una programmazione elettronica interessante, potente e varia con Murdok, Wilkinson, Space Dimension Controller, The Chain, Sun Glitters (che abbiamo adorato), Shlohmo e Mount Kimbie, anche se personalmente non capisco tutta quell’attenzione per il dj set di James Blake che, come al M.I.T. di Roma, è stato vuoto, spento e molto noioso. Interessanti anche i live e dj set di Joris Voorn, Max Cooper, Clark, Scuba, Squerpusher, il classico Adam Beyer, BATTLES, Brodniski Vs Gesaffelstein (anche se, detto sinceramente, a noi Gesaffelstein piace più quando sta per conto suo e picchia come un dannato), l’ineguagliabile Kentaro, i divertenti ma ormai non poi così interessanti Bloody Beetroots. Passando ad altri generi abbiamo apprezzato in particolar modo il live dei The Rapture, di Dâm-Funk (una delle performance che più ci hanno tenuti attaccati al palco nonostante i suoi lunghi monologhi), Dinosaur Jr, Bon Iver, Dope D.O.D, i giovani 1995, Tiken Jah Fakoly e dalla nostra tenda (dateci un attimo di pausa per riprenderci!) abbiamo notato che anche i The Flaming Lips e i Franz Ferdinand hanno scaldato per bene il pubblico, ma quanto a qualità musicale non ci esprimiamo, noi non c’eravamo. Detto questo, avendo messo al sicuro il Dour, torniamo al pressappochismo cui avevo accennato poco fa. Dobbiamo ammettere che se c’è qualcosa che l’organizzazione ha toppato (oltre a dimenticare, il primo giorno, di appendere su ogni palco l’insegna con il suo rispettivo nome, cosa che a freddo potrebbe sembrar quasi simpatica, ma che non lo è affatto se si pensa che centocinquanta mila persone non sapevano bene dove andare) è stata la forte concentrazione di particolari generi musicali nei vari giorni, specialmente durante le ore di luce solare.
Questo ci ha permesso di prendere coscienza di una situazione sconcertante: è come se ormai, abituati ad ascoltare dischi a casa così come nei club, abbiamo perso la capacità di distinguere chi sa suonare e chi no, chi crea musica e chi no, chi ha stile proprio e chi no, chi ha studiato e chi invece pensa di far musica mettendo in croce qualche powerchord; stiamo perdendo la capacità di valutare il grado di interpretazione proprio di un artista, e questa è una cosa gravissima. Il modo in cui i gruppi si presentano su disco spesso non ha nulla a che vedere con ciò che poi sono realmente nei live. Fermi tutti, questa non è una novità, ma è qualcosa che, a mio avviso, si sta pericolosamente diffondendo a macchia d’olio. Abbiamo visto ridicoli cantanti indie-rock atteggiarsi a outsiders, stuprando con unghie smaltate una chitarra che se potesse parlare direbbe “mi stai prendendo per il culo?”, avendone visti di stupri veri; folle in delirio per un coglione che avvicina lo strumento all’amplificatore e innesca un feedback di 2 minuti senza né capo né coda – non è ovviamente il feedback il problema, ma la mancanza di controllo e senso artistico. La differenza è che, mentre prima questi gruppi da serie televisiva rimanevano gruppi da sitcom, li ascoltavi a casa quando non volevi pensare o volevi canticchiare un pò, ora invece si atteggiano ad artisti quando invece sono semplicemente il frutto di registrazioni e mastering messi a punto da gente che sa il fatto suo. E questa non è poi così tanto una digressione dal nostro format “electronic music magazine” perché gli stessi concetti, ovviamente in vesti differenti, spesso li abbiamo ritrovati nelle performance di musica elettronica. La dubstep dilaga ovunque, te la danno in omaggio pure con un panino al Mac ormai, è l’ultima vittoria (su di noi) dell’industria musicale; quei salendo effettivamente carichissimi che però irrompono costantemente e tristemente nei soliti tempi dimezzati a cadenze larghe sono l’emblema di tutto questo discorso, di questa massificazione fatta di false promesse artistiche. Non mi sto certo riferendo alla dubstep di Scuba o di Skream, ma diciamocelo, basta con questo “You blocked me on facebook and now you’re going to die”, che all’inizio era pure divertente ma che ora, per usare le parole di Scuba per l’appunto, “è come farsi prendere a calci in culo tutto il tempo, è veramente così divertente?”. A queste conclusioni mi ha portato il Dour 2012, conclusioni dal sapore amaro e alle quali non sono arrivato dopo il Dour dell’altr’anno, cosa che forse sta indicare il fatto che nell’ultimo anno le cose sono peggiorate assai.
D’altra parte, per tornare al festival vero e proprio, quando non c’era niente che ci interessasse potevamo perderci con gran piacere nell’immenso spazio riservato alla festa (pioggia permettendo). L’aria che si respira al Dour è aria buona a prescindere dal tempo. In stivali e mantellina puoi incrociare un gruppo di amici folli, una coppia di innamorati o un ragazzo perso in un viaggio troppo scuro, come una bambina che segue per mano il papà con occhi stupefatti o un’anziana signora che proprio non riesci a capire cosa ci faccia lì. E‘ un pò come vivere in un’altra realtà per quattro giorni, quattro giorni fra musica, campeggio, fango e un fiume di persone, un fiume di opportunità. Una volta cambiati i soldi in classici ticket da festival (un sistema che odio profondamente perché, come da progetto, non si capisce mai bene quanto si spenda) ti si aprono le porte degli infiniti stand di bevande e cucine di tutto il mondo. Cammini fra gli alberi e mentre senti da una parte la cassa di Beyer e dall’altra vedi i lampi a led del nuovo live di Squarepusher, te ne stai con il tuo gocciolante kebab in una mano, una birra nell’altra e nel frattempo senti odore di cibo indiano e cinese… non esiste nulla di più interculturale. Per non parlare poi del tè alla menta! Abbiamo fatto caso allo stand “Warm Mint Tea” solo l’ultimo giorno di festival e vi dirò di più, l’abbiamo anche sbeffeggiato; ci dovevate vedere però, agli sgoccioli dell’ultima nottata, distrutti, con i capelli imploranti pietà, le scarpe con ancora solo qualche ora di vita (poco tempo dopo finiranno nei cestini della spazzatura di Bruxelles) e i nostri bei tè alla menta fumanti che cercavamo di non rovesciare fra un passo e l’altro. L’ultima notte, una volta abbandonata la Dance Hall e il fantastico palco di Feed Me (ecco, quest’anno il Dour ha dato molta più libertà all’aspetto scenografico delle performance), ci incamminiamo verso “casa” passando per il Clubciruit Marquee. Una volta arrivati, moriamo letteralmente in tenda sul terreno sconnesso e riapriamo la zip intorno alle 11 di mattina. Uscendo giusto con la testa dalla nostra quasi indistruttibile Quechua ci viene quella strana sensazione allo stomaco tipica di quando qualcosa di veramente bello e sentito è ormai giunto alla fine. Pian piano ognuno richiude la sua tenda, raccoglie da terra pantaloni, magliette sudice e tutto il delirio di immondizia che ha sparso per il camping.
Zaini in spalla e ci si incammina nuovamente. Anche il rientro è organizzato alla perfezione: nessun ingorgo o problema all’uscita, giusto qualche ragazzo con viso e indumenti distrutti che si attacca al bussolotto della polizia – chissà chi o cosa si è perso la notte prima. Nessuna fila che durasse più di 5 minuti, neanche per prendere l’autobus, un’organizzazione che veramente rasenta la perfezione. A casa proprio non ci volevamo tornare, tanto che ci siamo fermati un quattro ore a Bruxelles. Era fantastico ritornare dopo 4 giorni in una dimensione normale, coscienti che nelle nostre condizioni costituivamo una vera e proprio stonatura fra la gente, l’Art Nouveau e lo stile tardo gotico della città. Ci sentivamo un pò osservati; ogni tanto, però, incrociavamo qualcuno con scarponi, capelli a mo’ di stucco e zaino in spalla: uno dei nostri. E ora eccomi qua, seduto ad una scrivania piena di appunti infangati e stropicciati, line-up scarabocchiate e flyer che ormai sembrano cartapesta. Ancora non so se vi ho detto tutto o vi ho detto troppo, ma queste duemilatrecento parole mi hanno permesso di riordinare le idee, mi hanno permesso di arrivare ad una conclusione ponderata: l’anno prossimo, per la 25esima edizione del Dour Festival, io ci sarò, anche solo per riaffacciarmi, speranzoso, da quel balcone.