Alla fine di ogni scelta è importante una cosa: che chi sceglie sia contento, e che questa sua scelta non faccia direttamente male a nessuno. Se questi due principi sono soddisfatti, la questione è a posto. Decisamente. Anche se questo non toglie il dubbio – e il gusto – di discuterle le scelte. Eravamo infatti già rimasti molto perplessi quando i Detroit Swindle avevano cambiato nome in Dam Swindle, per parare le accuse di “appropriazione culturale” nell’usare il nome di una cittadine di cui non erano nativi. Accusa che ci era parsa e ci pare tuttora abbastanza discutibile, visto che c’era una precisa narrativa dietro alla scelta di “Detroit Swindle” (una narrativa tra l’altro proprio rispettosa verso Detroit e verso ciò che rappresenta); ma visto che questi paiono i tempi della suscettibilità, molti avevano alzato il sopracciglio, armato le dita sui social più pregni di buone intenzioni e bei sentimenti e voilà, i due olandesi hanno deciso che era meglio tagliare la testa al toro, togliere “Detroit” dalla ragione sociale e diventare Dam Swindle. Chi faceva le battutine “Mo’ chi deve cambiare nome, i Detroit Swindle?” hanno visto queste stesse battutine farsi realtà lineare.
Va bene, va bene. Da lì in poi, un po’ perplessi, le battute sono diventate: “Chi sarà il prossimo, i Nu Guinea perché si appropriano della Guinea quando invece sono napoletani?“. Beh: bingo. E’ successo. A partire da ieri, dite addio ai Nu Guinea – salutate i Nu Genea. Ecco il post su Instagram con cui Lucio Aquilina e Massimo Di Lena hanno annunciato la loro scelta. Si parte col ragù, si termina con “pertanto non sentiamo di avere il diritto di utilizzare quel nome senza avere una reale connessione con esso“:
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Ora. Non è questione di fare “…che tempi, signora mia” deridendo a destra e manca, e tra l’altro se questa scelta fa stare più a loro agio Lucio e Massi – due persone splendide – noi siamo contenti per loro, e poi che si tratti di Nu Guinea o Nu Genea ciò che conta è la musica (…e nel loro caso molto facilmente sarà sempre di alta qualità). Ma forse non è chiaro a tutti, ad esempio a chi – ed effettivamente ce ne sono stati – ha criticato negli ultimi tempi i Nu Guinea per chiamarsi appunto così, che questo meccanismo di denuncia dell’appropriazione culturale si sa dove inizia, ma non si sa dove finisce. Solo i napoletani possono fare musica napoletana? Solo i neri del Queens e del Bronx e, volendo, gli ispanici di LA possono fare rap? Se usi dei simboli o dei nomi rispettandoli, non puoi usarli se qualcuno per iper-sensibilità o, diciamolo, ottusità inizia a dire che tu non ti puoi permettere di fare questo e fare quello, visto che non sei così e cosà? Gli omaggi ad Underground Resistance li può fare solo Mad Mike e chi vuole lui? Quelli di Dancity quando hanno fatto Umbria Resistance hanno fatto un gesto scorretto o un omaggio?
Rendendo così automatici e dogmati il rispetto e l’idea di giustizia, restiamo convinti che si fa più male che bene. Invece di chiedere alle persone di ragionare, di capire le intenzioni dietro ad una scelta ed i gesti concreti che ad essa si legano, ci si attacca alla nomenclatura. Non puoi dire questo perché offendi, non puoi dire quello perché non ci sei nato, non puoi sfruttare questa cosa perché non è nel tuo background etnico o nazionale: se da un lato è giusto rimarcare automatismi culturali dati per scontati per secoli che nascono però da una egemonia culturale, politica e militare occidentale basato sullo sfruttamento e sulla prevaricazione (idem sulle questioni di genere), il modo migliore per superare questi automatismi non è imporne di altri opposti ma uguali. Il modo migliore sarebbe ragionare. Sarebbe imparare a capire che ciò che conta è distinguere, discernere, comprendere, non attaccarsi ai nomi ed agli asterischi come se l’attenzione su di loro risolvesse integralmente il problema nella sua essenza.
Sarebbe, soprattutto, capire sempre meglio dove passa il confine tra “appropriazione culturale” e “scambio e commistione culturale“. La seconda continua a sembrarci la via molto, molto migliore. Anche perché è esattamente quello che ha fatto nascere tutte, e sottolineiamo tutte, le musiche che qui amiamo: techno, house, hip hop, drum’n’bass, eccetera eccetera. E che un giorno qualcuno possa arrivare a dire a degli europei bianchi (o a degli asiatici, o…) “Non potete citare la techno o l’hip hop, non è nella vostra storia, non siete stati voi a farli nascere” è una distopia brutta, un impoverimento culturale collettivo. Creare ponti e scambi, non costruire fortezze sdegnate. Occhio: nessuno vuole disconoscere gli anni del colonialismo economico, culturale e militare dell’Occidente verso il resto del mondo dei secoli scorsi. E’ bello e giusto se ne parli, è fondamentale anzi, ma affrontare questo problema con automatismi linguistici, ripicche ed isolazionismi crea non giustizia, ma una doppia ingiustizia.
Fa perdere bellezza, pure. Perché sinceramente il motivo per cui Massi e Lucio avevano scelto di chiamarsi Nu Guinea ci pare bellissimo. Ad ogni modo, con loro due, con la loro scelta, non abbiamo nessunissimo problema: ma con chi li ha accusati di razzismo ed appropriazione culturale nell’aver scelto di chiamarsi come si erano chiamati, un po’ di perplessità ce l’abbiamo sì. Aggiungiamo, ed è una nota a margine personale, un’opinione, e non una condanna alla scelta del duo napoletano, sia chiaro: l’ottusità va affrontata e decostruita, non incoraggiata per paura di offenderla. Forse è proprio così che si costruisce meglio la “attenta sensibilità” che (giustamente!) Lucio e Massi invocano a fine post.