Matilde Davoli è uno dei veri “unsung heroes” della musica indipendente italiana. Anzi: dà maledettamente fastidio che oggi che l’indie miete dividendi prima inimmaginabili, Matilde non sia una “venerabile maestra”. Lei ha fatto cose prima e meglio di altri (la sua prima esperienza con gli StudioDavoli, una delizia sorta dal nulla che ricordava per certi versi gli Stereolab, è datata addirittura 2004-2006); lei ha fatto cose “maschili” ben prima che la gender equality diventasse un cavallo di battaglia (e, per qualcuno, una moda da cavalcare furbescamente per motivi di marketing); lei ha avuto il coraggio e l’attitudine di fare un enorme lavoro dietro le quinte, come ingegnere del suono e tecnico da studio. E poi c’è un’altra cosa da dire: Matilde Davoli, come musicista, è semplicemente brava. Bravissima. Non sgomita, non produce tanto, non si sforza di apparire ed “esserci”, l’”Home” uscito queste settimane è solo il secondo album a nome suo (ma bisogna contare anche quelle “lost gems” a nome Girl With The Gun, il progetto a due con Populous, che lei ricorda come “In quel momento né io né lui sembravamo andare da nessuna parte e allora ci siamo detti ‘Dai, facciamoci compagnia in questo disastro’…”); ma quando fa, ammalia. “Home” è un disco bellissimo. Davvero: in un mondo migliore, Matilde Davoli nella sezione di storia dedicata all’indie italiano dovrebbe avere un posto molto ma molto in alto. Ma a lei non interessa. Si tira fuori da questi discorsi: a lei non piace apparire. Non le è mai piaciuto. A lei piace fare. E non le piace, o non le piace del tutto, farsi intervistare…
Matilde, ma ti preoccupa ancora farti intervistare?
Oh sì, sempre.
Ma dai, ma perché, non si può sentire ‘sta cosa…
Guarda, non lo so. E’ che non sono abituata a parlare di me. Quando lo devo fare, è un momento che ancora adesso mi mette in soggezione.
Ti è mai successo però che qualche intervista ti aiutasse a capire meglio la tua musica, parlandone?
Sì, sì, succede. Sicuro. E sai come mai succede? Perché io di mio sono una persona comunque molto istintiva. Quindi, mi capita di fare delle cose d’impulso, senza nemmeno averci ragionato sopra – le faccio perché le faccio, ecco, poi magari sono altri che mi aiutano a capire il senso. Succede soprattutto con gli amici, quelli più stretti: “Quindi hai fatto questo perché…”, mi fanno. E io: “Ah sì? Uh. Forse hai ragione”.
Devo dirti che faccio fatica a vederti come una persona così tanto istintiva, poco pianificatrice. Sei una gran professionista come ingegnere del suono: e lì ci vuole tecnica e meticolosità prima ancora che istinto.
Credo che in realtà ci siano due categorie, fra gli ingegneri del suono, fra i tecnici da studio. Fra queste due, io di sicuro appartengo a quella meno tecnica e precisina. Ci sono quelli che sono dei mostri della tecnica, sono precisissimi, sanno tutto di qualsiasi cosa, ma magari sono un po’ meno creativi. Bene, io sono dell’altra categoria: quella meno nozionistica, meno tecnicamente perfezionista e preparata, un po’ più aperta alla creatività (e in questo modo sopperisco magari a qualche mancanza di nozioni super-approfondite). Non c’è un meglio o un peggio, attenzione. Sono semplicemente due approcci diversi.
Ok. Ma tu sei una persona che preferisce stare dietro le quinte, appunto negli studi di registrazione a lavorare per altri, oppure ami anche esporti di persona, essere tu l’artista protagonista sul palco? Sai che dopo quasi vent’anni che ti seguo a distanza non l’ho ancora capito…
Io adoro stare dietro le quinte, mi piace tantissimo! Mettermi in primo piano, se proprio devo farlo lo faccio; ma davvero, non mi piace stare al centro dell’attenzione. Vale lo stesso per lo stare su un palco e suonare. Finché lo devo fare per altri lo faccio volentieri, mi diverto. Se invece lo devo fare per me, come leader, per i concerti a mio nome, mi viene un sacco di ansia.
Senti, ti faccio una domanda scomoda e stupida al tempo stesso: di questi tempi, tu avresti potuto capitalizzare parecchio il fatto che – fin da tempi non sospetti – sei una donna bravissima in campi ritenuti “maschili”: ovvero il suonare, lo stare in studio, curare molti gli aspetti “tecnici”. Ora che che c’è questa grande attenzione alla gender quality potresti giustamente farti avanti e dire “Oh, io lo facevo fin da subito, quando i tempi erano molto più difficili”. Ci sarebbe un sacco di rispetto da tributarti. Ehi: dovresti approfittarne.
(Scoppia a ridere; NdI) …sì, probabilmente sono una persona che non si sa vendere per un cazzo! Però guarda, è un discorso molto ampio e delicato. Molto difficile, sì.
E’ vero che il mondo della musica continua ad essere prettamente maschile in gran parte degli ambiti ambiti, ma sai cosa? Non credo sia solo colpa degli uomini
Proviamoci.
E’ vero che il mondo della musica continua ad essere prettamente maschile in gran parte degli ambiti ambiti, ma sai cosa? Non credo sia solo colpa degli uomini. Non si dice abbastanza di come ci sia anche un problema di approccio femminile, a certe cose. Vale per il campo dell’ingegneria del suono, del lavoro da studio, ma vale anche molto banalmente per il suonare uno strumento. Ci sono meno donne, sì. Quelle che ci sono magari sono molte brave, ma effettivamente sono una minoranza molto ridotta. Però piuttosto che andare a cercare una responsabilità o una colpa di qualcuno, io dico questo: se le donne vogliono cambiare questa situazione, allora la cosa migliore da fare è rimboccarsi le maniche. Iniziare a farle e ad impararle, certe cose. Perché spesso le donne per prime non sembrano interessate ad intraprendere certe vie. E’ un po’ il discorso delle “quote rosa”, che affronto spesso anche con varie mie amiche – e non sempre abbiamo lo stesso punto di vista.
Ovvero?
Io non sono particolarmente favorevole alle “quote rosa”: ma non perché siano sbagliate in assoluto, ma perché ritengo non siano l’approccio più efficace per arrivare all’obiettivo che tutti vogliamo. Sai, molto spesso mi sono ritrovata ad essere stata chiamata per alcuni progetti, ero l’unica donna, e la domanda non poteva non entrarmi in testa: “Sono qua perché sono Matilde Davoli e sono brava, o perché avevano bisogno di una donna da mettere in cartellone tanto per?”. Quando questo succede, credimi, è imbarazzante. Vedi: già ad essere donna parti da una posizione di svantaggio, per i motivi che tutti sappiamo; poi pure inizi a sentirti questa croce addosso… “Sì, ma se non facciamo niente di concreto allora le cose non miglioreranno mai”, mi dicono le mie amiche che sono a favore delle quote rosa, di un riequilibrio insomma forzato. Ed è vero, qualcosa va fatto. Ma non sono convinta che questo sia il metodo giusto, quello più efficace. No. Io di mio sono molto a favore del concetto di responsabilità e di impegno personale: se sei lì, se sei arrivata a fare determinate cose, è sperabilmente perché ti sei molto impegnata per farle. Magari hai dovuto faticare un po’ di più? Vero. Verissimo. Perché nessuno vuole negare che, se sei donna, le cose spesso sono più difficili, c’è uno scetticismo iniziale in più da affrontare. E’ assolutamente così. Ma resta il fatto che: si può fare. Ce la puoi fare. Se a una cosa ci tieni davvero, ti impegni e la ottieni. E pazienza se all’inizio devi faticare un po’ di più.
(L’album appena uscito, “Home”; continua sotto)
Vorrei tornare a questa cosa del fatto che ti “vendi” male. In effetti, anche con “Home” secondo me l’hai fatto: perché hai messo i pezzi più interessanti dell’LP dalla seconda parte in poi. Quelli più densi, più interessanti, con più idee. Oh, non si fa! (risate, NdI)
…questo che dici è molto interessante. Non lo so: l’ordine delle tracce alla fine è nato basandosi su come si incastrano i pezzi fra di loro. Però sì, diciamo che per come la vedevo io dalla seconda metà in poi c’erano non tanto i pezzi migliori, quanto proprio quelli più difficili…
Beh, per me sono i più belli.
Grazie mille! Anche perché avevo un po’ la paura che, mettendo i pezzi un po’ più complessi nella seconda metà, poi magari chi ascolta fa fatica ad arrivare fino alla fine dell’album. Oggi è difficile avere un ascolto attento dalle persone. Anzi: spesso è difficile avere un ascolto e basta, se si tratta di un album. E’ tutto consumato molto velocemente.
Mi stai insomma dicendo che la “qualità d’ascolto” media delle persone è peggiorata, negli anni… Per dire, ti faccio una domanda precisa: all’epoca di StudioDavoli la gente era più attenta, attiva, ricettiva?
Sì. Molto di più. Paradossalmente, erano tutti molto affamati di musica. Oggi invece i contenuti arrivano da tutte le parti, con lo streaming. Sia chiaro: Spotify e simili sono una cosa bellissima. Avere tutta la musica possibile a portata di clic, poter ascoltare in ogni momento quello che vuoi – tutto questo è stupendo. …stupendo, sì, ma al tempo stesso crea una specie di vuoto. E’ come quando passi la serata davanti a Netflix e passi tutto il tempo a cercare di scegliere cosa vedere, per poi non vedere nulla.
A me succede, in effetti.
Anche a me! Ed è frustrante, è stupido, non trovi? Quando ero un po’ più ragazzina, insomma tipo al tempo di StudioDavoli, la musica era una cosa che invece ti dovevi “andare a cercare”, e pure con molta, molta fatica. Ti andavi a comprare le riviste, e leggendo quelle sceglievi i dischi, che eri costretto ad acquistare praticamente a scatola chiusa, pagandoli nemmeno poco. Era una lotta senza sosta. Nutrire la tua voglia di musica era insomma una fatica, era una battaglia. Anche frustrante come battaglia ogni tanto, eh, non nascondiamocelo. Ma oggi siamo arrivati all’estremo opposto e, boh, non lo so… Tutto deve essere consumato in cinque minuti. Tutto. Col risultato che tu, artista, dovresti essere obbligato a sfornare di continuo nuovo materiale: perché se non lo fai poi scompari dal giro delle playlist. Ora, io capisco che la musica sia un settore in crisi da anni, e quindi comprendo che ci si dà da fare e non si smette di fare uscire cose, ma – è sostenibile tutto questo? Fare un disco costa. Ancora oggi. La registrazione, il mastering, la stampa del supporto se ce l’hai, e poi la promozione: sono tutte spese e no, non sono basse. Riusciamo a tenere il ritmo? Ha senso tenerlo, poi, per il tipo di fruizione che c’è oggi attorno alla musica?
E’ diventato tutto più, come dire?, “facciata”. E’ diventato un po’ tutto un gioco a chi se la tira di più: che è una cosa che non mi appartiene, e non mi piace
Quando hai avuto l’impressione che “Home” fosse effettivamente un disco compiuto, di cui potevi fermare la lavorazione dichiarandolo finito? E quanto tempo ti ha portato via?
Io sono tornata da Londra verso la fine del 2015; nel 2016 mi sono sposata, e abbiamo comprato casa. Lì, abbiamo iniziato a ristrutturarla: una ristrutturazione durata troppo tempo e troppe bestemmie (risate, NdI). Io di mio avevo anche voglia di scrivere, di creare cose nuove per me, ma non ci riuscivo: eravamo accampati in una stanzetta di pochi metri quadri, circondati da scatoloni, con molta strumentazione ancora chiusa. Sì, c’era lo studio dove lavoravo (e lavoro tutt’ora), vero: ma io in studio non riesco a scrivere. Per me è un ambiente di lavoro. Emotivamente, se devo fare cose per me, ho bisogno di uno spazio “mio”, ho bisogno di una mia stanza, delle mie cose. Poi ad un certo punto ci siamo finalmente sistemati; solo che beh, in quella fase stavo lavorando così tanto che non trovavo mai il tempo giusto e necessario per sviluppare tutta una serie infinita di abbozzi e mezze idee… La chiave è stato completare quella che è la title track, da lì ho capito quale poteva essere la via che portava all’album, quale atmosfera lo avrebbe percorso. E’ calato poi ad un certo punto su tutti noi il Covid: egoisticamente, per me è stato bellissimo. So bene che è stato terribile per molti, attenzione; ma se devo guardare a me, devo dire che la sensazione di “Oddio, il mondo si sta fermando. Se perdo tempo e non sono produttiva non è più un problema per nessuno” è stata bellissima. E quindi, corollario: “Se si fermano tutti, ho il tempo di finire con calma le mie cose”. Così è stato.
Che poi, è solo il tuo secondo album da solista. Poi sì, andando molto indietro nel tempo c’erano i due dischi con StudioDavoli; ma ecco, per molti sei ancora una artista giovane, nella fase iniziale della propria carriera, anche se sei in giro da quasi vent’anni…
Sono l’eterna artista emergente, vero? (Sorride, NdI)
Esatto.
Bene, non emergerò mai! (Scoppia a ridere, NdI)
Ma tu, di preciso, come ti senti?
Mi sento grande e adulta, ovviamente. Mi sento una persona che ha tanta esperienza alle spalle: non solo dal punto di vista lavorativo, dove di esperienza ne ho tanta, anche dal punto di vista umano. Però è vero che se guardiamo al numero di dischi (a cui si possono aggiungere anche quelli fatti con Poplous, nel nostro progetto A Girl With The Gun), o di concerti, non sono una che ha fatto poi tantissimo, in tutto questo tempo. La conseguenza è che mi sento un po’ una via di mezzo. Io ormai sono nel giro da quindici, venti anni, vero: ma se penso a come era la situazione quando ho iniziato, erano mondi completamente diversi. Adesso è cambiato tutto, ed io per prima devo abituarmi bene alle nuove dinamiche. Ora hai le agenzie, gli uffici stampa, si lavora in un certo modo… Insomma, è come ripartire di nuovo da zero, devo imparare tutto di nuovo. Quindi sì: mi sento un po’ matura e al tempo stesso un po’ pivella. Perché è cambiato tutto attorno a me: aiutatemi! (Risate, NdI)
Domanda: tutti questi cambiamenti di cui parli hanno portato verso una maggiore professionalizzazione?
Secondo me, no. Secondo me assolutamente no. E’ diventato tutto più, come dire?, “facciata”. E’ diventato un po’ tutto un gioco a chi se la tira di più: che è una cosa che non mi appartiene, e non mi piace. Piuttosto che fare a gara a chi se le tira di più, io non me la tiro per niente. Sto in un angolo. Calma. Tranquilla. Va bene così.
Sicura?
Guarda: sì. Perché la verità è che farei davvero fatica a trasformare tutto in una gara, farei davvero fatica a buttarmi in una mischia che sento che non mi appartiene. Poi oh, se fossi costretta a farlo lo farei, non è che non ne sarei capace; ma lo farei inevitabilmente male. E allora, fra farlo male e non farlo, dove sta la differenza?