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Io ho un vizio orribile. Una iattura.
Una specie di malattia che ha influenzato in negativo la mia esistenza e segnato per sempre la mia carriera di lettore: quando entro in una libreria e trovo un libro che mi interessa mi sento costretto – giuro, COSTRETTO – ad aprirlo dalla fine. Sempre.
Ora, qui potrei inserire una lista di titoli la cui lettura mi è stata eternamente rovinata da questo mio bizzarro approccio alla materia, ma non intendo annoiarvi e cerco di arrivare subito al punto: “Compton”, il nuovo album di Dr Dre, uno dei dischi più attesi degli ultimi anni – sedici, per la precisione – sembra essere stato pensato proprio per fare contenti quelli come me.
Quelli che amano cominciare dalla fine.
Perché è proprio l’ultima traccia, Talking to my Diary, quella che andrebbe ascoltata per prima e che spiega alla perfezione cosa sia davvero “Compton” e quale ruolo aspira a occupare non solo nella discografia solista di Dre ma anche in quello scacchiere gigante e dalle caselle disordinate che è il pop contemporaneo. Quel brano, in realtà pensato proprio per essere come i titoli di coda di un disco che nella mente del suo autore ricalca la struttura di un lungometraggio (un vero e proprio kolossal cinematografico), rappresenta a tutti gli effetti la chiusura di un cerchio: Dre parla a se stesso, fa il punto della situazione sulla sua vita e la sua carriera, torna da dove è partito per poi gustarsi meglio il traguardo. Eppure non rinuncia a mettersi in discussione, prova a superare ogni forma di autoindulgenza, non dimentica il passato, le controversie, i morti seminati lungo il cammino, gli amici e i nemici. Quando dice di sapere che Eazy E, dovunque egli sia (paradiso, inferno, Valhalla, chissà), è di certo orgoglioso per quello che il suo ex socio è riuscito a combinare nella vita, lo fa non tanto per sentirsi a posto con la coscienza e mettere a tacere decenni di dicerie, scazzi e diss track (anche postume), ma per rassicurarsi. È Tony Soprano che parla con la sua psicanalista del rapporto con suo Zio Junior. È un uomo che si crede in pace, ma che sa benissimo che si tratta di una pace armata. Il Dre del 2015 è un tizio che siede a capo di una compagnia multimilionaria, un membro privilegiato e accettato della comunità, uno che vende cuffie costosissime (e di qualità neanche eccelsa) come se fossero panini al formaggio. Ha attraversato da protagonista quasi tre decenni di musica: c’era prima di tutti, ha inzuppato le mani in quello che sarebbe diventato il suono della West Coast, ha visto il rap passare da underground a mainstream e poi invadere ogni singolo aspetto della cultura pop. Era negli N.W.A. e con 2Pac, in classifica con Snoop e appeso alle pareti delle camerette dei ragazzini bianchi con Eminem. Ha vissuto più vite artistiche di Fritz il pornogatto, finendo per trasformarsi quasi in una figura mitologica metà Quincy Jones e metà Bill Gates. Sta alla storia dell’hip hop, e quindi del pop degli ultimi venticinque anni, più o meno come Phil Spector a quella del pop degli anni ’60. Lati oscuri compresi. Ogni suo disco è un evento anche solo per il semplice fatto di esistere (terzo album in ventitré anni di attività solista), “Compton”, poi, lo è ancora di più: per come è arrivato – a sorpresa, come si usa adesso, senza annunci o clamori – e per quando è arrivato, vista la calcolata concomitanza con l’uscita nelle sale di “Straight Outta Compton”, il film che racconta l’epopea degli N.W.A. e che in un solo weekend di programmazione ha superato i sessanta milioni di incassi (risultato che vale doppio, visto che si tratta di un film classificato “R”, più o meno vietato ai minori di 16 anni).
“Compton”, però, più che inatteso dal pubblico era inatteso dal suo stesso autore: per circa un decennio si è parlato con insistenza di questo famoso terzo disco di Dre, se ne conosceva il titolo, “Detox”, si sapeva il nome di alcuni collaboratori e ospiti, e addirittura qualche traccia era già comparsa sulla rete sotto forma di leak.
“Detox”, però, non è mai uscito; e a colpi di rinvii e smentite è finito per diventare un piccolo caso discografico, l’album mancante. Il disco dalla lavorazione più lunga e complessa da quando esiste il rap. Come “Smile” dei Beach Boys, ma con un sacco di batterie elettroniche, synth e campionatori.
“Compton” è nato come reazione a tutto questo, proprio mentre “Detox” terminava la sua corsa su un binario morto: Dre ha raccontato di non avere riciclato neanche un beat creato per l’album-che-non-è-stato, e di avere approcciato la composizione del nuovo lavoro in maniera molto istintiva.
Il trigger è stato proprio il film degli N.W.A.: dovendosi occupare di quel progetto e seguendone in tempo reale sviluppo e gestazione, Dre è riuscito a trovare una nuova spinta per la sua musica. Raccontare se stesso, il suo passato, la sua epopea, per spiegare al mondo l’uomo che è diventato ora. A cinquant’anni fatti e finiti.
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In un intervista recente, realizzata per Billboard e con Kendrick Lamar eccezionalmente in veste di reporter, i membri sopravvissuti degli N.W.A. hanno raccontato di quanto il loro universo fosse volutamente limitato: nelle mappe del rap la loro città non era presente, le storie che si sentivano arrivavano tutte da altre città, altri quartieri, altre latitudini. Quando si sono messi insieme non avevano in testa l’idea di sfondare, volevano solo fare qualcosa per la loro gente. Musica che potesse essere compresa e che parlasse ai ragazzi di Compton esattamente come il rap della East Coast parlava a quelli di Harlem e del Bronx. Non volevano diventare qualcuno, non volevano neanche essere famosi a Los Angeles, ha detto proprio Dre: volevano solo fare qualcosaper Compton. E guadagnare un sacco di soldi, ovvio. Think local, act global.
Si torna a Los Angeles, quindi, anche se questa volta la vista è dall’alto, come mostra la copertina, e si torna per strada grazie a un mix di vecchio e nuovo.
Perché “Compton” parte da un’idea ambiziosissima: quella di annullare il concetto di spazio e di tempo e creare una sorta di dimensione parallela in cui le due realtà possono convivere: vecchie glorie come Ice Cube, Xzybit, Dj Premier ed Eminem, tra gli altri, sfilano insieme a nomi nuovi come il già citato Kendrick Lamar (e la sua presenza può essere vista come una sorta di passaggio del testimone), i producer Dem Jointz e Justus e il rapper King Mez, che ha seguito il progetto fin dall’inizio e ha collaborato alla stesura di tutti i testi in cui Dre rappa in prima persona, come se si trattasse di una sorta di suo alter ego.
La forza di “Compton”, musicalmente parlando, sta proprio nell’equilibrio tra vecchio e nuovo: Dr Dre è riuscito a superare se stesso, nel senso che è stato capace di diventare anche altro da sé andando oltre i cliché tipici del suo suono e risultando fresco, attuale.
La nostalgia è solo uno degli elementi di questo nuovo disco, che non si basa tutto sui bei tempi andati e sul come eravamo: “Compton” è un album che ha un suo peso specifico e ce l’ha ora. Vuole essere centrale nelle faccende dell’hip hop dei giorni nostri e ci riesce grazie a un bel mix di alto e basso, pezzi hardcore e altri più facili, quasi festaioli.
Un disco per tutti, ma che non strizza l’occhio a nessuno, un micromondo con regole tutte sue e che si regge in piedi da solo. Un universo parallelo, appunto, in cui addirittura Snoop Dogg riesce per un attimo a mettere da parte la sua “anima pagliacciona” (per dirla come Pasquale Panella) e tornare agli antichi fasti di vent’anni fa con due cameo di livello altissimo. Uno dei quali, One Shot One Kill, è costruito interamente su un campione dei Calibro 35. E proprio One Shot One Kill è una delle canzoni più immediate e importanti dell’intero disco, insieme a Genocide, Talk About It e All in a Day’s Work, con l’intro di Jimmy Iovine (forse l’unico vero gangster presente nella tracklist) e il testo che parla apertamente di quell’epoca in cui per i rapper era più importante avere una pistola che uno stylist – ciao Kanye! – e cerca di analizzare il legame tra violenza e fama negli Stati Uniti e nel suo showbiz.
Non mancano neanche i momenti più estremi, come il finale di Loose Cannon che sembra la ripresa in diretta di un omicidio dove un uomo uccide la propria donna e poi brucia il cadavere.
La prima volta che l’ho ascoltata, la prima volta che ho ascoltato tutto il disco, ero in giro nel mio quartiere, nel deserto di agosto, e avevo le cuffie in testa (no, non le Beats) e mi si è letteralmente gelato il sangue. Al di là del loro indiscusso valore artistico, gli N.W.A. sono anche considerati, con grande vanto da parte loro, la band più misogina del pianeta – ricordate One Less Bitch? – e lo stesso Dre è stato più volte citato in giudizio per maltrattamenti (celebre il caso della sua aggressione alla giornalista Dee Barnes). Proprio in questi giorni è scoppiata una grossa polemica legata proprio al film di “Straight Outta Compton”, nel quale certi fatti sarebbero stati eliminati di sana pianta dalla storia come in una sorta di autocensura preventiva. Dre si è poi detto pentito di quella vicenda, e anche di parecchie altre, dichiarandosi senza mezzi termini colpevole. Per questo stride un po’ quel frammento, orribile, alla fine di una canzone che non aveva minimamente bisogno di un finale del genere.
Resta il fatto che “Compton” si candida seriamente a essere uno dei dischi più importanti di questa stagione. E non era affatto scontato.
A meno che anche voi non amiate iniziare dalla fine.
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