“Siamo uomini o caporali”, diceva Totò, e diceva bene. Ecco: questi mesi di blocco forzato – libere uscite estive escluse – hanno avuto un effetto su cui si dovrebbe ragionare. Gli uomini restano uomini, ma i caporali hanno perso i galloni – o hanno comunque poco da fare i caporali. Molto meno di prima, almeno. Perché le esercitazioni sono sospese, perché invece di pensare alle guerre ed agli attacchi qui bisogna pensare alla sopravvivenza e agli stipendi (propri, o delle persone sotto di sé: credete mica che il blocco dei licenziamenti – provvedimento non percorso da altri grandi stati europei – possa durare all’infinito?). Insomma, questioni dove il caporalato inteso come vanagloria ed esercizio del potere, come prefigurava il De Curtis, serve a poco.
Il caporalato però può tornare in gioco nel peggiore dei modi seguendo l’altra accezione e declinazione: quello di persone senza scrupoli che approfittano della debolezza di una determinata classe di lavoratori e dell’indifferenza della società “sana”, sfruttandoli. Sfruttandoli male. E generando comunque un’economia marcia, basato sullo sfruttamento, capace di ammorbare l’aria e la dignità.
Senza girarci tanto attorno: nel momento in cui si riprenderà a fare qualcosa nel campo dell’intrattenimento e degli eventi, il bicchiere mezzo pieno è immaginarsi una ripartenza virtuosa, basata su valori più sensati e pratiche più sostenibili, senza sprechi inutili ma con un focus su tutto ciò che è innovativo e genera valore ed entusiasmo. Il bicchiere mezzo vuoto, e non è detto da nessuna parte che non debba prevalere come approccio, è un mondo degli eventi e dell’intrattenimento che riprende con le stesse dinamiche di prima – solo più povere, più con le pezze al culo, più incattivite (per la povertà) e più senza scrupoli (per disperazione). Uno scenario, quest’ultimo, dove chi era già molto in alto nella catena alimentare continua a sopravvivere e, più o meno, a dettare le condizioni, chi invece è in basso muore o si azzuffa per un boccone di carne fatto cadere dall’alto.
Se non si cambia paradigma, lo scenario più pronosticabile è il secondo.
Per fortuna però di cambio di paradigma si sta parlando tanto. “Troppo”, direbbe qualcuno. “Si parla e si parla, ma tanto poi alla fine non cambia un cazzo”, direbbe qualcun altro. “Si sparano ovvietà di onestà e buon cuore a raffica, ma tanto poi al momento del dunque si tornerà gli stronzi di prima dove ognuno pensa al suo e se l’altro muore, tanto meglio”, concluderebbero in parecchi.
La domanda però è: dove porta, questo disfattismo? Che utilità ha? Ha l’utilità di far sentire più intelligenti quelli che vi si abbandonano e lo rivendicano, certo. Li fa sentire più saggi, superiori. Magari lo sono pure. A-me-non-mi-freghi, tipo. Ma una volta che sei più intelligente, dove sta il guadagno? In “visibilità”? Nel poter andare in giro a dire nei bar “L’avevo detto, io”? E nel frattempo, però, i soldi per andare a prendere una spuma al bar stanno finendo anche ai più intelligenti, sì, pure a loro. A breve, quanto sei intelligente te lo potrai dire in faccia. E da nessun’altra parte.
Pare un buon affare?
…no, non lo è.
Forse non è chiara una cosa. Forse non è chiaro che per l’opinione pubblica la musica, i concerti e il clubbing – in un paese refrattario al buon senso ed all’innovazione ed incline al moralismo rancoroso come l’Italia – sono ancora visti come un gioco, come insomma un’apostrofo rosa tra le parole “nulla” e “facenza”. Forse non è chiaro che alle discoteche è stata data occasione di riaprire durante l’estate non perché “bastione culturale”, ma perché in maniera vaga e confusa vengno viste in determinate zone – Puglia e Romagna, per citarne due – come parte integrante dell’offerta turistica più banale e dozzinale, “Ah, sì, la gente in vacanza poi la sera vuole le discoteche per cazzararci stordito, quindi va dove sa di trovarle”, e questo spiega anche perché alle discoteche sia stata data più attenzione, più credito, più permissività e flessibilità che al comparto della musica dal vivo.
Ma dove cazzo pensiamo di andare, a ragionare così? Quanto pensiamo di riuscire a migliorare una nazione che ha invece dannatamente bisogno di migliorarsi, sotto vari punti di vista?
(…e ora, ora arriva Draghi; continua sotto)
Ora c’è Draghi. Forse, eh; perché nel momento in cui scriviamo non ha ancora presentato nessuna lista dei ministri e non è ancora venuto a cercare i voti in Parlamento (che forse mai otterrà). Ma in questi giorni tutta l’Italia pare improvvisamente unita sotto la bandiera dell’ex capo della BCE, dalla sinistra a Salvini, pensa te, e pure la Meloni in fondo più di tanto non si oppone e non sbraita. Un miracolo, praticamente. Uno stato di grazia o, se si vuole, anche uno stato di disperazione: la classe politica si è probabilmente resa conto che il baratro è vicino (…molto vicino, e molto baratro), ed ha capito che non è più il momento di giocare alla guerra. Di fare i caporali, insomma.
La figura di Draghi è accompagnata da consenso universale e da aspettative quasi messianiche. Cosa stupida, eh. Non esiste nessuno con la bacchetta magica. Ma finché c’è, questa visione, questa fiducia, facciamolo: approfittiamo cioè del fatto che sotto la bandiera di SuperMario si pensa improvvisamente più ad unire e costruire che a distruggere, con una visione positiva finale davanti a sé, ovvero che questo “uomo della provvidenza” ci possa portare lontano dalle secche, coinvolgendo tutti. Si pensa ad una soluzione, si lavora ad una soluzione. E non si sta lì a farsi la guerra per ottenere delle briciole (chi comanda), o a fare i profeti di sventura “…che tanto è tutto un magna magna” (i cittadini): anche perché in entrambi i casi, la cosa è certa che l’esito finale di questi ultimi due approcci è inevitabilmente sfracellarsi sugli scogli. Tutti.
E cosa c’entra il clubbing? C’entra. Cosa c’entra Draghi col clubbing? C’entra pure lui. Draghi è citato prima di tutto per due frasi: una è quella storica del “Whatever it takes”, l’altra è per il discorso pronunciato non tanto tempo fa in cui distingue tra “debito buono” e “debito cattivo”, e molti profetizzano che questa sarà la bussola principale del suo operato. In sintesi: il debito “buono” è quello che crea investimenti, nuove prospettive, futuri sviluppi e sviluppi per il futuro, il debito “cattivo” è quello dei contributi a pioggia, delle “mance”, delle toppe (…in realtà il pensiero draghiano e in generale quello economico sono molto più complessi, se la popolazione è allo stremo e priva di risparmi l’economia non riparte coi soli investimenti, quindi anche i sostegni al reddito possono avere il loro perché; ma è intanto per capirci).
Bene. Bisognerebbe far capire che la tanto vituperata “movida”, termine ormai inflazionatissimo (e usato completamente alla cazzo, ora ci arriviamo) nell’informazione, è il risultato di una visione “cattiva” dell’intrattenimento, dell’evento, dell’uscire la sera. Uscire per andare a bere qualcosa e schiantarsi a colpi di aperitivo creando casino, assembramento, congestione è quanto di più lontano – almeno idealmente – ci sia dall’andare ad un concerto, di scegliere una discoteca o un club dove andare a ballare e socializzare, di andare a teatro, di scegliere una performance. L’andare a fare l’aperitivo in massa in piazza è una cosa, lo scegliere scientemente un tipo di consumo culturale e sociale strutturato è un’altra; e nel secondo caso, nel periodo di transizione tra pandemia e sua fine (che è quello che stiamo vivendo ora), puoi esercitare una forma di controllo delegandola agli organizzatori (limitazioni di capienza, test, eccetera). Sì. Mentre nel primo caso, quello della transumanza da aperitivo, puoi solo mandare polizia, carabinieri e magari pure l’esercito in piazza, e sperare che non debbano intervenire con gli idranti.
Se la “movida” è veramente il pericolo – e secondo tutti i commentatori più populisti lo è – una delle priorità dovrebbe essere proprio quella di far ripartire eventistica e socialità più circoscritta, organizzata, con uno “scopo” (…e magari pure in grado di migliorare le persone: perché uscire fuori e farsi un aperitivo con gli amici è bello e fa bene, vivere un bel film, o un bel concerto, o un bel dj set è bellissimo e fa benissimo).
Invece no. Invece con grande superficialità si mette tutto nello stesso cesto. E lo si chiude, ‘sto cesto. Investire in cultura e in eventi, in questo momento, sarebbe un “debito buono”, e lo sarebbe a maggior ragione pure dal punto di vista sanitario proprio in questa fase transitoria tra pandemia ed uscita definitiva dall’incubo-CoVid. Il che non significa che devi lasciare senza ristori il comparto della ristorazione (sono imprenditori pure loro, spesso anche con funzioni – volontarie o involontarie – di presidio sociale); ma al momento di fare delle scelte e pesare bisogni e necessità, si deve mettere in conto anche un ragionamento su quali siano gli investimenti intelligenti, strutturati, con un progetto. Debito buono, debito cattivo. Draghi says.
Qui però arriviamo ai capponi. Capponi, e caporali.
I capponi sono quelli manzoniani di Renzo (…abbiamo scritto “Renzo”, non “Renzi”, tranquilli). Quelli che pensano solo ad accapigliarsi fra di loro, assolutamente inconsapevoli che stanno per diventare brodo. Parliamoci chiaro: non per buonismo, non per amore universale, non perché siamo tutti bravi e tutti belli, ma fidatevi questo non è davvero il momento per fissarci sulle diversità, disparità e sui contrasti: sul chi è più bello e meno bello, chi è più bravo e meno bravo, su chi è Sanremo e chi scemo, invece di pensare a cercare linee d’unione, unità d’azione e comunanza d’intenti tra realtà diverse, risolvendo i problemi ed immaginando soluzioni.
Perché c’è bisogno di tutti. Se vogliamo essere massa critica, se vogliamo che la voce di chi opera nella cultura, nella musica e negli eventi si faccia sentire forte e chiara e venga recepita come influente ed operativa, bisogna trovare il modo di unirsi, mettendo da parte divisioni e dubbi, almeno in questa fase di emergenza. Perché E’ una fase di emergenza. Ci saranno mica dubbi in proposito? E non può che peggiorare di giorno in giorno.
Guardando allo stagno del clubbing: se da un lato è fondamentale – e quanto abbiamo scritto sopra va esattamente in quella direzione – avere a cuore la dimensione “culturale” del ballo e dell’intrattenimento, dall’altro le polemiche su chi è underground e chi è venduto al sistema, chi è puro chi è corrotto, chi è ricco chi è povero, chi è clubbing chi è circo, chi è figo chi è storpio, chi è latino chi è americana, sono tutte cose magari anche giuste, su cui è doveroso discutere ed accapigliarci in tempi “normali”, ma ora non sono tempi “normali”.
Ripetiamo: ora non sono tempi “normali”.
…e non sono nemmeno i tempi per le lotte su chi è più importante, chi ha il booking più lungo, chi ha il gusto più raffinato, chi ha Villalobos e chi invece Black Coffee, chi ha Mamacita e chi Octave One. Sono le dispute dei capponi. Perché i capponi magari hanno pure i loro buoni motivi per battibeccare, sì che li possono avere, ma ehi, qua stiamo finendo tutti nel pentolone. Tutti.
E’ il momento di ricacciare in gola il termine “movida” alle jene dell’informazione e del moralismo, riportandolo nella tradizione più nobile: perché la “movida” è nata in Spagna, come reazione agli anni bui del franchismo
Si ride e si scherza, si piange e ci si dispera, ma nel momento in cui un’ondata di licenziamenti percorrerà l’Italia a blocco finito il potere d’acquisto della nazione calerà drasticamente, tutte le voci di spesa private saranno ridotte: ci sarà insomma poco da fare i preziosi e molto invece a lavorare affinché la sfera degli intrattenimenti e degli eventi venga visto come un rifugio, come un bel posto dove stare bene ed essere coccolati moralmente, come un luogo dove ritrovare le energie e le voglie per ripartire, ricostruire in mezzo alle difficoltà. Questo può avvenire solo se ci si presenta (e ci si rappresenta) come un ecosistema sì complesso e sfaccettato ma positivo, collaborativo, “preso bene”, fiducioso, tollerante. Non isterico e litigioso, fatto di critiche e fastidi.
E’ così che bisogna ragionare. Rinchiudersi nei particolarismi, pensare che sia ancora il momento delle gare (“Se lui non va nel tuo club allora più facile venga nel mio”, “Se lui non va a perdere tempo nella mia discoteca allora viene al mio concerto”, “Se la disco commerciale muore allora risorgerà l’underground”, “Se non è mainstream allora sarà indie”) è una prospettiva radicalmente miope. Contrariamente a prima, la lotta per la sopravvivenza non riguarderà solo singole realtà o “isole” che vogliono restare a galla ma riguarderà invece un intero sistema, un intero cosmo semantico ed esperienziale. Prima lo si capisce, meglio è.
Poi ci sarà tempo per tornare ai distinguo, alle critiche, alle sottigliezze, ai ragionamenti per progredire ed affinare. Ora però è il momento di mettere da parte le differenze. E’ il momento di remare nella stessa direzione.
E’ il momento di ricacciare in gola il termine “movida” alle jene dell’informazione e del moralismo, riportandolo nella tradizione più nobile: perché la “movida” è nata in Spagna, come reazione agli anni bui del franchismo. Ha una sua genesi specifica, ha una sua motivazione nobile. Il semplice ed ottuso ciondolare con un vodka lemon in mano, sparando cazzate senza costrutto e senza progetto, e senza nessun contatto con qualcosa di creativo, propositivo e strutturato, non è qualcosa che può esaurire, spiegare e declinare il termine e il concetto di “movida”. E se non iniziamo a spiegarlo noi, noi che di certe cose ci rendiamo conto, chi altri dovrebbe farlo?
Non pensiamo a fare solo i capponi. Non pensiamo a fare i caporali. Cambiamo marcia, cambiamo approccio. Costruiamo. Tutti insieme.
…poi tornerà il momento di dividersi, di discutere, di battibeccare su chi è ok chi è merda, chi conta qualcosa chi è un quacquaracquà; ma ora, ci sarebbe bisogno di tutti, qualora non ve ne foste accorti.
Non sarà facile.
Sarà lungo.
Bisogna avere pazienza.
Non bisogna mollare al primo colpo, dicendo “Tanto vedi che non cambia un cazzo”, “Tanto vedi che con quello non si può parlare”, “E’ evidente che quell’altro è inaffidabile”, “E’ chiaro che la gente non capisce” (contrapposto a “E’ chiaro che chi comanda non cambierà mai”), “Dove pensi di andare se ascolti quel coglione”.
Non è il momento. Non ora.
Le priorità sono cambiate. I paradigmi, le fortezze e le certezze di un tempo, sono castelli di sabbia esposti ad ogni singola mareggiata.
Vogliamo vedere chi l’ha capito veramente (due piccoli esempi, qui e qui). Vogliamo sentirne la voce, Vogliamo supportarne le azioni, la visione, la tolleranza, la voglia di fare.
…vogliamo?