Dub Fx è quello che si dice veramente un musicista nato dalla strada con alle spalle anni di gavetta, perché prima di salire su di un palco vero, piccolo o grande che sia, la strada è stata il luogo in cui esibirsi, in qualunque parte del mondo – che ha girato per tre volte – accompagnato dai suoi strumenti, dai suoi dischi autoprodotti e dal suo carisma legato ad un gusto musicale ed una tecnica che obiettivamente ci sono. Parlare con lui significa parlare con una persona che ha vissuto veramente la strada e lo si capisce dal suo modo di raccontare le cose con franchezza, senza troppi giri di parole, da come ti guarda mentre racconta del suo passato e della sua idea di musica e di arte in generale. Tra l’italiano con un accento un po’ toscano e l’inglese, ho scambiato due chiacchiere con lui prima della data all’Hiroshima Mon Amour per il suo Infinite Reflection Tour – il cui nome è il titolo del suo ultimo album uscito nel 2023.
Classica domanda iniziale per rompere il ghiaccio: Come sta andando il tour? So che avete fatto diverse date una dietro l’altra, praticamente senza pause.
Eh si, abbiamo quasi finito. Rimangono solo tre date qui in Italia e poi io e Woodnote andiamo a farne altre cinque da soli.
Stanchi?
Un po’, abbiamo anche tutti avuto l’influenza durante il tour però, si passa tanto tempo in furgone, si dorme tanto, si aspetta…
Come è la vita in furgone?
La vita in furgone è la mia vita dal 2006 in giro del mondo, per sei anni ho proprio vissuto in un furgone e quindi ora per me girare non è una grande menata, è normale.
In questo ultimo disco mi sembra ci siano più collaborazioni rispetto agli altri o almeno sembra leggendo tutti i nomi che compaiono, sbaglio?
A parte il primo disco in cui ero solo io, ci sono sempre state collaborazioni. Ho sempre lavorato con Woodnote e diversi cantanti, Cade c’è sempre stata sui dischi. In questo c’è Paolo Baldini che è stato molto importante, ha suonato il basso sulla maggior parte di pezzi. Poi anche con Jake Savona, un tastierista e produttore bravissimo, ha fatto le tastiere in un paio di canzoni, tanti fiati e ci sono sempre Woodnote, mia moglie Cade. Forse sembra più del normale ma ci sono sempre state tante collaborazioni nei miei dischi.
Forse nei credits compaiono di più rispetto a prima, sono più presenti.
Esatto, prima magari non li mettevo tutti. Anche perché tanti artisti che sono presenti su questo disco o anche sugli altri non hanno Spotify. Quindi se vai su Spotify non vedi il nome.
A proposito della collaborazione con Paolo Baldini, musicista con una lunga storia alle spalle e quindi un background ben definito: ha influenzato la scrittura del disco?
No, più che altro è stato molto facile lavorare con lui. Avevamo già lavorato insieme un paio di volte e lui è sempre stato disponibile per fare altre cose insieme. Ho mandato il primo pezzo, già finito, con una linea di basso fatta al computer e lui l’ha rifatta uguale ma con un basso vero. Me l’ha mandata già finita, con tutti gli effetti etc. e il brano era pronto. Dopo che ho visto che era così semplice lavorare con lui non ho dovuto dirgli niente, ho mandato il resto e nel giro di pochi giorni ho avuto tutti i brani.
Hai scritto i brani pensando eventualmente con chi collaborare, oppure è stata una cosa graduale?
Sto sempre a scrivere nuovi pezzi, sempre. Il disco pubblicato è una collezione di brani che però aveva un senso metterli insieme. Avevo tipo una trentina di pezzi, alcuni reggae, un po’ di pezzi di hip hop, un po’ di pezzi drum’n’bass, elettronici e non potevo fare un disco con tante canzoni, per cui mi sono concentrato su una roba più roots ed ho fatto il disco Roots, altri brani più drum’n’bass sono finiti in “Branches”. Quelli che rimanevano erano hip hop e quindi ho deciso di farne uno un po’ più low-fi, basato su quello. Quando vado in studio a scrivere, magari dopo un po’ non so dove andare con quel brano, oppure capita ne finisca uno in tre ore. Non c’è una regola, non ho in mente quello che voglio fare, lascio che succeda quello che deve succedere.
(“Infinite Reflection”; continua sotto)
Come gli altri, anche in questo disco c’è l’aspetto sociale, si parla molto di quella che è l’attualità. È un disco volutamente politico?
Guarda, io ho sempre parlato delle stesse cose dal primo disco. Non è che scrivo pezzi politici anche se magari sembra. Scrivo pezzi basati sul self empowerment, auto consapevolezza, come essere autore della propria storia, quindi magari invece di parlare della politica in una certa maniera puntando il dito, lo faccio dal mio punto di vista e lo esprimo. Per esempio, mi lascio con una ragazza e invece di scrivere un pezzo sulla tristezza, ne scrivo uno su come uscirne. Capito?! Ho sempre pensato questa cosa, ogni canzone deve essere qualcosa che ti aiuti a crescere, a capire come migliorare rispetto a quella condizione. Che sia politica, società o spiritualità è sempre basato su come uscire, come aumentare il proprio sé e uscirne migliorati.
Ho un’idea parziale di come sia all’estero il rapporto tra musica e politica, però in Italia una delle polemiche degli ultimi anni riguarda proprio la mancata presa di posizione degli artisti su fatti che riguardano la società, e alcuni suoi aspetti.
E’ per colpa di YouTube e Instagram, ormai la gente è indifferente. Quando c’era meno di tutto questo c’era più tempo per pensare ai problemi. Invece, ora ci sono tantissimi problemi e allora ci nascondiamo con Netflix.
Molti dei commenti sul tema sottolineano che il non volersi schierare sia anche per paura di perdere i fan con i social.
Io la capisco questa cosa, anche se è brutto. Noi facciamo i soldi con la musica, quindi non vuoi essere frainteso, perché è molto facile che tu dica una cosa giusta che gli altri però girano a tuo sfavore facendoti sembrare un coglione. Magari non è che non vogliono dire qualcosa, ma hanno timore di questo risvolto. Però comunque, ti dico subito, tutto quello che vedo con i vari governi mi fa pensare che il mondo stia diventando molto più fascista: non il popolo però, i governi, la polizia, c’è una repressione generale. Questo gioco del Monopoli sta finendo, hanno già in mano tutto, ormai.
In un’intervista di pochi anni fa, quando ancora internet sembrava avere un certo potenziale per la musica, avevi appunto sottolineato quanto fosse importante per i musicisti. Le cose sono un po’ cambiate adesso. Pensi sempre la stessa cosa?
Prima di internet era dura per i musicisti, perché c’era un monopolio su tutto, non diventava una rockstar chi aveva il talento. Tante volte succedeva a chi era figlio della persona importante, con i soldi. Ovviamente c’è qualcuno con un talento incredibile che non può passare inosservato, però quanti con talento sono stati prima incoraggiati, magari hanno firmato, fatto cose e poi spariti all’improvviso perché stavano togliendo da sotto i riflettori chi aveva pagato per stare lì?! Con l’arrivo di internet è arrivata la possibilità di comunicare direttamente con i fan, ed è bellissimo, molto democratico. Per cinque, sei anni è stato così, perché ha fatto pensare non ci fosse più bisogno dei media, delle etichette, della radio, ormai bastava fare un pezzo, metterlo su Bandcamp, fare il video su YouTube, fare la pagina Facebook e si poteva controllare tutto da soli. Però poi hanno messo tutti questi algoritmi per limitarti e anche se paghi, non arrivi a nessuno: quindi cosa vuol dire? Siamo tornati da capo e con Spotify forse è un po’ peggiorato. Io uso Spotify, come tutti, però è proprio brutto quello che fanno perché i soldi non vanno più agli artisti, non si guadagna da lì. Dobbiamo ritrovare un nuovo metodo di fare le cose, ci sarà sempre gente brillante che trova il modo: per me è stato andare per strada. Non ho usato subito e solo internet, perché quando i miei video sono diventati virali facevo quello già da anni e vendevo 60 dischi al giorno, per strada. Quando il mio video è finito su YouTube, avevo già girato il mondo tre volte, capito?! Sono stato uno dei primi ma ora è un po’ più difficile perché tanti lo fanno, con la loopstation, in strada, quindi rompono anche un po’ i coglioni alla gente (risate, ndr). Però dico, se sei uno con talento e se vai per strada e cominci a suonare, non solo diventi magari più bravo in quello che fai ma sopratutto alimenti, spin the wheel, capito?! Certo, c’è gente che inizia da Instagram ma la maggior parte non inizia così. Magari fai una hit, e poi? Vedi uno che fa un video e ti piace quello che fa, ha fatto una roba virale, metti like… Poi però se i successivi video sono tutti uguali, perché il primo ha funzionato e non sa perché, lasci. Lo ha già fatto la prima volta con quella stronzata che ha fatto ridere, ma poi non la vuoi più rivedere. Quindi, quando fai arte, per farla bene devi continuare a provare per andare avanti e migliorarti, di continuo, ma non ripetendo le stesse stronzate. L’arte è sempre basata su quello: essere originali e spingere in avanti, punto. Se fai così e ti metti davanti alla gente e se sei bravo, allora la gente parlerà di te e comincerai ad avere un seguito.
Quindi possiamo dire ai ragazzi che comunque la strada è ancora importante?
Quando io ho avuto il primo video virale non era perché mi ha ripreso uno e l’ha buttato su YouTube, ma perché io avevo già fatto tre anni per strada e tanta gente mi cercava su YouTube per far vedere agli altri quello a cui avevano assistito tre anni prima. Devi andare lì fisicamente a toccare la gente.
Ascolti un sacco di musica, stai sempre in mezzo alla musica, ci sono degli artisti che stai ascoltando adesso e consiglieresti?
Mi piace il nuovo disco di Johnny Osbourne, molto bello. Mi piace anche un’artista che si chiama Demolition Man, il disco “Frequency”. Mi piacciono molto i Khruangbin (e lì c’è più che chiara approvazione di chi vi scrive, ndr). Ascolto molto hip hop, drum’n’bass, poi c’è una playlist di ShyFX, Track ID, che mi piace molto. È sempre aggiornata.
(continua sotto)
Tornando al tuo disco, ci sono dei brani che preferisci di più?
Tutto quello che ho messo è roba di cui sono fiero, sono tutti miei bambini. Però, quando facevo ascoltare agli altri ho visto che tanti hanno apprezzato “Cracks In The Mirror”, che piace molto anche a me. La scaletta del disco l’ho fatta partendo dai pezzi secondo me più belli, ma anche rispettando un ordine per mantenere un certo “flow” del disco.
Invece il pubblico live di DubFX da chi è composto? Chi vedi ai tuoi concerti?
Ma io chiudo gli occhi, per me è uguale (risate, nda). C’è parecchia gente grande che viene ai concerti ma in generale le cose sono cambiate dalla pandemia, è rallentato molto per tutti. Prima facevo dei numeri e ora ne faccio altri, ma è una cosa che sta succedendo a tutti. Però va bene così e se vedo che ho problemi e non sta funzionando torno in strada.
Mi hai dato il gancio per farti una domanda che avevo tralasciato. Suoni davanti ad un pubblico da sempre, prima in strada ora su di un palco, quindi un concerto in senso più classico. Preferisci un mondo piuttosto che l’altro?
No, sono modi diversi: ci sono anche i festival, quindi i palchi grossi, all’aperto, poi i club, spesso al chiuso, e poi la strada. Tutti e tre sono fighi in diverse maniere. Se devo suonare solo in un modo dopo un po’ mi rompo, quindi è meglio mescolare (anche se lui dice “mixarlo” che rende ancora di più, nda). La strada è importante per capire quanto valore hai veramente, perché nei club la gente viene avendo pagato un biglietto ed è già carica di suo, se ti vedono a un festival con l’impianto e palco enorme, magari mentre stanno passeggiando, se gli piaci si fermano. È un po’ un misto tra strada e club. Invece in strada non ti caga nessuno se non sei bravo. È importante farli tutti e tre, perché sono diversi.
Continui a fare beatboxing, ti alleni?
In realtà non mi sono mai allenato. Il beatboxing l’ho usato quasi per sbaglio, perché per strada non volevo portare troppa roba, non volevo altri musicisti perché è più complicato, e allora ho preso una loopstation, ho fatto un pezzo con un po’ di beatbox del cxxo per vendere un po’ di dischi per strada e continuare a viaggiare. Poi ho visto che la gente si gasava, quindi ho cominciato a farlo più seriamente, però io non sono un beatboxer, un cantante. Io sono produttore live e mi piace trovare suoni con gli effetti. Non parteciperei mai ad una competizione di beatboxing, o provare a vincere in uno di quei show in cui si canta, non sono il massimo quelle cose lì. Però mettere insieme tutti questi elementi in uno show per far gasare la gente, farli senti bene, mandare un messaggio di positività: questo è il mio modo e lo sto facendo.
A questo punto la domanda è d’obbligo: Cosa ne pensi dei talent show? In Italia c’è un forte dibattito, soprattutto negli ultimi 2-3 anni.
Ma è tutto costruito dall’inizio. Magari è iniziato con uno scopo buono, più o meno come i social media, con gente vera. Non li guardo, però è così, in mano a pochi e non entri se non sei qualcuno che è collegato con certa gente, e a me questo non importa. Cioè, lo guarda la mia mamma… Tanto anche se si vince la competizione, l’anno successivo, con il nuovo show, le persone non si ricorderanno di chi ha vinto l’anno prima. Se partecipi, sei più famoso mentre lo stai facendo rispetto al resto della tua vita. Da concorrente, il momento in cui sei in televisione tutti i giorni, sei ore al giorno mentre stai facendo quello che ti dicono di fare, quello è il tuo peak. Dopo… niente.