Busker australiano ma per metà toscano, maestro della strada così come della rete. Non è difficile, parlando con Dub FX, percepirne l’essenza delle origini. “Thinking Clear” è il suo terzo album in studio, che rivela un musicista lucidamente pronto ad evolversi restando fedele alle proprie radici. Rimanendo, come un albero, contemporaneamente under e above ground.
Voglio fare come te, e iniziare dalla strada. Cercando allo stesso tempo di non percorrere quelle più comuni che vengono spesso battute nelle tue interviste. Quali sono le strade a cui sei maggiormente legato in Europa? Piazze, vicoli e viali che hanno portato la tua musica ad emergere.
Ce ne sono tante. Ti parlerei di Manchester e di Market Street, la prima strada in assoluto in cui ho suonato come Dub FX, iniziando a misurarmi con gli stili che faccio adesso (drum and bass, dubstep eccetera). Senza Market Street e senza Manchester non sarei Dub FX. Rimanendo in Inghilterra, altre città molto importanti sono state sicuramente Brighton e Bristol. Ho suonato tanto anche a Dam Square ad Amsterdam, mi piaceva l’Ungheria, e in particolare Budapest. Non è facile, sai? Ho suonato davvero in un sacco di posti…
…Italia compresa.
Ma molto meno. Un po’ a Pisa, a Lucca e a Firenze, e comunque non come lo facevo in altri paesi. Questo perché in Italia non vendevo dischi. La gente non comprava i miei CD, e quindi me ne andavo in Germania, in Olanda e in Inghilterra, dove le cose mi andavano meglio.
Se non sbaglio però l’Italia è proprio l’inizio del tuo percorso. Il primo paese in Europa in cui hai iniziato a suonare sulla strada.
Sì, ma non ero ancora Dub FX. Suonavo la chitarra acustica e cantavo su delle basi che avevo già preparato. Era tutto un altro genere rispetto a quello che ho iniziato a fare una volta in Inghilterra. Poi negli anni sono ritornato, ma non è andata troppo bene neanche allora, perché i vigili mi cacciavano sempre.
Con la nascita del tuo sound è cambiata anche la strumentazione che ti portavi dietro?
Ho tolto delle cose. La chitarra innanzitutto, e poi le basi già programmate. In Italia cantavo pezzi registrati su uno stile molto più pop e reggae. Dall’Inghilterra in avanti ho buttato quel CD e ho iniziato a fare tutto da me. Mi portavo quindi dietro le stesse attrezzature, ma usandole in modo diverso. A quel punto ho capito che potevo fare altro rispetto alla musica pop, e anzi, che paradossalmente lì il pop proprio non funzionava, e che se volevo emergere dovevo creare qualcosa di molto più diverso e originale.
Mi piace questa geolocalizzazione musicale. Il fatto che suonando sulla strada la tua musica abbia preso il sound delle città in cui ti trovavi. L’influenza dell’Inghilterra, di cui parlavi, ne è un esempio: le strade che ti hanno dato di più sono anche quelle che hanno contribuito maggiormente a plasmare il tuo stile. E ascoltando il nuovo album di stili ce ne sono tanti, e diversi tra loro. Per esempio “Searching” è un brano quasi house. Quali influenze si sono aggiunte nella tua vita post-strada?
Io amo la musica in qualsiasi modo, e diversi stili funzionano in diversi luoghi. Sulla strada l’house non va molto bene. Quando la suonavo non funzionava, soprattutto in Inghilterra. E’ un genere fatto per i club. Anche la drum and bass è per i club, però ha attorno una cultura diversa. C’è la cultura di andare a sentirla sui sound system nei boschi, o nei parchi. L’house è un genere più strettamente metropolitano, diciamo. Non è il mio stile preferito, però c’è tanta house che mi piace. Quando c’è soul mi piace, quando c’è il basso, il rullante, i fiati e tutto il resto. E’ la minimal tech-house che mi fa un po’ schifo. Quella che faccio più che house la chiamerei garage house o 2-step, che è un altro stile molto molto inglese. Non esiste tanto nel resto del mondo. L’house è più dritto con la cassa, il garage è più spezzato (e imita perfettamente la batteria con la voce, ndr). Ultimamente ascolto tantissima musica 2-step e garage e mi piace tantissimo, perché è molto funky. Volevo scrivere un pezzo su questo genere, ma alla fine è venuto diverso, e non tecnicamente house. E’ uscito un po’ brasiliano e non in 4/4, ma in 6/4. Lo chiamo Brazilian 2-step house in 6/4.
Sei passato da un processo compositivo solitario, in cui la tecnologia ti permetteva di trasformare te stesso nel tuo strumento principale, ad una produzione (per il nuovo album) nella quale ti interfacci con altri due musicisti. Ciò che ti ha reso famoso in fondo è stata la tua capacità di fare tutto da solo con il beatboxing, una loop station e una pedaliera per chitarra, che erano poi oggetti che ti dovevi portare dietro per strada. Grazie a questo fai-da-te sei riuscito a stupire per il modo in cui facevi musica, e a diventare un fenomeno globale. Ora che hai tutte le possibilità immaginabili e altri musicisti con cui produrre, ti trovi ad una specie di bivio? Hai trovato un equilibrio tra le necessità del passato e le possibilità del presente?
Bella domanda. Guarda, per me la cosa principale è sempre stata quella di scrivere bei pezzi. Che fossero originali e piacessero a me. Il modo in cui lo faccio poi potrà cambiare per sempre. Tutti i pezzi che ho scritto possono essere cantati con voce e chitarra, se vuoi. Non ho bisogno della loop station o di un gruppo. Fondamentalmente mi ritengo un cantautore, nel senso che scrivo le melodie e i testi dei miei lavori. Poi come dici tu, un approccio originale alla produzione mi ha dato forse quel qualcosa in più. Allo stesso tempo però non ero l’unico a fare beatbox o ad usare una loop machine. C’erano tanti altri ragazzi che facevano le stesse cose, e che non hanno suscitato la stessa reazione mia. Io spero quindi che la mia musica sia piaciuta per la sua qualità, e non solo per il modo in cui la facevo. Quando suonavo sulla strada, anche se ero da solo, avevo in mente come il pezzo doveva essere suonato. Nella mia testa c’era un gruppo che lo suonava. Dal momento però che non potevo pagare quei musicisti, e che volevo spostarmi in giro per il mondo vivendo, suonando e scrivendo sulla strada, era più facile fare tutto da solo. Però ciò non toglie che facendo beatbox volessi un batterista che prima o poi suonasse quel beat lì, un bassista che suonasse le linee di basso che creavo con la voce. E mi dicevo: dai, ora lo faccio da solo, ma un giorno avrò qualcuno ad aiutarmi. Poi ho visto che la gente si gasava, e ho capito che il fai-da-te implicava anche un suono particolare, che mi distingueva. Fare accordi con la voce però non è così facile, e tanti pezzi sono belli perché ci sono cambi d’accordi che avvengono anche molto velocemente, in cui voce, basso e chitarra si evolvono insieme. Creare questo con una loop station non è immediato. Devi suonare ogni nota una dopo l’altra e ci vogliono dieci minuti a montare una progressione. Sono arrivato ad un punto dove non potevo andare avanti con lo stesso stile, perché mi annoiavo. Quindi ho cominciare a suonare con un tastierista, Andy V, che è lo stesso con cui ho registrato l’album. Lavorare con lui è molto bello e molto più facile, sotto molti punti di vista. Ora abbiamo anche un bassista, e manca solo la batteria. Su quella ho deciso di rimanere ancora con il beatbox fatto da me o con i campioni che scrivo. Penso che questo sia importante per lasciare il suono Dub FX, che è molto nella batteria e nella voce. Si sente anche nei suoni di basso, a dire il vero, ma il mio bassista sta usando le stesse effettiere che usavo io per fare i bassi con la voce, quindi il sound si è evoluto, rimanendo allo stesso tempo. Per quanto riguarda questo album, era già due anni che suonavo live con il tastierista e un anno con il bassista. Siamo arrivati a conoscerci a fondo, perché loro capivano molto bene il mio stile e il mio pubblico. Io mi sono fidato, e invece che far semplicemente suonare a loro i giri scritti da me, abbiamo adottato un processo compositivo di gruppo. Il risultato è molto più soul, e penso si senta. Anche perché molte cose le abbiamo registrate dal vivo, jammando in studio. Io partivo col beatbox o cantavo, e si trovavano gli accordi insieme, sul momento. Registravo tutto e poi quando loro se ne andavano mettevo insieme tutti i campioni che mi piacevano e li montavo, magari registrando di nuovo qualcosa insieme. E’ stato tutto molto organico e collaborativo.
A fronte di tutti i cambiamenti, il beatbox è appunto rimasto. E non solo come mezzo compositivo, ma proprio nella registrazione definitiva dell’album. Lo hai lasciato per i fan? Per rassicurarli dicendo loro “tranquilli, sono ancora Dub FX?” Lo trovi indispensabile per definirti o rappresenta un modo per non cambiare troppo?
E’ un bel mix tra tutte le cose. Io non amo particolarmente il beatbox. Però dall’altro lato ci sono i fan, e li capisco. Ti faccio un esempio: mi sono sempre piaciuti tantissimo Sting & The Police. Sting poi nella sua carriera da solista ha iniziato a fare cose completamente diverse. Niente rock, con quelle chitarrine spagnole e sound molto morbidi. A me non garba per niente, perché ero innamorato di quel rock-reggae delle origini, e un pochino mi sento deluso. Lui come artista giustamente vuole evolversi, però io come fan non lo apprezzo, perché è troppo diverso dalle sue origini, e se voglio ascoltare quel genere trovo tanti altri artisti che lo fanno, e Sting ai miei occhi ha perso la caratteristica che lo rendeva unico. E’ importante riconoscere le tue roots, le tue radici. Perché se domani decidessi di fare solo musica samba, la gente potrebbe dirmi “sai quanti artisti di gran lunga migliori di te fanno quel genere e lo masticano meglio? Perché dovrei venire a sentire proprio te?” Ed uno dei motivi per cui la gente viene a sentirmi è proprio il beatbox.
Non è che ti stai svalutando? Forse Dub FX non è solo beatbox. E’ la voce, sono i testi, è il tuo stile riconoscibile in tante altre cose.
Certo, e infatti sto andando nella direzione di non doverlo più usare. Già su questo album ci sono tanti campioni, percussioni e batterie vere. Dicendo ciò non voglio dire che lo abbandonerò, però riconosco che è nato dalla necessità di fare musica sulla strada, e che quella necessità ora non c’è più. Poi, visto che le persone si sono innamorate di questo suono, ho sempre pensato di dover portare rispetto per ciò che piaceva loro, e non credo quindi che scomparirà mai del tutto. Però sì, penso che più andrò avanti e meno lo userò.
Ho colto un lato interessante della tua personalità, che non ho trovato in altre interviste. E’ vero, hai suonato per strada per anni vivendo in un furgone. Però ho anche letto che vendevi 100 CD al giorno a 10 euro l’uno, e che non andavi a suonare nei quartieri bohemiéne, ma nei luoghi turistici, perché lì avevi maggiore visibilità e soprattutto i passanti compravano più dischi. Questa estrema lucidità su alcune scelte delinea un approccio da business man, e forse questo è un lato della tua personalità meno conosciuto.
Guarda, hai ragione. C’erano momenti in cui suonavo per un pubblico che sapevo non mi avrebbe comprato neanche un CD, e lo facevo perché era un pubblico artistico e mi piaceva farlo. Però vivere su quell’audience era impossibile. Quando suonavo lì, tanti ragazzi mi guardavano e sentivano le mie performance, però non compravano mai neanche un disco. Le persone che spendevano per portarsi a casa la musica erano sempre sopra i 30 anni o sotto i 15. La gente cool, la demografica cool e underground dai 15 ai 25 non ha soldi, e se li ha compra birra o droga, o li spende per entrare nei club. Ad Amsterdam, a Dam Square, invece girano persone che vogliono spendere per portarsi a casa un oggetto, e sono stati loro la mia fonte di sostentamento. Quindi sì, ho un lato da business man, ma in quegli anni lo facevo perché dovevo sopravvivere e mangiare. Perché non sono un amante del lusso, ma neanche un punkabbestia. Mi piace avere una vita sana. Non bevo alcol se non in rare occasioni, magari un gin tonic prima di cantare, o se sono in Italia bevo un bicchiere di vino o mezza birra alla settimana. Fumo ma non lo faccio tutti i giorni, non ne sento il bisogno, al contrario di tanti altri. Lo stesso vale per le droghe, che ho usato a sprazzi ma mai in modo continuativo. Posso dire di non essere dipendente da nessuna sostanza, se escludiamo forse lo zucchero. Sono una persona a cui piace fare festa ma che sa essere molto seria. Mentre viaggiavo avevo le idee chiare su ciò che volevo fare, e questo era avere un impatto sul mondo con la mia musica. Una parte di me è sempre attenta a sviluppare le strategie giuste, ad avere una visione. Il primo anno in cui suonavo come Dub FX facevo i conti e mi dicevo “suonando un’ora in strada vendo in media 25-30 CD, e questa è solo la prima estate in cui lo faccio. Se continuo con questo ritmo tutti i giorni per quattro anni il mondo intero mi ascolterà”. Poi l’anno dopo ho raddoppiato le vendite, vendendo 70 dischi in un’ora, e l’anno successivo 100. Con questi numeri suonando in un’ora mi entravano in tasca 1000 euro, e vedevo tanti artisti di strada che lo facevano per le monete nel cappello. Io al contrario non ero un mendicante, non chiedevo soldi, ma vendevo dischi, sui quali poi c’erano il mio Myspace e il mio Facebook. Quindi mi facevo anche promozione, e mi mettevo in quei posti in centro per avere la massima visibilità. Certo, erano anche le strade un po’ più tamarre, ma di questo non me ne fregava niente finché chi passava mi comprava i dischi, e la mia musica girava. Anche perché poi da cosa nasce cosa e hanno presto iniziato a chiamarmi per dei festival stupendi fuori città, così come in molti club. Il mio lato artistico e quello da business man convivono. Perché a volte sono sulle nuvole o mi dimentico le cose, però c’è anche una parte di me attenta e molto seria. Sono dei gemelli, è la mia natura.
Com’è l’esperienza del concerto per strada, confrontata con quella in un club o in un grosso festival? Non voglio portare avanti la retorica che ti è stata a volte disegnata attorno (secondo me a torto) del musicista passato dalle stalle alle stelle, cioè diciamo dall’angolo della strada al palco del Coachella. Però è anche vero che non sono molti gli artisti ad aver visto entrambi i mondi. Come hai vissuto questo ingigantimento nella dimensione del live?
Innanzitutto ci sono tanti tipi diversi di festival e il Coachella è tra i più commerciali che esistano al mondo, e forse anche quello che mi sta più sulle palle. E’ uno dei posti più brutti dove abbia mai suonato. Certo, mi hanno pagato bene, mi hanno messo in un bell’hotel e il cibo era buono. Mi hanno trattato benissimo, però quello non è un festival. Non ti senti parte di una tribù, e la dimensione tribale manca completamente. Per me un festival deve essere quello: le persone che ballano a piedi scalzi sull’erba con la musica che esce dai sound system, i mercatini con gli oggetti fatti a mano da chi li vende. Mentre al Coachella al mercatino ci sono gli stand Sony, Apple, Vodafone e le cose più commerciali immaginabili. Capisci che è diverso dal trovare la ragazza che vende gli anelli che ha comprato nel suo viaggio in India. Però ho suonato in tantissimi festival, anche molto autentici. Ho visto cosa può essere davvero un festival, e come cambia questa dimensione in diversi paesi del mondo. L’Inghilterra per me è la Mecca, ce ne sono tantissimi, stupendi e molto grass-roots, e anche se sono parecchio grossi non sono commerciali. In Inghilterra c’è la cultura dei festival. Se vai in Ungheria poi, ad un evento come lo Sziget, che alla fine è decisamente commerciale, respiri comunque la dimensione tipica dell’Est Europa, dove la gente non è per niente fighetta, e anche ad un festival commerciale riesci a sviluppare una dimensione tribale. Negli Stati Uniti invece tutto è commerciale, sono gli inventori di questo modello, che hanno poi esportato in tutto il mondo. Lì quello che percepisci è il desiderio sfrenato di guadagnare il più possibile da tutto e da tutti.
Come vivi e vedi la società contemporanea, ed in particolare le città? Hai lavorato tanto per le strade di grandi metropoli, ed è da lì che vieni artisticamente. L’estetica dei tuoi ultimi lavori però rimanda molto alla natura, senza poi menzionare che il tuo studio si trova immerso in una foresta fuori Melbourne.
Ho vissuto in un furgone per 6 anni, dal 2006 al 2012. Mi trovavo ad essere sempre nelle grandi città. Ad un certo punto poi hanno iniziato a chiamarmi a suonare in Russia come in America e in giro per il mondo. Lì il furgone non mi serviva più molto, e quindi l’ho venduto. Siccome avevo passato anni a suonare senza spendere praticamente nulla, e messo da parte un bel po’ di soldi, mi sono comprato la mia attuale casa e il mio studio, nella foresta ad un’ora da Melbourne. Questo perché quando sono in tour sono sempre in città, in questi club schifosi o aerei sudici o in hotel. Mi trovo sempre in questo mondo finto e con l’aria condizionata ovunque…
…un Fake Paradise.
Esatto. E quando torno a casa voglio vivere nel modo più naturale possibile. Forse se non avessi fatto questo mestiere che mi costringe ad essere sempre in giro con ritmi di vita stressanti, se avessi fatto l’imbianchino, vivrei volentieri in città. Per quello che faccio invece è indispensabile avere questo bilanciamento. Sono molto attaccato alla natura, mi piacciono gli alberi e l’aria fresca. Quando non sono in tour e torno a casa non vado in giro per club, serate o aperitivi. Sto a casa e giro per il bosco. Il nome del disco (“Thinking Clear”), è nato da questo. Passando così velocemente da una sorta di Babilonia alla natura incontaminata posso vedere tutte e due le dimensioni. Se vivessi in una foresta senza misurarmi con le città avrei una visione parziale del mondo, e varrebbe ovviamente anche il contrario.
Che rapporto hai con i social media? Sono stati il tuo iniziale trampolino di lancio, e ti hanno consacrato in tutto il mondo. Però hai anche detto che la loro età dell’oro è già passata.
Il potenziale dei social è quello di distruggere o rendere superflue le strutture pre-esistenti che erano usate per la pubblicità e la promozione di artisti. La TV, la radio e i magazine acquistano un’importanza diversa nel momento in cui arrivano persone come me, che in modo organico, suonando per strada tutti i giorni, creano una fan base online enorme. Mi sa che queste strutture hanno capito che se tu hai 600.000 fan puoi comunicare subito con 600.000 persone senza pagare niente a nessuno. E hanno deciso che non ci stanno, spingendo per andare in un’altra direzione. Quando ora scrivo qualcosa su Facebook, non raggiungo i miei 600.000 fan, ma una piccolissima percentuale degli stessi. Se voglio comunicare con tutti devo pagare, e anche in quel caso magari non li raggiungo al 100%. Questo fa ritornare quasi alla vecchia maniera di comunicare, non molto diversa da quando c’erano la radio e la TV. Poi non è solo negativo, però il punto è che siamo tutti agganciati in un network in cui contano di più le persone con il potere e con i soldi. Il mio rapporto con questo è il seguente: non sono uno che critica. Prendo atto della situazione e mi organizzo per conto mio in questo sistema. Sono nato e cresciuto artisticamente in questo sistema. Anche se vai a vivere in una foresta, se poi vuoi comunicare con tua madre, che non vive lì con te, usi comunque un ipad, e quindi sei in ogni caso parte del mondo che critichi. Io la tecnologia cerco di usarla quanto basta, senza esagerare. Perché alla fine mi piace avere una vita serena e sana con la mia donna, con cui sto per avere un bambino, e comunicare con chi ascolta la mia musica. Stasera per esempio vado live su Facebook e rispondo a tutte le domande che mi vengono poste. Ed è bello, sai?
Insomma, Dub FX non vuole cambiare il mondo, dopotutto.
Decidere di voler cambiare il mondo è un processo egoistico. Siamo 7 miliardi di persone, se tutti fossimo d’accordo su quale direzione far prendere alle cose allora sarebbe un altro conto. Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo, diceva Gandhi. Io provo ad essere la migliore versione possibile di me stesso. Ogni tanto sbaglio, ma siamo umani.
Hai detto che la pirateria è positiva, e che spinge l’industria musicale in avanti.
Come musicista devi capire se stai creando arte o soltanto un prodotto. Sono due livelli leggermente diversi. Se crei un prodotto lo fai per vendere, mentre se crei arte vuoi trasmettere un’emozione. Poi ovviamente puoi vendere la tua arte, e io per esempio lo faccio. Però allora se la gente ne fruisce liberamente non ti puoi incazzare, perché vuol dire che il tuo scopo principale era quello di vendere un prodotto. Io voglio creare arte, e se la gente vuole pagare per goderne sono felice, ma se vogliono scaricarsela gratis lo possono fare. L’importante è che susciti in loro una reazione. Se vogliono supportarmi ed aiutarmi a continuare a produrre altra ben venga, però sono stato io il primo a mettere la mia musica su Pirate Bay. E’ tutto gratis su Soundcloud, Youtube eccetera. Se vuoi il vinile è un altro discorso, lì stai comprando un prodotto. Ma la mia arte è là fuori per tutti.
Cosa non ti piace dell’industria musicale?
Oltre alla confusione tra arte e prodotto c’è un’altra cosa. Chi non guadagna dalla pirateria, più che gli artisti, sono le etichette. Perché gli artisti già da prima non guadagnavano sui propri dischi. Con un contratto buono con un’etichetta forte come poteva essere la Sony negli anni ‘90, guadagnavi forse il 10%, ma prima c’erano le spese dell’album da pagare, che magari erano di 300.000 dollari, e quindi tanti artisti non guadagnavano mai sul proprio disco, andavano in tour e facevano soldi da lì. Anche oggi, più che Rihanna, è la sua etichetta a guadagnare dalle vendite dei suoi dischi.
Siccome hai esplorato tanti generi musicali nella tua carriera e suonato in progetti diversissimi prima di diventare Dub FX, ti vorrei chiedere un disco per ogni genere con cui ti sei misurato. Se ti dico funk cosa mi rispondi? E se dico rap e così via?
Se mi dici funk ti rispondo James Brown e Parliament. Rap? Doggystyle di Snoop Dogg, Dr. Dre 2001. Di reggae c’è tanto Bob Marley, Damian Marley, Steel Pulse… Sulla musica dance, gli Stereo MC’s negli anni 90, l’album “Connected”, che è ancora uno dei miei preferiti di sempre. Loro erano i primi a fare acid jazz, e a quell’epoca lo chiamavano hip-hop, perché non sapevano come chiamarlo. Sulla dubstep invece, per esempio, ascolto meno album e più mixtape e podcast, scelte di DJ che mi piacciono.
Hai suonato in tutto il mondo, i video delle tue performance hanno milioni di views e hai raggiunto, a mio parere, una nuova maturità artistica con questo album. Ci sono strade ancora da percorrere? Nuove performance da sperimentare? Cosa speri ti riservi il futuro?
Non voglio limitare la mia arte in nessun modo. Se un pezzo avrà bisogno del beatbox lo userò, se servirà altro lo cercherò. Se dovrò andare in Africa per registrare il prossimo album con una tribù che suona un particolare tipo di percussioni, lo farò, provando qualcosa di completamente nuovo. Non voglio ripetere cose già fatte, anche se l’arte alla fine consiste nel mischiare influenze. E’ nel mischiare che si trova l’originalità. Se far evolvere le mie influenze significherà mixarle con suoni del Sud America o dell’India, ben venga. Io mi sento flessibile con la mia musica. Sono abbastanza veloce a capire quali elementi funzionano e quali no. Se sento una musica che viene dalla Cina capisco subito quali sono le note importanti e che mi interessano, e le riutilizzo.
E questa sulla strada era la tua forza.
Sì, perché ogni tanto qualcuno mi proponeva un pezzo che non avevo mai sentito, me lo faceva sentire sul cellulare e io lo riproducevo all’istante. Però non voglio ripetere e non voglio ripetermi. Magari il prossimo album lo farò con un batterista, senza beat box. Forse tornerò alle cose che facevo una volta, quando facevo e cantavo tanto jazz. Però in quel caso non farei jazz normale, magari lo mixerei con altri generi, come il reggae o qualsiasi altra cosa. Magari canterò con impostazione jazz sulle basi reggae, o esattamente l’opposto. Mi piacerebbe molto fare qualcosa del genere. Alla fine l’evoluzione è per me un processo naturale. Mi pongo degli obiettivi, ma non so mai dove andrò a finire.