Laurel Halo ha intrapreso un percorso tortuoso ed imprevedibile per il suo terzo album, “Dust”, componendo una collezione di brani che ballano ai confini dell’entropia: uniti nella loro irrequietezza, esplorano le fondamenta della struttura e della forma, congiungendo quello spazio suddiviso tra virtuale e realtà. Ferocemente ambizioso, “Dust” sembra esser stato composto in condizioni di gravità zero, fungendo da sintesi del percorso artistico di Laurel Halo, iniziato nel 2012 con “Quarantine”, album prettamente introspettivo in cui la realtà vocale era ancora troppo lontana da quella virtuale, e proseguito con “Chance Of Rain”, dove si notano le prime forme di sperimentazione sintetica da parte dell’artista americana.
L’album si apre con la voce della Halo con “Sun The Solar”. Con un ritmo instabile e caleidoscopico, di matrice Shit And Shine (progetto noise-rock di Craig Glouse), l’artista americana adatta una poesia del poeta brasiliano Haroldo de Campos (uno dei maggiori esponenti della poesia concreta), “Servidão de Passagem”, scritta nel 1962. Halo ne processa le parole rendendole irriconoscibili per confonderle con la voce melismatica dell’artista britannica Kleyn, uno dei tanti ospiti presenti in “Dust”. È un punto di partenza che disorienta l’ascoltatore rendendo l’album, già dalle prime battute, imprevedibile.
Vale spendere qualche parola sui “poeti concreti” come Haroldo de Campos, creatori di nuove forme di linguaggio riconducibili in tre macroaree: poesia visiva, poesia sonora, poesia performativa strettamente legata all’utilizzo della voce. La parola poetica, in mano loro, finì così con l’assumere un valore diverso in relazione ai supporti che la veicolavano, relazionandosi tra l’altro con nuovi media e tecnologie e portando avanti discorsi sulla “materia elettronica” – elemento che spingerà molti di questi poeti a stringere rapporti artistici con professionisti dei nuovi media. Non a caso sono fonte d’ispirazione per Laurel Halo, che cerca di utilizzare la propria poetica e musica allo stesso modo, rompendo le frasi in frammenti criptici e usando la propria voce per strutturare un più ampio reticolo di percussioni e bassi. Il ritmo, l’allitterazione, come i suoni creati dalla voce, sembrano accompagnare il contenuto lirico, in un desiderio di raccontare “storie”.
Anche i momenti melodici più comprensibili, in “Dust”, arrivano fra distese sonore confuse e caotiche; come in “Nicht Ohne Risiko” e in “Like an L”, dove gli strumenti sono arrangiati in pattern astratti che orbitano come detriti spaziali senza peso. “Arschkriecher” si spinge verso il misticismo di gong dissonanti annegati in effetti dub; in “Koinos” il campo gravitazionale è abbastanza forte da tenere insieme la canzone, fluttuando tra stralci di “musique concrète” e tra la voce della Halo che si perde sotto la composizione ritmica del compositore Eli Kezsler, collaboratore importante per gli arrangiamenti dell’album.
Al di là di un collage di generi e stati d’animo tagliati e ricuciti ad arte, “Dust” è il tentativo emozionante ed emozionale di uscire dai soliti schemi sotto cui vengono classificate le opere musicali, facendo crollare il primato della voce umana così come siamo abituati a sentirla, facendola sostituire da momenti oscuri ed inaspettati. È facile, quindi, sentirsi perduti in questo stato astratto di composizione musicale. Un album scuro ed inebriante che, sotto certi punti di vista, può sembrare anche sinistro e misterioso; ma fra l’ingegnosa sequenza delle tracce ed una manciata di irresistibili groove e melodie, Laurel Halo offre molte incanalature a cui aggrapparsi prima di entrare in un universo nuovo, complesso, mutevole.