Un aggettivo che sento utilizzare quasi quotidianamente a lavoro è “disruptive”: occorre creare contenuti disruptive, elaborare un pensiero, una strategia che sia disruptive. Il termine viaggia più in alto di quello che in italiano potremmo tradurre con “anticonformista”; è più un punto di rottura, una fiamma che fa terra bruciata di tutto quello che c’è stato prima, perché viene spazzato via da un’idea drasticamente rivoluzionaria. In tal senso, da qualche mese, si parla di un’intervista di Aron Friedman a DVS1: contenuto prodotto per la piattaforma educativa School Of House, di stanza ad Amsterdam. L’intento del progetto è interessante, una sorta di TED Talk del mondo dell’elettronica finalizzata a formare i più giovani attraverso testimonianze di DJ, organizzatori e producer che abbiano piacere a prestarsi al passaggio di testimone.
Il tema del confronto è l’ascesa inarrestabile della cultura dei festival, contro quella delle realtà indipendenti ed autofinanziate, realtà magistralmente dipinta ancora decenni fa dai Buggles de “Video Killed The Radio Star” (…insomma, nulla di troppo nuovo sotto il sole). Insomma: il colosso dell’industria musicale è un gigante che schiaccia e annienta senza pietà le peculiarità distintive di una comunità edificata, in quasi quarant’anni, dallo sforzo di individui singoli che son diventati prima gruppo e poi, da gruppo, una scena. Il festival emerge da questa discussione come emblema della supremazia del capitalismo nell’universo elettronico, un “suino orwelliano” che domina la fattoria anestetizzandone lo spirito critico ed uniformandone il gusto. I raduni di piccole dimensioni, i flyer scritti a mano e fotocopiati, le fanzine e gli impianti artigianali si contrappongono allo tsunami tomorrowlandiano venendone via via travolti, come una fetta militante che soffre un’eclissi progressiva ed irreversibile; elementi di un tempo indeboliti dalla macchina commerciale, cui si guarda con nostalgia.
La prima imprecisione dell’intervista giace però proprio in questo punto: delle feste autogestite, dei parties nel bosco si parla come fossero quasi morti e sepolti. È corretto riconoscere la frazione esistente fra rave culture, club culture e festival mastodontici, questo sì, perché diversi sono e lontani si mantengono. È forse un po’ troppo semplicistico, tuttavia, trasmettere l’idea che la rave culture sia scomparsa o dimenticata: perché in realtà si trova ancora lì dove è sempre stata, per coloro che abbiano passione di esserne parte e portavoce. È come il circolo vizioso che ha condotto alla rivalutazione del vinile a trend assoluto e novità del momento, laddove il vinile è invece sempre esistito, non è che fosse scomparso, e chiunque desiderasse godere del suono in qualità superiore ne ha fatto scorta di ogni tipo.
Quello che invece sarebbe più obiettivo e convincente affermare, è che il grande pubblico oggi accrediti i festival e ne consenta, anzi, incoraggi il potere dilagante, ma in realtà questo grande pubblico mai ha rappresentato il popolo seminale della rave culture, quello della scintilla originaria, al massimo lo ha fatto per i club più grossi che sono andati a svilupparsi negli anni. Sono sfere differenti, plasmate ciascuna a sé e sopravvissute l’una all’altra: al più destinatarie di maggiore o minore popolarità e consistenza numerica in base al periodo. Esempio concreto: Gabber Eleganza ha reso accessibile e “pop” l’eredità sonora ed estetica di Rotterdam e della hardcore tekno, ma non ha inventato nulla che già non esistesse; o ancora, i più giovani dj britannici trovano correntemente approvazione quando suonano una traccia trance, o quando il set sfocia in esplosioni drum’n’bass, che però tutto sono meno che qualcosa di inedito. Sono ciò verso cui si era perso interesse, e che per corsi e ricorsi storici torna a far tendenza, acclamato come fosse la next big thing. Quando invece di “next” non c’è nulla.
DVS1 nasce e si forma all’interno dei rave, in un ambiente in cui il dj non è una celebrità e i riflettori non esistono: ok. Si dice fortunato ad aver avuto la possibilità di accedere alla musica elettronica tramite i contesti underground, contesti in cui la guida erano persone che si muovevano per pura passione e ti trasmettevano gli insegnamenti giusti. E questa passione la si è potuta usare – e lui l’ha usata – per lavorare duro per diventare il migliore in quello che fa, o comunque uno sinceramente bravo. Tutte le parti “a margine”, potremmo anche dire potenzialmente “commerciali”, erano portate avanti da una comunità che cooperava tipo alveare, dandosi aiuto a vicenda e facendo tutto “per una causa”, e sterilizzando quindi automaticamente le pratiche da mercato e da massimizzazione del guadagno: la promozione, la vendita dei biglietti, la disponibilità e l’allestimento delle venue, eccetera eccetera. Tutto questo non era (ancora) un’industria, e da tutto ciò non ci si potevano aspettare entrate considerevoli. Lo si faceva per puro entusiasmo, per pura passione, e questo immolarsi era anche una sorta di automatica “purificazione”. Oltre che la garanzia che si potesse parlare di “movimento”, visto che si parla di un insieme di persone che lotta per una causa comune.
Per Zak, dunque, bisogna agire perché devoti: non avrebbe dato credito negli anni novanta a chi fosse corso da lui dicendosi “innamorato follemente della techno”, se non mettendolo prima alla prova e sfidandolo a perseverare in tale devozione per qualche anno, dimostrando la solidità della sua, ehm, fede. DVS1 della techno ha fatto la propria vita, superando un passato tumultuoso e giungendo ad un punto della propria carriera forte e definito, tanto da assicurarsi tanto una serenità economica quanto una libertà di espressione (la gente lo chiama a suonare per quello che fa, quello che suona, quello che rappresenta). Raggiunto il suo livello, girando il mondo macinando date, la credibilità guadagnata gli ha consentito di dare voce alle proprie opinioni liberamente, senza temere di compromettere il proprio futuro: ed eccolo quindi condannare il magma generalista dei festival di enormi dimensioni. Per quanto lodevole sia il peso della responsabilità che avverte nel voler tramandare il proprio vissuto e portarlo ai posteri, rappresentando un messaggio ben preciso (e bello!), una piccola crepa si apre lì dove predica bene, sì, ma razzolando un po’ peggio. Ovvero: DVS1 è senza ombra di dubbio un big name, è uno di quegli artisti che in quasi tutte le line up estive compare notte dopo notte, venue dopo venue. Sembra, perciò, un filo di comodo ergersi a pontificare sulla volontà, anzi, necessità di tornare alle radici e all’autenticità, quando in primis proprio il profeta del messaggio non esclude per se stesso occasioni commerciali, quelle che va a criticare. A livello teorico, quello che fa è un discorso bellissimo; ma debole in coerenza, non avendo lui stesso sempre messo in pratica il mantra dei Talking Heads di agire “Never for money, always for love” (che poi, anche lì: David Byrne l’ha fatto?). Candidamente ammette che si tratta di una scelta significativa e di autentico sacrificio quella di non esporsi alla ribalta; una scelta però che lui stesso non ha del tutto seguito.
Osserva poi DVS1 che il dj ad un festival, obbligato entro set brevi e condizionato dall’ansia di soddisfare rassegne con tot palchi e migliaia di persone, sia castrato dell’immaginazione. È costretto cioè a suonare le bombe – le killer tracks che su YouTube generano fiumi di interrogativi “Track ID??” – se vuole tenere alta e costante l’attenzione di un pubblico prettamente giovane, e sotto molti punti di vista presente più per l’evento nel suo insieme più che per le specifiche caratteristiche degli artisti presenti. Il prezzo del biglietto di un festival è modesto, se uno la butta unicamente sul rapporto euro-per-artista, e permetta di assistere ad un circo con cento acrobati, funamboli di selezioni musicali democratiche in cui, per tenersi in equilibrio e guadagnare l’attenzione, la strategia va calcolata a tavolino.
L’abilità vera del dj si svela invece nel club, con i saliscendi di un’esibizione di tre o quattro ore in cui modellarsi al vibe della stanza, alla reazione dell’audience, spiccando voli pindarici che accelerano bpm o alternano cassa in quattro a new wave anni ottanta o chissà che altro suggerisca l’ispirazione. Perfetto: è la risposta che io stessa fornisco quando mi viene domandato perché assistere ad un dj set in un club, cosa ci sia di tanto speciale in una notte di clubbing: conformemente a quando DVS1 riconosce, il dj è un artista e la sua performance va valutata al pari dell’esecuzione unplugged di una band. Guardare in volto un dj è emozionante non per scattargli una foto, ma per incontrare il suo sguardo e sorridergli, riconoscergli supporto e approvazione per la magia che sta creando, per le emozioni che riesce a scatenare col potere della creatività.
Per Zak, quindi, esiste una morale: il suo non è un mestiere d’ufficio 09-18, non è un’azienda in cui salire dal basso a posizioni dirigenziali. È invece un percorso di crescita e miglioramento continuo, in cui è possibile arrivare al punto in cui i soldi guadagnati sono sufficienti, e tanti abbastanza da svincolarsi dalle linee imposte dal management, conservando la propria integrità. A quel punto, un dj deve fermarsi, evitando la compromissione del proprio valore aggiunto. Superata la linea del mainstream, è difficile tornare indietro: si può, però, scegliere in che modo gestire l’essere un artista di fama mondiale, e in che modo portare avanti l’individuale testimonianza.
DVS1 elabora un J’accuse che vuole mettere in discussione le certezze d una realtà di massa con affermazioni nette e, ne siamo convinti, sincere. Ha diritto e titoli per farlo, essendo in prima persona stato membro di una tribù che balla (cit.), con cognizione di causa, ed è uno dei pochi verbalmente ed apertamente schieratosi contro un universo fagocitante. Non porta il Vangelo in terra, perché quanto dice è assolutamente buon senso per chi setta in alto gli standard che devono essere rispettati da qualcosa che si ama e a cui ci si dedica con passione profondissima. Chi sceglie la qualità sa dove coglierla e, allo stesso modo, chi esige la qualità non dimentica che esiste sempre una “seconda scelta” per cui optare, probabilmente migliore rispetto alla prima che ti viene presentata dal mercato, dal sistema. Perfetto. Se non fosse Zak stesso una presenza fissa di rassegne musicali grandi quanto intere città e comunque uno che per il booking si affida al lavoro professionale di agenti con richieste ben specifiche, tutto filerebbe liscio e questo intervento ci avrebbe convinto in ogni sua argomentazione. La realtà, però, è che tutto l’amore del mondo per quello che fa non è stato (ancora) una ragione tanto forte per correre un rischio maggiore, per uscire in modo radicale dal sistema, scomparire dalla sua vista e dai suoi meccanismi.
Forse la questione insomma è meno semplice di quello che può sembrare a prima vista. DVS1 fa benissimo ad inoculare questi ragionamenti nel dibattito contemporaneo, solleva dei problemi che sono reali e delle questioni che vanno affrontate. Il punto è non usare come una clava quello che dice: perché il più puro dei ragionamenti deve comunque scontrarsi con la realtà, che ciascuno di noi – anche se siamo giga-appassionati – in qualche maniera deve affrontare. Con le sue “curve”, le sue imperfezioni, la difficoltà di vivere in un mondo che è o solo bianco o solo nero. Un mondo che esiste solo nei sogni. Quando invece la musica è realtà.