E ora? Che si fa? Un altro mese in cui stare fermi. E poi, probabilmente, un altro mese ancora; e poi ancora, ancora. Fino a… boh? Fra i primi a chiudere – prima ancora dei DPCM ufficiali – e probabilmente fra gli ultimi a riaprire, se non gli ultimi: questo è il destino di club, discoteche, sale da ballo. Anche perché dopo l’estate delle mezze riaperture si è sparsa questa vulgata, fra la “ggente” ma anche fra gli addetti al settore, che discoteche e club sono i grandi colpevoli. Vengono bene nelle foto della sceriffa Selvaggia, si sono assembrati, non si sono distanziati, se ne sono fottuti delle regole, eccetera eccetera (…vero? Falso? La risposta è più complessa e frastagliata di un post su Facebook, come abbiamo tentato di spiegare). Hanno rovinato tutto quanto, insomma. Peccato poi constatare che, numeri alla mano, non ci sono evidenze scientifiche che le riaperture estive dei posti danzerecci (a luglio, terminate a metà agosto) abbia cagionato l’esplosione dei contagi (ad ottobre, leggermente dopo insomma i canonici 10/15 giorni di incubazione), tra l’altro una esplosione che si è avuta meno dove si è ballato di più (Emilia, Puglia) e più dove si è ballato di meno (Lombardia). Coi numeri peraltro ci giocano in tanti: il comparto della musica, del cinema e del teatro sta sventolando come vessillo lo studio dell’AGIS (il famoso “più di 350.000 persone, solo 1 contagio”) ma sommessamente vorremmo ricordare che è un autogol non da poco, visto che si basa sui dati ufficiali di Immuni, l’app che piaccia o meno hanno scaricato in trenta ed attivato in cinque. Ma anche la scuola, da Azzolina ai tanti genitori che non saprebbero come fare coi figli a casa costretti alla DAD, per un sacco di tempo ha sbandierato degli zero-virgola-zero-zero tra i dati di contagio nelle classi.
Tutto questo non conta più. Tutto questo ora si spegne, nella paura, nell’ansia. Di fronte ad una pandemia che ci sta “regalando” una seconda ondata molto più impetuosa e preoccupante del previsto, di fronte a un settore sanitario che sta tornando in sofferenza, di fronte all’enorme abnegazione di chi va a lavorare in prima linea nella sanità pubblica (con turni massacranti, e con l’obbligo proprio professionale di stare faccia a faccia col CoVid 19: provate ad immaginare), il problema del ballo e delle discoteche e dei cinema e dei teatri va in secondo piano. Dovrebbero andarci anche tante altre cose, ma il sistema che ci siamo costruiti addosso – e che comunque ci ha dato dall’800 in poi sviluppo, crescita, conoscenza – ci obbliga ad essere come criceti sulle ruote: ci sono degli ingranaggi che se si fermano, crolla tutto. O almeno così ci dicono.
Il sistema che ci siamo costruiti addosso ci obbliga ad essere come criceti sulle ruote: ci sono degli ingranaggi che se si fermano, crolla tutto. O almeno così ci dicono
Certo, fa sorridere amaramente (in qualche caso, fa proprio incazzare) che a teatro distanziati, nei cinema distanziati, nei club distanziati e con temperatura misurata all’ingresso e biglietto nominale per un traccabilità al 100%, non si possa stare; ma quando si tratta di finire nel pollaio del trasporto pubblico o dei luoghi di lavoro, magia!, improvvisamente il Coronavirus non sia più un problema e un fattore ostativo. Fa sorridere amaramente, sì, e fa anche incazzare, una società che non capisce che la distinzione tra attività “essenziali” e “non essenziali” rischia di diventare, se uno all’improvviso osservasse tutto neutralmente dall’esterno, una perfetta descrizione di come ci stiamo rovinando l’esistenza e la società da soli (la nostra vita deve veramente ridursi all’andare a scuola per poi lavorare, costi quel che costi, e tutto il resto non conta un cazzo ed è “non essenziale”? Davvero tutto lo sviluppo tecnologico non ci ha aiutato a liberarci da questo giogo, ma anzi ci ha incatenato ancora di più?). Fa sorridere, fa incazzare. E dopo che si ha sorriso o ci si è incazzati, è giusto discuterne: se possibile in modo razionale, con un beneficio del dubbio grande così ad ogni singola affermazione socio-politico-sanitaria, visto che ad oggi il Coronavirus si è fatto beffe di tutto e di tutti, si è avverato tutto e il contrario di tutto, ancora non abbiamo capito con precisione come la gente si contagi, quanto si contagi, dove si contagi. Una cosa tuttavia è certa: si contagia. Un’altra cosa è certa: nel 5% dei casi ha conseguenza gravi o gravissime, e se il 5% vi sembra poco sappiate che il 5% degli abitanti dell’Italia è, a spanne, tre milioni di persone. Tantini, no? E’ vero che coll’inquinamento ambientale abbiamo imparato a convivere (purtroppo, gran cazzata), ed esso fa anche più danni del CoVid proprio statistiche alla mano, è vero che nessuno rifiuterebbe uno smartphone per non prendere il cancro o di andare in macchina per non morire o restare ferito in un incidente, ma il Coronavirus c’è e non si può fare finta di ignorarlo. Non lo sta facendo nessuno nel mondo. Neppure la tanto decantata Svezia.
Tutta questa premessa, in fondo molto banale e molto di buon senso, molto “buona per tutte le stagioni senza scontentare nessuno”, serve solo a far capire: la situazione è complicata, molto complicata. E’ vero: ci sono tantissime falle nella policies del nostro governo, ma se uno guarda attorno a governi che riteniamo molto più evoluti (anche a ragione…), ecco, non stanno facendo meglio e non stanno facendo molto di altro. I coprifuochi, li stanno facendo anche in Francia, Spagna, Inghilterra; la civilissima ed evolutissima Olanda, a cui guardiamo con meraviglia ed invidia ogni anno che andiamo all’ADE, ha al momento il doppio dei contagiato dell’Italia; il Belgio, il quadruplo. Magari altrove l’informazione è meno sensazionalista (vero), magari altrove quando parlano degli artisti non li chiamano “…quelli che ci fanno tanto divertire” e li sostengono più, meglio, prima (magari pure troppo…); magari questo è vero. Ma le differenze non sono così sostanziali. Bisogna armarsi di pazienza. E resistenza. Bisogna discutere, certo, bisogna leggere, confrontarsi, anche litigare; bisogna scontrarsi per capire quali sono le soluzioni più efficace, perché nessuna soluzione sarà indolore e senza difetti e svantaggi; ma le differenze non sono così sostanziali.
E il clubbing? C’è un grande “non detto” che si sta facendo strada, e che la momentanea riapertura estiva di alcuni santuari aveva momentaneamente allontanato: sta per terminare un’era. E questo fa paura. Il rischio, cioè, è che alla riapertura la gente non abbia così tanta voglia di tornare ad affollare un settore che, di suo, sarà tra le altre cose martoriato come e più di altri: meno soldi, molti meno posti (quanti club e discoteche non riusciranno a riaprire?). Di conseguenza, meno aria “euforica”; e il redde rationem verso un settore che, dopo la rivoluzione a cavallo dei millenni, quando i club e il clubbing di matrice tedesca ed anglosassone si sono affiancato alla discoteca “tradizionale”, con Ibiza a fare da sintesi tra questi due mondi, non ha più saputo rinnovarsi più di tanto. L’EDM è stata effimera, ma è stata anche cancerogena, ha alterato il corredo genetico: ha fatto capire come con determinati meccanismi si possano fare un sacco di soldi in breve tempo e lo si possa fare ovunque, anche nella dance, anche nel cosiddetto underground. Risultato? Gli stessi meccanismi del pop mainstream di alto livello, sì, ma non la stessa preparazione degli addetti ai lavori corrispondenti, non gli stessi capitali, ma soprattutto non lo stesso pubblico: lo zoccolo duro dei dancefloor e dell’elettronica non è quello del pop. Può anche ascoltarlo, il pop, può reinterpretarlo, perché oggi molte frontiere sono cadute e giustamente i festival passano dalla techno (anche) all’avant-pop; ma non è lo stesso pubblico, non lo vuole essere, e le volte che i due contesti si sono sovrapposti è successa una cosa molto semplice: è durata poco.
L’EDM è stata effimera, ma è stata anche cancerogena, ha alterato il corredo genetico: ha fatto capire come con determinati meccanismi si possano fare un sacco di soldi in breve tempo e lo si possa fare ovunque, anche nella dance, anche nel cosiddetto underground
Giocare-al-gioco-dell’EDM può portare dei risultati nell’immediato, può trasformare in fruttifera la “melodic/business techno” di Paul Kalkbrenner ed Amelie Lens e chi volete voi, ma più risultati, numeri e risorse drena nell’immediato, più aumenta la quota di quelli che, quando la moda cambierà – e cambierà – se ne andranno. Non c’è nulla di male. E, in fondo, non è nemmeno il caso di gettare la croce addosso a “quelli che se ne vanno”: è musica, non è religione, uno potrà ben essere libero di ascoltare (e ballare) il cazzo che gli pare, no? Ma se si crede che la crescita e la commercializzazione sfrontata e senza limiti del clubbing non abbia conseguenze ed effetti collaterali a lungo termine, si sbaglia. Uno lo stiamo vedendo, di questi effetti: il clubbing, percepito sempre più come divertimento-buono-per-tutti e meno come fattore identitario (inevitabile, quando sei iper-marketizzato), sta perdendo le nuove generazioni. Un ventenne oggi è più facile che vada a ballare la trap (o a cantare i ritornelli di Calcutta) invece che cercare un club, una discoteca con la cassa in quattro. La trap è diventata forte perché era la musica “contro il mainstream”, idem a suo tempo il rap, Calcutta e i suoi epigoni sono diventati forti perché erano “indie”: è in questo modo che hanno preso slancio nelle passioni dei teenager, per poi solidificarsi tra i ventenni e via via le fasce più adulte, diventando pop(olari).
L’elettronica “da dancefloor” invece, già da qualche anno, riesce a conquistare le fasce più giovani solo dietro la promessa dello sballo o, comunque, di un contesto un po’ più “libero” dal punto di vista fisico; per il resto, si sta portando dietro soprattutto le fasce di chi si è appassionato a house e techno nei primi 2000 o nei ’90. Sempre quelli, sempre gli stessi. Che prima o poi si stuferanno, o ‘gna faranno più.
Processo irreversibile? No. Nulla è perduto. Tutt’altro. L’esperienza di ballare house, techno, drum’n’bass et similia resta e resterà bella di per sé: non passerà mai di moda, riuscirà sempre a conquistare nuove generazioni, almeno un minimo. Ancora di più ci riuscirà se avrà cura sempre di conservare un proprio zoccolo duro e di non dimenticare le proprie origini (come infatti fa l’hip hop: anche quello più commerciale e svergognato, se resta, ha il momento in cui comunque paga tributo alle origini della faccenda).
Ma appunto: bisogna stare attenti. Il clubbing è una delle sfere che più sarà danneggiata dalla pandemia, come abbiamo spiegato prima. Sarà percepito inizialmente come un contesto “perdente”, tolte le (poche) realtà che riusciranno ad agganciarsi alle dinamiche mainstream. E lo sarà soprattutto se sarà patetico: se farà cioè finta che nulla sia successo. Tra l’altro, proprio questa dinamica è ciò che ha affossato le discoteche, le discoteche storiche italiane: fare finta che il mondo non sia cambiato. Col risultato che diventi inattuale, residuale e macchiettistico che nemmeno te ne accorgi: e quando te ne accorgi, è troppo tardi per invertire la rotta.
Il clubbing è una delle sfere che più sarà danneggiata dalla pandemia. Sarà percepito inizialmente come un contesto “perdente”, tolte le (poche) realtà che riusciranno ad agganciarsi alle dinamiche mainstream
L’appello quindi è semplice, ma è potenzialmente molto importante: approfittare di questo periodo di pausa forza per ripensarsi. Per esplorare cioè nuove forme di clubbing (…compenetrate con altre arti; svolte in luoghi, contesti, orari inusuali; creative dal punto di vista delle scelte sonore). Questo non significa che scompare il clubbing-grandi-numeri e/o quello-dei-soliti-nomi, o che scomparirà: ma invece di inseguire tutti la stessa carota, ora molto più di prima è importante iniziare ad esplorare e praticare nuove modalità, nuovi suoni, nuove abitudini, nuove sorprese. Perché i club hanno portato avanti talmente bene la formula forgiata nei primi anni del nuovo millennio (minimal, clubbing all’anglosassone, eccetera) da averla resa alla fine scintillante ed appetibile per l’industria del festival; e una volta che l’industria del festival ci si mette, scompare quella dei club, s’inabissa piano piano, soprattutto se i club si intestardiscono – un po’ per mancanza di idee, un po’ per panico per i margini ora più risicati – a voler fare le stesse cose e le stesse scelte estetiche dei festival (con la scusa che, originariamente, erano le scelte loro: vero, ma non cambia la questione, portarle avanti adesso è scavarsi la fossa da soli, sul medio-lungo periodo). Ma quando giustamente uno ti dice “Non vedo perché dovrei andare stasera al club a sentire quello lì, quando invece tra sei mesi potrò sentirmi lui e altri cento nella stessa sera pagando al massimo due o tre volte tanto” capisci, o dovresti capire, che è segno che c’è un allarme in corso di cui tenere conto. Di cui tenere davvero conto.
La pandemia, con tutte le conseguenze grave ed orribili che si porta con sé, se non altro potrebbe aiutare il clubbing italiano (ed europeo) in questa missione: ripensarsi un po’. In fondo, le idee sono gratis; e in fondo, tutto e tutti siamo partiti da zero. Se ci siamo innamorati di questa faccenda non è perché era quella “facile”, ma perché era quella emozionante, eccitante, pure un po’ sorprendente. Bene: torniamo a riscoprire quelle sensazioni. Ora più che mai.
Col passare delle settimane magari lanceremo proposte concrete, idee, suggerimenti, ipotesi. Intanto, il problema però va posto sul piatto: un problema che, fortunatamente, si porta con sé anche la soluzione.