Prima di tutto: dobbiamo fare ammenda. Tempo fa, un nostro amico – tra le altre cose anche interessante dj/produttore, col suo nome d’arte e da social finto-femminile – ci aveva parlato di questo posto nella sua città, dove sarebbe anche andato a suonare: “E’ un luogo storico, dovresti venire a vederlo e raccontarlo, è una struttura notevole”. Se da un lato ci fidavamo di lui, avendone parecchia stima, dall’altro pensavamo fosse un po’ una esagerazione, o comunque l’entusiasmo di avere una console da gestire: sì, ok, il Sinatra, discoteca storica di Ferrara, lo avevamo sentito nominare, ma il pensiero era stato “Ok, una discoteca. Sarà anche bella, ma una discoteca”.
Il punto è: ad un certo punto, le “discoteche” erano diventate il nemico. Il nemico di chi, in Italia, aveva a cuore una club culture che fosse sincronizzata coi tempi e con le eccellenze europee. “Discoteca” era sinonimo di “localaro”, di struttura grossa ed indistinta dove veniva gente a caso e dove si cercava di essere il più generalisti e meno specifici possibili, provando a perpetuare come massimo della modernità il modello molto anni ’80 coca & champagne & bella gente, bookando quando andava bene qualche nome storico della house americana (quelli che negli anni ’90 sbancavano il mercato e facevano tanto “prestigio”.
Vuoi mettere col club? Il “club” era, lo diceva il nome stesso, il posto dove si radunavano persone con una sensibilità simile, con interessi simili, dove si creava un’atmosfera particolare, intima, accesa, particolare. La discoteca no, la discoteca era ormai non un luogo particolare come poteva essere nei primi anni della sua esistenza, quando aveva spazzato via il vintage delle balere e portato la modernità, ma un contenitore indistinto, indifferenziato, stantio, vecchio. Il posto dove potevano ancora regnarsela quelli che si rifiutavano di cogliere gli stimoli e le idee provenienti da Londra, Berlino, Parigi, Francoforte, Barcellona, perché ancora abbarbicati al modello da “generone” vecchio stile che viene a sbocciare e prenota tavoli a manetta. Le “discoteche” alla peggio le lasciavamo ad Ibiza: dove tutto è talmente straordinario e fuori scala che, dai, pure le discoteche potevano avere un loro perché ed essere forza propulsiva per un certo tipo di club culture.
Una battaglia culturale, questa, che abbiamo vinto. Nel senso che in tutti gli anni 2000 si sono succedute le chiusure di discoteche storiche e invece sono nati i club – non tanti, non tantissimi, ma comunque in grado parecchi di loro di fare un discorso veramente incisivo in campo house, techno e dintorni, un discorso perfettamente sincronizzato col Fabric o con qualche altro santuario: dimensioni più piccole, atmosfera intima, line up scelte, eccetera eccetera. Quello che volevamo.
Bene. La serata passata al Sinatra, a Ferrara, in uno dei sabati sera appaltati al collettivo di Simple ci ha fatto passare davanti tutto questo ragionamento – lungo anni – in rewind, e ci ha fatto capire in modo nitido che forse è il momento di iniziare una nuova fase, un nuovo periodo, una nuova rigenerazione. Siamo in una fase di passaggio storico.
Si parla di crisi del clubbing e dei club, stritolati dalla massa critica (di soldi e di contenuti) dell’entità-festival. Forse, una cosa che non si è spiegata per bene è che ad un certo punto in molti casi “club” stava e sta giusto diventando la scusa per avere dei posti poco curati, dove l’unica attrattiva era il dj guest straniero e l’ossessione di citare questo o quel nome berlinese o anglosassone, facendo finta tutto di essere degli esperti e di pensare solo a quello, alla qualità musicale, a quanto si è fighi a conoscere chi sta spaccando ad Ibiza, chi a Birmingham, chi a Tbilisi, sentendosi parte di una supposta avanguardia alternativa senza però esserlo già da mo’, anzi, portando avanti codici davvero omologati ed omologanti. E i veri motivi della crisi forse bisogna iniziare a cercarli (anche) qui, oltre ad a leggere con attenzione questo articolo scritto da un osservatore navigato ed acuto come il nostro Matteo Cavicchia (fatelo, se non l’avete già fatto). Bisogna tornare a meravigliarsi, a sorprendere; bisogna uscire dalla routine; e, diciamolo, il clubbing col format “posto scarno e poco curato – uno o due resident sotto o non pagati – guest straniero preso dal solito ventaglio di proposte delle migliori agenzie italiane” ha iniziato se non a stufare, ad essere prevedibile. Ad essere la nuova “conservazione”. Ad essere oggi quello che erano negli anni ’90 le discoteche rette dai localari, con la loro refrattarietà ad accogliere le vibrazioni della contemporaneità ripetendo sempre la solita liturgia finché reggono i fatturati.
Il problema non è il posto. Il problema è l’attitudine. O ancora: il problema non è (solo) il nome che scegli in line up, ma piuttosto quanto è originale e particolare la situazione che crei rispetto a quello che gira intorno, rispetto a quello a cui si è abituati.
Cosa è successo? E’ successo che il Sinatra, appena siamo arrivati, ci ha lasciato davvero a bocca aperta. Nato nel 1975, volendo è una “discoteca”: ma in realtà abbiamo trovato una struttura davvero incredibile, molto più una “città dei divertimenti” che una mera discoteca. Prima di tutto onore al merito alla gestione: è tenuta benissimo. Dentro, hai l’impressione che sia tutto nuovo di zecca, anche se architettonicamente demodé e pacchiano. Non sarà stilosa e minimalista nel design e nelle soluzioni d’arredamento, ma il suo generoso coacervo di stili sparso per le varie sale è, in qualche modo, felliniano o come si diceva un tempo post-moderno – ma visto che appunto è tenuto tutto strabene, non pare una baracconata fuori tempo massimo e decaduta, uno stanco tentativo di “miro a tutto, metto le cose a caso, qualcosa prenderò”, quanto invece un posto assurdo, inaspettato e pieno di sorprese. La metratura complessiva è enorme: abbiamo contato quattro sale, di cui almeno due da oltre mille persone come capienza potenziale. Ti ci perdi. E comunque ogni sala ha una sua identità ben precisa e, in qualche caso, anche parecchio scenografica, spettacolare, pacchiana (e altamente funzionale).
(continua sotto)
E’ stato strano, sentire la tech-house di Simple (in quella sera, dell’ottimo resident Lorenzo De Blanck – talento vero – e di un Leon che quando non è obbligato a fare i warm up per le maratone marcocaroliane dà il meglio di sé e risulta notevole per impatto e consistenza) ambientata non in un club più o meno super, non ad Ibiza, non ad un “solito” festival, ma in una “discoteca” vecchio stile. E sapete che c’è? Questo connubio bizzarro funziona. Anzi: è un valore aggiunto. Rimescola le carte e risveglia il senso di attenzione, sorpresa, meraviglia. Anche perché si mescola con altri valori aggiunti: si parla di crisi del clubbing, e se chiedete a noi la crisi del clubbing è iniziata a nascere non col calo dei numeri ma da quando la gente ha iniziato a venire alle serate techno e house “…perché sì”, perché faceva figo esserci, perché c’era questo o quello come guest. Col risultato che chi stava lì diceva di divertirsi, si raccontava di divertirsi, ma non si divertiva davvero. Ballicchiava, ecco. In modo un po’ stanco, un po’ robotico. Sai: quando non puoi e non vuoi ammetterti che in realtà ti stai un po’ annoiando, e speri che i drink (o altro) facciano almeno effetto in fretta. Un morbo che abbiamo visto contagiare veramente tante serate e tante situazioni, nell’ultimo decennio. Situazione magari peggiorata appunto da un uso banale e scriteriato delle droghe e dell’alcool, visti non più – se proprio li devi assumere e sottoporre il tuo fisico e la tua serotonina a questo stress – come un’esperienza liberatoria e particolare ma solo come inevitabile e logico corollario nell’andare ad un certo tipo di situazione.
Da quanto tempo non vi ritrovate a dire “Ma cazzo, tutto questo non me l’aspettavo…“?
Pensateci, da mo’ le serate con più droga in campo tech-house (ma non solo in quello) sono spesso le più noiose e le più prevedibili: quelle dove vedi gli stessi balli, fatti dalle stesse persone, vestite nello stesso modo, che inneggiano sempre ai soliti nomi. Soprattutto, quelle dove la partecipazione è solo apparente, anzi, diciamo che è proprio meccanica, fatta per onor di firma e come uno stanco, inevitabile rito. Se uno invece ha un minimo di esperienza, l’adrenalina e la gioia vera, partecipata, la riesce a respirare e sente la differenza: ecco, a Simple l’abbiamo trovata. A fiotti. Un pubblico giovane, composto anche e soprattutto di gente diciamo “normale”, non di gente con cui a occhio potresti avere una conversazione su Posh Isolation e Varg e DVS1 (o la Perlon e Zip), ma chi se ne frega, l’entusiasmo che si sprigiona è oro.
Ed è un entusiasmo che non è solo regalato all’ospite di turno, ma viene riversato sui resident, in primis sul già citato Lorenzo De Blanck. Questo è importante. E’ fondamentale. Riporteremo la chiesa al centro del villaggio solo quando i resident più bravi verranno rimessi, come importanza, fianco a fianco col guest di turno. Perché avere dei resident di qualità da supportare rafforza il senso di appartenenza e di unicità a chi è lì, in quel momento, e sta contribuendo a costruire una serata speciale nella sua settimana, nel suo sabato sera, nella sua comunità di amici e conoscenti.
Insomma. Se fino a qualche anno fa ci avessero detto: discoteca-contenitore di provincia + serata tech-house + guest magari pure bravo ma non particolarmente spiazzante, globalmente prestigioso e all’avanguardia, ecco, se c’avessero detto tutto questo avremmo pensato “Vabbé, alla fine è giusto che ci siano anche queste cose, ma le vere punte più interessanti sono altre”. Invece siamo in una fase storica in cui i valori si sono, ancora una volta, rovesciati; e le vere sorprese e la vera gioia del ballare ed uscire la sera nascono da una situazione come Simple forse più che dall’ennesimo pellegrinaggio al Panorama Bar, al Fabric o allo Space (che manco esiste più, rimpiazzato dal format lussuosino-pulitino dell’Hï…).
Questo perché il Sinatra, mentre mille discoteche-tempio hanno chiuso in giro per l’Italia, è riuscito a mantenersi benissimo, a non essere in alcun modo cattedrale nel deserto e a valorizzare le sue incredibili dimensioni e il suo essere così assurdamente poliedrico e grandioso (come ambivano ad essere le discoteche un tempo, quando vennero costruire per spazzare via la prevedibilità delle balere). E questo perché a Simple, collettivo composto da persone giovani e non da vecchi arnesi della notte, hanno evidentemente fatto un grandissimo lavoro sul territorio, basato in primis sul contatto reale con le persone (la loro pagina Facebook è ok, ma non ti sembra la pagina Facebook di un evento che fa ben più di 1000 persone a volta, non sta insomma nel web il segreto), che a sua volta si è tramutato in una partecipazione reale alla serata, avvertibile dall’attenzione che viene data al resident e dal fatto che l’affluenza non è legata tipo nodo scorsoio a quanto “tira” e quanto è figo il main guest di turno. A sua volta, questo fa sì che il main guest possa suonare più libero, non deve fare la superstar di turno su cui grava tutto il peso della riuscita della serata – cosa che obbliga spesso a seguire vie troppo sicure e troppo battute, come del resto sta diventando regola nei grandi festival.
(Lorenzo De Blanck, a sinistra, e Leon; continua sotto)
Non sappiamo quanto durerà, questo piccolo miracolo targato Simple. Ma sta durando già da un bel po’. Il che fa pensare che non sia una faccenda effimera. Quello che è sicuro, è che abbiamo visto e vissuto una delle serate più divertenti ed interessanti da tempo a questa parte. Anche e soprattutto una delle più sorprendenti. Da quanto tempo è che una serata tech-house non ci sorprendeva? Da quanto tempo è che una serata tech-house non vi sorprende? Magari vi diverte, ok – ma da quanto tempo non vi sorprende, da quanto tempo non vi fa dire “Ma cazzo, tutto questo non me l’aspettavo…”?