“Kamikaze” di Eminem è arrivato come un fulmine a ciel sereno: sia per la mancanza di annunci (e quindi l’uscita a sorpresa), sia per i contenuti. Certo, non è facile essere Eminem. Per nulla. Non è facile essere il rapper più influente degli ultimi 15 anni, il più amato e criticato, il più bravo e controverso. Eminem è stato ed è tutt’ora un alieno. Il pischello con i capelli biondi strafatto di psicofarmaci di dieci anni fa c’è ancora; e ancora fa quello che nessuno è lontanamente in grado di fare. Non Kendrick Lamar, non J.Cole e neanche Logic.
Nessuno come lui è in grado di manipolare e distorcere le parole, cercando e trovando rime nei modi più disparati, con la precisione di un chirurgo che riesce a sezionare la lingua parlata con minuzia maniacale. Si potrebbe andare avanti per ore, a parlare di quello che è stato e di quello che è in grado di fare Eminem. Di quello che ha rappresentato per l’hip hop, e per una parte dell’America di cui lui si è fatto portavoce.
Tutto questo in “Kamikaze” c’è, ed è bellissimo. È bellissimo ritrovare le sensazioni e il gusto della sua sfacciata ironia e della rabbia, che sembrava aver perso con le ultime pubblicazioni. Questo disco fa tornare gli ascoltatori indietro di dieci anni. E questo è il suo punto di forza. Ma anche il più grosso limite.
(eccolo qui, “Kamikaze”; continua sotto)
Andando per gradi, quindi. Eminem è un uomo di ormai 45 anni; è il rapper più famoso del mondo e quello tecnicamente più dotato. Bene. Ma oltre a ciò, cosa ha rappresentato Eminem? Perché lui è una leggenda vivente e altri no? Ragionando attorno a questo tema, ogni ascoltatore non potrà che pensare alle performance dissacranti contro il potere, contro i colleghi, contro un certo tipo di immagine patinata e luccicante che l’America cercava di pubblicizzare: l’immagine stereotipata degli USA come paese perfetto, in cui tutti riescono a compiere il percorso dell’American Dream. Eminem uscì invece avvolto dal fumo delle fabbriche di Detroit, parlando agro, a nome di tutti quelli a cui quel sogno era stato invece negato e che gridavano vendetta.
Con la maschera di Slim Shady riuscì a ridicolizzare la finzione di tutto un sistema costruito su macchiette, stereotipi e personaggi discutibili; con il suo rap più conscious invece affrontò il suo lato peggiore, quello che è insito nel cuore di ogni persona, il racconto delle proprie “zone d’ombra”.
(qual è il “vero” Slim Shady? continua sotto)
Questo è quello che la gente si aspetta da Eminem. Nell’immaginario collettivo, egli è una sorta di dio della morte con (in parte) una coscienza, in grado con la sua arte di polverizzare qualsiasi cosa, ma è al tempo stesso anche un profondo e caustico analista/cronista dell’animo umano nel suo lato meno raccomandabile, di cui riesce a cogliere le sfumature senza filtri. Questo vestito ormai gli è stato cucito addosso. E sembra che non sia più in grado di toglierselo.
“Revival”, il disco uscito meno di un anno fa e che è stato accolto molto tiepidamente da critica e pubblico, è stato infatti un tentativo di normalizzazione del personaggio. Un personaggio che voleva uscire dagli stereotipi a cui era stato associato fino a quel momento per passare ad una fase successiva della propria carriera. Un passaggio necessario e doveroso, per un uomo di 45 anni. O no?
(un brano così vale un’intera carriera; continua sotto)
Tutto questo a lui non è stato concesso. Forse “Revival” non era il disco più adeguato per l’intento (di sicuro aveva dei limiti evidenti, quell’album), ma era anche un modo per mostrarsi diverso e maturato al suo pubblico. Per gli ascoltatori è stato impensabile vedere il loro beniamino, colui che per dieci anni abbondanti era stato considerato il simbolo dei “white trash”, diventare un borghese come tutti, come le persone “normali” e non più esacerbate per principio contro il sistema, contro la società. (Anche) per questo “Revival” ha subito le critiche che ha subito; e per questo, probabilmente, “Kamikaze” sta piacendo così tanto.
“Kamikaze” riposiziona infatti Eminem nel recinto in cui i fan di mezzo mondo lo hanno rinchiuso. Lo riportano al clichè del ragazzo bianco incazzato con il mondo intero, in grado di radere al suolo tutto con la forza della parola. Le canzoni che più stanno piacendo del disco sono infatti la prova di quanto questo ragionamento abbia una sua ragion d’essere: “Gringer”, “Fall”, “The Greatest”, sono brani dove il rapper di Detroit ridicolizza la nuova scena (i Lil, Young, eccetera eccetera), i detrattori del suo precedente disco, i media di settore e pure i non addetti ai lavori – quelli che lo avevano criticato.
Nel farlo, riafferma con forza la sua figura come centrale per la cultura hip hop e pure la sua abilità di liricista. Cose mai davvero messe in discussione. Alla luce di tutto ciò, però, diventa paradossalmente complicato trarre delle conclusioni univoche per quanto riguarda “Kamikaze”, e più in generale per la posizione di Eminem nel 2018. Da una parte infatti c’è la consapevolezza dei limiti nei quali è collocata la figura del rapper di Detroit, cristallizzato in una dimensione in realtà ormai troppo piccola per lo spessore e le sfaccettature del suo talento. E tutto ciò mette tristezza: perché fa comprendere una volta di più come le dinamiche legate alle sensazioni/fascinazioni che un artista lascia al pubblico siano un’arma a doppio taglio. Dall’altro lato però c’è lo spirito del fanboy, che vede in “Kamikaze” un bel ritorno da parte di Marshall Mathers, rabbioso e affamato: da appassionato di rap, senza porsi problemi sul resto e senza fare troppi ragionamenti, un Eminem così tecnico, pungente e cinico, in un mondo di lil tizio, young caio e mumble-trapper di ogni sorta, è una boccata d’aria fresca.
“Kamikaze” non risolve alcun dubbio sulla collocazione di Eminem all’interno della scena attuale, questo è il punto. Anzi: forse li alimenta. È davvero finita la sua spinta innovatrice? O la sua abilità da liricista gli permetterà di essere sempre attuale e rilevante, anche trovandosi a ripetere la ricetta già (ab)usata? Le uniche certezze sono, per ora, quelle di chi ha voluto il ritorno di Shady a tutti i costi. E’ stato accontentato.